martedì 13 dicembre 2011

il cuore è uno zingaro e s'è fatto la macchina del cardiologo






Io me lo ricordo di quando sono andato al cine che c’era “balla coi lupi”. Avevo addosso una bella porzione di giovinezza, che son passati a spanna più di venti anni e era in un cinema di Perugia che forse ora non è più un cinema ma anche Perugia ora non è più Perugia e quindi i conti tornano. Mi ricordo anche che il film durava come un film e mezzo e quindi toccava appoggiare un supplemento in biglietteria e mi portavo dietro la ragazza e pagavo io pure se ero uno abbastanza fuori da queste smancerie ma a farmi pagare il cinema mi sentivo una tragica citazione gucciniana e quindi ci tenevo a fare la parte mia. E mi ricordo che quel film non mi era piaciuto, m’era sembrato una gondola in miniatura colle lucine da comprare a Venezia sulle bancarella che confrontato alle storie di laguna vere fa la sua misera figura. Però lo so che le gondole luminose hanno più mercato delle storie che piacciono a me. Lo so da sempre. Da quando mi hanno regalato una gondoletta luminosa almeno. Da quando studiavo lo sciamare degli scarafaggi dai tombini prima dell’acqua alta. Ma questa è un’altra storia. L’indiano di quel film si chiamava “vento nei capelli” o giù di lì, che dev’essere stato per via che quello che gli cavalcava davanti sofriva di aerofagia ma per quanto cercassi di destrutturare un’impalcatura narrativa fatta di stereotipi da spot pubblicitario tutti attorno a me si commuovevano. Quando ammazzavano il lupo “due calzini” la gente piangeva. Ora io volevo dirglielo “fratelli, il lupo non c’è più a giro perché li abbiamo ammazzati tutti, amici il lupo è quella roba lì che proiettate nell’immaginario dei vostri figlioletti per dare carne alla paura, sodali il lupo se ve lo trovate davanti non vi commuove di certo ma non ve lo trovate davanti perché un lupo me l’ha detto che ai cuccioli per fargli paura gli dicono “ti prende l’uomo cattivo” e loro hanno più ragione di noi a sostenere questa tesi, numeri alla mano”. Invece non ho detto nulla. Il film continuava raccontando come vivono i pellerossa e come è affascinante il loro legame armonico con la natura. Poi arrivano i bianchi e sterminano tutti. E giù di nuovo a piangere. Si accendevano le luci e tutti cogli occhi gonfi gonfi.

Un giorno invito Gianni Berengo Gardin a parlare a un nutrito gruppo di docenti delle superiori. Si parla di memoria e narrazione fotografica. Sempre ‘sta dannata narrazione direte voi. Io batto il ferro perché quello è il mestiere mio assegnato. Gianni è uno dei fotografi italiani più importanti di sempre, sicuramente il più testimoniato a livello editoriale. Gianni è uno che usa la macchina fotografica per raccontare ma con la consapevolezza che i suoi scatti non sono contorno alla storia ma sono piuttosto agenti di storia. Gianni entrava con Basaglia nei manicomi e ci raccontava l’orrore di quelle stanze intonacate a merda, sputi, sangue e disperazione. Gianni invece del filtro davanti alla lente sembrava avesse montato delle sbarre di ferro, tante sono le foto che raccontano il mondo oltre le grate.   



Tutti guardavano compiaciuti gli scatti. Gianni faceva vedere le foto di Venezia, col bacio sotto i portici, e quell’altra della coppia a bordo oceano dentro la macchina, un’icona senza tempo. Tutti guardavano compiaciuti gli scatti. Gianni alla fine della meraviglia mostrava i campi degli zingari e gli interni delle roulotte e i topi e i bambini. La gente lasciava da parte la meraviglia e cominciava a mormorare “a me m’hanno rubato la radio in macchina” “a mia cugina gli sono entrati in casa”. Uguali agli indiani della pellicola ma questi erano sotto casa non come i lupi e i pellerossa relegati in parchoi e riserve e quindi da piangere non c’era un cazzo di niente. A me non mi salta in mente di fare le tirate sul fatto che gli zingari son buoni e bravi che li conosco e bene e son dei discreti figli di puttana ma guardo tutti questi indignai e immagino non nutrano lo stesso risentimento per l’uomo in giacca e cravatta della banca anche se la porzione di furto consumata da quello lì va oltre tutte le autoradio possibili. Senza un briciolo di fottuta retorica ma piuttosto per completezza dell’informazione.



E allora mi son ricordato un altro film. Parla di due motociclisti come son motociclista io e tanti altri, e forse se lo sono è per aver consumato anche io la mia fetta consistente di suggestione filmica. ‘Sti due motociclisti non hanno una dimora fissa, guarda tu come fossero zingari. Se ne vanno in giro e vivono violando la legge, guarda un po’ tu, come capita agli zingari. ?Sti due motociclisti incontrano a un certo punto un altro sbiellato e son lì a raccontarsi che la gente, quel mucchiame lì indistinto di idea negata che definiamo per fiacchezza dell’informazione “la gente”, passa il tempo a parlarti dell’individuo ma quando se lo trovano davanti l’individuo poi si cagano addosso. E infatti la gente lo ammazza a bastonate quello sbiellato lì e poi si lavora anche gli altri due la bella gente lasciandoli morti sull’asfalto a farsi portare dalle note di Roger mc Guinn che è compartecipe dell’original soundtrack. Insomma io ho visto ‘sto film e l’ho capita la storia che devi averci ben presente l’idea di libertà, che l’idea che la ragione è della maggioranza non funziona, che la massa mugghiante non ha cervello ma monta come il fiume di piena sull’argine debole e porta come il fiume carichi di merda e carogne. ‘Sto film mi ha spiegato che ad averci le idee preconfezionate, già saltate nella padella, non c’è guadagno. Con buona pace di quelli che al cinema i film gli hanno insegnato a piangere fino allo scorrere dell’ultimo titolo di coda.





Ora, mentre scrivo, nell’aria torinese stagna ancora la puzza di bruciato. Una ragazza dopo aver scopato col suo uomo per paura della famiglia dice che l’hanno violentata gli zingari. Dalle Vallette, che non è proprio una zona d’agio, partono un mucchio di persone che dice che sono ultras della juve e pensa tu il cortocircuito delle appartenenze e delle territorialità che alle Vallette c’è pure il carcere torinese e le Vallette sono uno dei contenitori urbani riempito negli anni Sessanta o giù di lì di tutti i meridioni possibili. Bruciano un campo nomadi, che non mi sono simpatici a prescindere, perché io al cinema piango solo per Dumbo, ma che non posso odiare per abitudine. Non odio niente per abitudine, tranne i luoghi comuni e l’isteria collettiva. Ma evidentemente questi il film dei due motociclisti non l’hanno visto o non ci hanno capito un cazzo. Questi preferiscono averci un’idea collettiva, anabolizzata di leggende metropolitane e distorsioni del reale, questi si riconoscono sotto un segno d’apparttenenza, un grugnito, una svastica, un qualcosa. Preferiscono fare così che averci delle idee tutte loro, costruite a martellate su quello che la vita gli fa passare davanti. Sarà così. Come diceva Danilo Dolci “non sentite l’odore del fumo”. No, mi ripeto, questi il film dei due motociclisti non l’hanno mica visto mi ripeto. O non ci hanno capito un cazzo. Può essere.

venerdì 25 novembre 2011

la memoria fotografica





La ricerca  storica tradizionale ha basato, fino a tempi relativamente recenti, la sua struttura metodologica sull’analisi e l’esplorazione di precise tipologie di fonti, che erano considerate più “affidabili” rispetto ai dati forniti. Allo scopo l’esperienza dello storico era tutta circoscritta agli ambiti istituzionali, come archivi pubblici, biblioteche, musei, fondi privati di particolare consistenza. Anche in questi precisi ambiti il ricercatore tendeva a circoscrivere ulteriormente il suo terreno d’indagine, evitando di prendere in considerazione alcune tipologie di fonti. Negli ultimi anni la metodologia della ricerca ha accettato di confrontarsi con le fonti  in maniera molto più ampia e articolata. Lo “storico orco” teorizzato da Marc Bloch, fagocitatore di tutti gli ambiti documentali e in grado di analizzare le diverse tipologie di fonti riportandole sempre sul piano prioritario dell’ambito storiografico, è ormai una figura metodologica consapevolmente accettata dagli studiosi. Alle fonti tradizionali si affiancano adesso bacini documentali meno esplorati e il cinema, la fotografia, la musica, la pubblicità, la narrativa, il fumetto, la grafica, la cultura materiale, s’ intrecciano e si confrontano, fornendo spesso aspetti inediti e inconsueti delle realtà storiche e sociali che s’ intende analizzare o, ancora, rafforzando con ulteriori prove, la lettura di un determinato periodo già analizzato attraverso elementi consueti alla ricerca. Un impegno metodologico di questo tipo pretende una robusta preparazione del ricercatore che non può permettersi di indagare in modo superficiale le diverse tipologie di fonti ma che deve altresì essere edotto dei problemi di gestione tecnica dei materiali o di veicolazione degli stessi in rapporto al periodo di produzione. Risulta evidente che la natura infinita di informazioni possibili da confrontare sollecita un rapporto fitto di scambio all’interno della comunità scientifica e la costituzione di specialità d’ambito che di volta in volta possono essere coinvolte. Altro è l’ambito proprio dello storico dell’arte o del cinema, più specificamente vocati alla dissezione di determinati materiali, allo storico possono servire magari solo alcuni indizi contenuti nella tela o nella pellicola ma un confronto interdisciplinare diventa irrinunciabile e consente di acquisire altri elementi.
 
Il confronto tra le diverse fonti consente un’esposizione dinamica della ricerca storica, che permette di trasferire informazioni in maniera accattivante ma sempre senza banalizzare i contenuti. Soprattutto a livello didattico, la possibilità di leggere un periodo storico, attraverso l’interazione dei testi tradizionali e una rassegna di film o una panoramica dei linguaggi  pubblicitari dell’epoca, o, ancora, attraverso la canzone, può offrire la possibilità di lavorare con la variazione dei temi, su una soglia d’attenzione difficilmente raggiungibile attraverso l’esposizione tradizionale.

Proviamo a fare un esempio d’approccio metodologico: la lettura di un’immagine non è solo funzionale all’analisi tecnica o dei contenuti cosiddetti espliciti. Un film non deve necessariamente essere filologicamente  corretto nella ricostruzione del periodo e dei luoghi in cui i suoi personaggi si muovono ma spesso fornisce indizi sulla storia sociale o politica di un determinato contesto che  rischiano di passare inosservati. Nel 1963 il regista Ugo Gregoretti propone nelle sale italiane la sua prima opera cinematografica importante, sulla scia dei successi televisivi di questo autore. Omicron, questo il titolo del film, è uno stranito film fantascientifico in cui un extraterrestre  entra nel corpo di un operaio torinese, interpretato da Renato Salvatori, e inizia la sua esplorazione del mondo degli umani. La pellicola segnò inesorabilmente la carriera cinematografica di Gregoretti che non seppe più recuperare l’insuccesso di sala. A onor del vero, a volte la storia raccontata nella pellicola risente di ingenuità piuttosto evidenti che ne fanno a oggi un prodotto visto solo da cultori. Per lo storico però questo prodotto minore consente la lettura di determinati aspetti sociali significativi.  L’extraterrestre arriva alla catena di montaggio e l’uomo si prende la rivincita sulla macchina che dal celeberrimo Chaplin di“Tempi moderni” aveva infierito sull’elemento umano, ridotto a mero ingranaggio produttivo. Stavolta l’uomo è tale solo nell’aspetto esteriore e lavora alla pressa con un ritmo forsennato, fino all’esplosione della macchina utensile. Ai colleghi sbigottiti da tale incremento produttivo il caporeparto sottolinea che da adesso si lavora a quel ritmo e che non vuole più sentire parlare di supersfruttamento. A questo punto lo storico è sollecitato. Il concetto di supersfruttamento fu materia di dibattito sindacale solo nel ’63, anno di produzione del film. Successivamente si ritenne inutile distinguere tra sfruttamento e supersfruttamento e probabilmente di questa polemica restano solo brandelli scomposti negli archivi ma in questa pellicola, pure minore e sicuramente, per la scelta del regista, lontana da temi marcatamente realistici, ne abbiamo sicuro riferimento. A questo punto il laboratorio attivato comincerà a ricostruire gli anni del Boom economico attraverso le canzoni dell’epoca, le fotografie, i giornali, la pubblicità e gli apparati multidisciplinari svilupperanno in modo naturale un possibile prodotto multimediale.
Abbiamo scelto un esempio piuttosto specifico e complesso nella gestione perché risulta evidente che altri materiali danno immediata ragione dei possibili collegamenti ma se tutto è fonte ci si può applicare anche su temi considerati marginali e poco utili. Certo se si vuole parlare di guerra di resistenza e si utilizza “L’Agnese va a morire” di Giuliano Montaldo i riferimenti sono molto più diretti ma è lo storico che ci può raccontare l’importanza di una pellicola sui temi della resistenza che ha per protagonista una donna e che viene realizzato nel 1976, anno in cui la figura femminile  è al centro di aspre lotte di rivendicazione.
   
L’interazione delle diverse tipologia delle fonti restituisce efficacemente  i quadri politici, economici e sociali. Altro è raccontare il boom economico dell’Italia degli anni Sessanta attraverso le tabelle di analisi demografica e i grafici che danno ragione degli incrementi produttivi, altro è affiancare a questi dati le pubblicità dell’epoca dove categorie sociali come la casalinga e il giovane, compiutamente espresse in quel periodo, hanno una loro evidenza e sono in relazione coi beni di consumo e le abitudini nuove. A livello didattico non deve sfuggire il rapporto che corre tra l’utente medio e i materiali proposti. Ci sono immagini, segni, gesti che sono entrati ormai nell’immaginario collettivo come iconici di una determinata epoca. Se mostriamo un’ utilitaria Fiat 500, sappiamo per certo che il richiamo agli anni del boom è piuttosto automatico e conviene lavorare sul dato acquisito per fornire sicurezza e consapevolezza. Successivamente all’immagine della famiglia stipata nell’utilitaria  affianchiamo la pubblicità di un frigorifero e raccontiamo che sui mercati internazionali l’Italia si colloca come massimo produttore di quell’elettrodomestico. Il dato è interessante, curioso ma soprattutto reso meno lontano dalla vicinanza con la nostra utilitaria che fornirà  un ponte tra le informazioni acquisite e quelle nuove.
Attraverso questo confronto si potranno definire le differenti identità culturali, i modi sociali mutuati da ambiti esterni e più in generale avere una visione complessiva degli eventi storici. A questo punto proponiamo un film dell’epoca che mostra una famiglia in vacanza, lo associamo a una canzone come “Con le pinne, il fucile e gli occhiali” e possiamo permetterci una riflessione sul tempo libero e sulle ferie di massa e, più in generale,  sulle modalità di sviluppo della società industriale. 


 
Nell’ottica del “tutto è fonte” nuovo interesse destano i materiali conservati all’interno dei singoli nuclei familiari e nelle piccole comunità, supporti fondamentali di certo lessico familiare e conservati come traccia di memoria domestica. I riti di passaggio fondamentali, la nascita, la formazione di una coppia, la morte, trovano testimonianza efficace nei materiali conservati nei cassetti delle case di tutte le famiglie, indipendentemente dall’estrazione sociale. Lo storico trova spunti alla ricerca anche in elementi che all’origine non rivestivano interesse specifico. Una foto può ritrarre un lontano parente e per chi la possiede è già supporto alla memoria, all’emozione ma magari lo storico troverà più interessante il tram a cavalli che si intravede alle spalle del personaggio ritratto. In ogni caso non c’è un ordine gerarchico di interesse dello studioso nei confronti delle fonti e anche quelle domestiche possono rivelarsi efficaci testimoni.


martedì 22 novembre 2011

Cogli l'attimo furente




Il professionismo in fotografia si è svelato, nel corso dei passaggi storici attraverso il Novecento, come una dimensione eclettica che continuamente deve misurarsi con il mercato e con le evoluzioni tecniche. La moda, la foto industriale, il design, la politica sono ambiti che sanno ancora una volta svelare l’efficacia innegabile del mezzo fotografico nell’epoca della comunicazione di massa. La possibilità estesa a tutti di realizzare immagini si amplifica nell’era della fotografia digitale, stravolgendo i criteri di gestione dell’immagine professionale ma anche il rapporto dei mezzi d’informazione con il prodotto foto. Vale la pena fare una riflessione sulla fotografia come prodotto del presente. Con l’affermazione dell’immagine digitale, che consente una produzione di immagini altissima a costi contenuti e una altrettanto rapida veicolazione delle stesse, l’ambito professionale ha dovuto far fronte a nuove problematiche. La questione centrale dall’inizio era proprio la riconoscibilità autoriale. Tre sono le peculiarità che identificano il professionista nella massa fotografante: l’occhio, che consente di scegliere l’inquadratura più efficace per raccontare con le immagini e per catturare emozioni; la capacità di utilizzare efficacemente strumenti tecnici complessi; il confronto con il mercato. Con la fotografia digitale la stessa proprietà di un’immagine, attestata dal possesso del negativo originale, entra in crisi, rendendo meno definito il concetto di titolarità autoriale, per il quale tanto si sono battuti i fotografi professionisti nel corso di tutto il Novecento. Le fotografie reperite in rete possono essere scaricate e manipolate con una facilità mai prima registrata con i supporti tradizionali, e anche i materiali cartacei possono essere riprodotti con una fedeltà che con i sistemi analogici richiedeva una certa esperienza e attrezzature specifiche che ora sono compendiate efficacemente da scanner a prezzi abbordabili e da programmi di fotoritocco alla portata di una buona parte degli utenti di attrezzature fotografiche.
La realizzazione di immagini di qualità con gli strumenti disponibili sul mercato delle macchine digitali, che solo fino a pochissimo tempo fa offrivano prestazioni ancora lontane dai risultati ottenibili con le pellicole, consentono ora un incredibile controllo dell’immagine e l’impiego di attrezzature assai meno dispendiose e ingombranti di quelle tradizionali. Senza contare che non c’è la necessità di avere tra lo scatto e il prodotto finito la mediazione del laboratorio, perché il file è disponibile da subito, e inoltre può essere migliorato e modificato dai programmi studiati allo scopo, Le esigenze professionali fanno però in modo che anche in questo ambito le specializzazioni determinino l’utilizzo di attrezzature più sofisticate, giustificando gli investimenti con il rientro commerciale. Di pari passo con l’evoluzione tecnica, il professionista lavora sui moduli espressivi e sullo stile che in qualche modo possa caratterizzare il suo lavoro, cercando di connotare i suoi scatti attraverso una precisa personalità autoriale. Innegabilmente però, aldilà degli esiti della produzione di immagini professionali, la nostra epoca si caratterizza per una produzione enorme di fotografie e con questo dato deve confrontarsi necessariamente anche il professionista.



New York, undici settembre 2001, nella mattinata due aerei si schiantano in rapida successione contro le due torri del World Trade Center. A pilotare i velivoli, in un’azione combinata tremendamente efficace, è un gruppo di terroristi islamici. La nostra analisi di questo episodio si limiterà alla sua rappresentazione attraverso la realizzazione di immagini. Nella sua natura più strettamente dinamica, l’azione dell’aereo che impatta sull’edificio è caratterizzata da due elementi fondamentali che sono anche ispiratori delle soluzioni tattiche adottate dal commando: la rapidità e l’effetto sorpresa. L’aereo arriva veloce e inaspettato sul suo obiettivo, impedendo l’attivazione di qualsiasi contromisura dei sistemi di sicurezza. Un' azione così repentina non si può certo documentare agevolmente con una macchina fotografica. Nessun fotografo, per quanto ben scortato dal meraviglioso “istinto dell’attimo” potrebbe farsi trovare pronto, con le attrezzature sapientemente disposte, teso a fermare l’immagine dell’aereo che impatta contro l’edificio. Il professionista, e ben lo sanno quelli specializzati in foto naturalistica, si apposta valutando la probabilità che davanti ai suoi obiettivi si verifichi l’evento che dia un senso di eccezionalità ai suoi scatti o che almeno possa descrivere significativamente il contesto che intende raccontare con i suoi scatti. Ai fotoamatori che catturano frequenti immagini, a volte interessantissime, che pure resteranno nei cassetti ignare dei giochi del mercato, ai dilettanti presi da passione passeggera per la realizzazione delle fotografie, a quelli che girano con una macchina fotografica in tasca perché non si può mai sapere, resta da giocare la partita del caso, con un calcolo probabilistico che ai giorni nostri gli assegna già il premio per la puntuale documentazione grazie solo al loro numero enorme rispetto alla schiera selezionata dei professionisti.
E infatti dell’aereo piantato sul fianco del grattacielo e nella polpa dello sgomento di milioni di persone abbiamo testimonianza grazie a quelli che erano lì, in vacanza, concentrati a raccogliere schegge di memoria per implementare archivi domestici. Il rumore assordante dell’aereo che piomba sulla città e gli sguardi che d’istinto si rivolgono al cielo e l’inquadratura della famiglia sotto le Twin Towers che si perde perché l’obiettivo segue l’attenzione di chi scatta e guarda verso il cielo, verso l’incredibile: nelle videocamere riempite di sorrisi turistici, nelle fotocamere usa e getta, nelle webcam puntate sulla città statunitense paradigma dell’Occidente, quel momento viene impresso e passa dai bollettini su Internet ai notiziari e ai giornali e la qualità è poca cosa ma nemmeno dalle immagini di partigiani impiccati, scattate scostando appena un lembo del cappotto davanti all’obiettivo clandestino, ci si attendono esposizioni calibrate, dettagli e definizione. Eppure di quel breve attimo, non certo dell’agonia dei due grattacieli e delle facce dei soccorritori e dei corpi di quelli che scelgono di lanciarsi nel vuoto per non morire arsi vivi, tutte cose che già avevano addosso le lenti rapide, esperte dei professionisti, rimane memoria grazie al lavoro capillare di catalogazione dei gesti minimi che è caratteristica del nostro presente e che si affida alla moltitudine dei praticanti della fotografia. Già a partire dal secondo impatto, gli obiettivi dei grandi professionisti sono tutti puntati sulla scena, dando prova dell’efficienza della macchina complessa del mondo dell’informazione. Sui giornali e nelle mostre allestite successivamente, le immagini dei fotoreporter più o meno improvvisati e quelle dei professionisti viaggeranno in parallelo, e sarà difficile distinguerle tra loro.

Proviamo ora a spostare l’attenzione sulla realtà italiana. “Un morto, quasi seicento feriti (560), oltre duecento persone arrestate (219), circa cinquanta miliardi di danni: ecco le cifre del G8. Ecco i numeri del vertice degli otto paesi più industrializzati, andato in scena a Genova da venerdì 20 luglio a domenica 22. Tre giorni di discussioni per i grandi della terra, tre giorni segnati in maniera tragica dall’uccisione di un ragazzo di 23 anni, Carlo Giuliani, uno dei contestatori colpito venerdì pomeriggio da un colpo di pistola esploso da un giovane carabiniere. La foto di questo ragazzo, steso sul selciato di piazza Alimonda, con una pozza di sangue ad allargarsi dietro la testa, le braccia a croce e un compagno che tenta di rianimarlo è il simbolo di quello che è accaduto a Genova.” (1)



Genova nell’estate del 2001, in corrispondenza con il G8, che si è deciso di tenere nel capoluogo ligure, è attraversata da aspri scontri. Come era già accaduto nel luglio del 1960, stesso mese stesse scene per i carrugi genovesi, gli scontri tra dimostranti e forze dell’ordine sono violenti. Il culmine di questi eventi è l’uccisione del giovane Carlo Giuliani. La scena della tragedia è in piazza Alimonda. Un fuoristrada dei carabinieri viene assaltato da un gruppo di manifestanti. Dal finestrino rotto del veicolo spunta una mano che stringe una pistola d’ordinanza. Un giovane a volto coperto, Carlo Giuliani appunto, sta avanzando incontro al mezzo e ha tra le mani un’estintore che ha appena raccolto da terra e che, nelle probabili intenzioni, sta cercando di scagliare contro il fuoristrada dei carabinieri bloccato da un cassonetto. Rimane freddato dal proiettile che lo colpisce allo zigomo. Ebbene, di quella scena si scopriranno fotografie diverse, angolazioni e particolari che potranno offrire indizi alla verità.
Tutte le inchieste, le analisi, le cronache dei giornali utilizzeranno le immagini per spiegarsi e spiegare quei tragici secondi che passano tra il momento in cui il ragazzo raccoglie l’estintore da terra e il momento in cui giace immobile in una pozza di sangue (2). Perché di questo si tratta, di pochi secondi che pure sono testimoniati con un’incredibile quantità di materiali filmati e fotografie. Ancora una volta viene da chiedersi se per le vie del capoluogo ligure in quella giornata si muovessero fotografi e videoperatori dalla spiccatissima sensibilità, capaci di intuire la tragedia incombente e di fermarla sulle pellicole e nelle schede di memoria o piuttosto la mole di documenti fotografici prodotta in quelle ore era tale da farci pensare che di tutti i momenti di quella giornata tragica ci siano immagini testimoni ora conservate negli archivi istituzionali, nelle agenzie, negli schedari dei professionisti, nelle sedi delle diverse compagini scese in piazza per protestare e, infine, nei cassetti di casa. Addirittura la testimonianza che pare nei giorni successivi più attendibile e che tutti i giornali riportano è quella di un fotografo free lance (3), quasi che in quella moltitudine la sua possibilità esegetica fosse più significativa proprio per l’abitudine del mestiere che la collettività pare riconoscere (4). Quasi che, in quella moltitudine di testimoni sbigottiti, quello che il fotografo vede e può raccontare sia per sua natura più affidabile come documento. L’equivoco della foto come portatrice di verità pare irrobustirsi col tempo. A dispetto delle acquisite consapevolezze di chi indaga le fonti.A dispetto di chi resta in terra.



 La conclusione di questa nostra riflessione ci porta ancora a ritenere che non è così azzardato affermare che più che grandi fotografi esistano grandi fotografie ma, nondimeno, certe figure autoriali hanno saputo negli anni costruire un lessico complesso e raffinato che è diventato pagina privilegiata per raccontare la nostra storia recente.

Le immagini che nella società moderna hanno un’autorità praticamente illimitata sono infatti soprattutto immagini fotografiche, e la portata di questa autorità deriva dalle caratteristiche proprie delle immagini prese da macchine fotografiche.” (5).



note


(1)        Il G8 finisce nel sangue. Ucciso un manifestante. La Repubblica, 22 luglio 2001.
(2)  Una rassegna dei materiali fotografici e video è contenuta in rete sul sito www.piazzacarlogiuliani.org.
(4)             Un primo comunicato stampa dell’ANSA, datato 20 luglio 2001, h. 20.16, recita: “Ho sentito due colpi. Pensavo fossero in aria invece ho visto cadere un ragazzo”. Bruno Abile, fotografo freelance di Parigi, racconta la sparatoria nella quale e' rimasto oggi ucciso un giovane a Genova. Questa testimonianza, arricchita da particolari, viene successivamente riproposta da molti giornali italiani.
(5)             Addirittura l’esame autoptico della salma di Carlo Giuliani, un documento possibilmente basato sull’analisi scientifica, farà riferimento alla documentazione fotografica: Tenuto conto dell’altezza della vittima (165 cm) e della traiettoria balistica del proiettile bisogna ritenere che il feritore fosse più alto del Giuliani o meglio (alla luce anche della documentazione fotografica dei fatti) fosse in posizione elevata rispetto alla vittima. (il verbale è consultabile per intero sul sito www.piazzacarlogiuliani.org).
(6)             Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1992, pag. 132.
 

mercoledì 9 novembre 2011

a immagine e somiglianza





Vengo da mille mestieri e faccio mille mestieri. Nessuna possibilità di fare dunque bene davvero. Frugo anche nella memoria, con le dita veloci del borseggiatore sull’autobus carico di sudori e bestemmie di una qualsiasi ora di punta. Di buono c’è che le mie vittime designate non subiscono gli scossoni delle frenate brusche e gli sguardi astiosi di quelli dello “scusi, alla prossima scende”, limitandosi a passare da uno schedario a un tavolo, nei casi più fortunati, o, ed è peggior sorte, a venirsene via appiccicate tra loro e vergognose dell’ingiuria del tempo. A me viene chiesto di guardarle le prede mie, strana beffa per i miei occhi incerti, lasciando a loro il compito di accendere emozioni. L’approccio scientifico lo conservo per quelli dall’altra parte della porta, giocandoci l’un l’altro questa mano a bluffare, con presunte professionalità che fanno da paravento a certi intimi entusiasmi. Il lavoro si concretizza in volumi e mostre che non rendono mai piena giustizia, guai se così fosse, del mio motore originario ma che consentono a me di campare e a altri di vivere, sempre con un forse davanti, attraverso il materiale da me selezionato e proposto, un proprio percorso emotivo. Se fin qui non sono stato poco chiaro, goffo espediente di scrittura per aggrapparmi alla vostra attenzione, tanto vale rendere più esplicite le mie mosse svelando, e confido che qualcuno ci sia già arrivato da solo, che l’arte mia è quella di maneggiare anche fotografie e di farne io stesso, cercando di istituire delle riserve testimoniali protette in una realtà dove i bracconieri di ricordi la fanno da padroni. Sull’arbitrarietà del gesto non v’è dubbio e mai sarò qui a sostenere l’imparzialità dei miei sentimenti, che mi ostino a sottolineare influenzano il mio lavoro oltre la dimestichezza con il metodo scientifico che pur cerco di foraggiare e tenere robusto dentro di me. Un metodo che parte dall'idea prima che la verità non esiste. Lascio da parte, almeno tra noi ce ne sbattiamo del cerimoniale, le riflessioni sul valore documentale e sulla possibilità che all’interno di una stessa fotografia siano contenute infinite frecce semantiche in grado di sollecitare specializzate curiosità, centrando l’attenzione su di una sorta di traccia emozionale che non è meno importante dell’implicazione razionalistica che mi spinge a selezionare un’immagine in particolare. Mi sono ritrovato a riflettere su questi meccanismi quando il mio mestiere è scivolato dalla realizzazione di mie storie fotografiche a una più generica misura della narrazione fotografica che passava dal lavoro di altri, realizzato in tempi diversi e in luoghi variati, perchè le coordinate croniche e topiche sono un nesso sulla probabilità per uno che non si fida della verità. Qualche anno fa, son troppi se ci penso,  portavo a conclusione un volume che mi era costato diversi mesi di lavoro vagando per gli archivi della penisola. Mi servivano fotografie italiane scattate in un periodo compreso tra il ‘53 e il ’67 e ovviamente la mole di materiale che mi è passata davanti in quei mesi supera ogni possibile fantasia. Sui criteri della selezione, considerando quella sorta di coazione a ripetere che caratterizza molti dei fotografi di quegli anni rispetto a certe tipologie, la varietà non era tale da consentire impennate narrative particolari ma il lavoro non si presentava certo noioso. Ho seguito la costruzione del volume fino nei suoi particolari minimi e quando a fine marzo l’ho visto nelle vetrine delle librerie e in cima alle classifiche di vendita nazionali, bontà loro, ho cominciato il giro delle presentazioni e delle interviste guardandomi bene dallo sfogliare un testo che pensavo non mi potesse riservare sorprese. Soltanto a fine estate, con rispetto per il mio metabolismo tartarughino, e in modo piuttosto casuale, mi sono ritrovato a risfogliare il volume con curiosità, provando una certa emozione davanti alle immagini che non erano più soltanto la testimonianza efficace di un determinato periodo storico ma che, per averle maneggiate, annusate, spostate, scartate, ripescate e guardate ancora, fino negli interstizi minimi che la sensibilità della pellicola mi consentiva di indagare, sono parte della mia memoria più viva. Guardando alcune fotografie mi sono ricordato di quando per le mie ricerche mi sono fermato a Firenze per una decina di giorni e, per ragioni che mi diventa difficile spiegare  mi capitava talvolta, sempre a dire il vero, di rimanere a dormire la notte in macchina, parcheggiato sulla riva dell’Arno. Di fronte alla biblioteca nazionale per intenderci. La notte si popolava di personaggi, luci e odori tra le cui pieghe il mio sonno trovava brevi tregue e l’alba mi beccava sempre lì, con il coltello aperto nascosto sotto il maglione che rischiava ogni volta di aprirmi lo stomaco e la sveglia sul cruscotto che suonava quando ormai ero già desto. In seguito una copia del libro l’ho portata anche al barista che in quei giorni, senza chiedere mai più di quello che avrei voluto rispondere, mi vedeva entrare cisposo e arruffato e risortire ripulito e reso elegante dai vestiti smessi di mio padre che detto così sembra roba da poco ma era tutta stoffa buona e morbida che ancora indosso a distanza di venti anni.. Nel corso della giornata la mia ricerca riprendeva forma e tornavo ad essere il dottore di qua, dottore c’è questo e dottore posso offrire, che se solo avessero sospettato chissà come mi avrebbero guardato. A distanza di tempo, riguardando le fotografie su cui lavoravo in quel periodo non ho potuto fare a meno di pensare con una certa tenerezza a quei giorni e ho constatato divertito che il materiale selezionato a Firenze, l'archivio del Mondo di panunzio conservato in un sottotetto della biblioteca, è tutto in relazione con la realtà marginale, la periferia depressa e i mille piccoli espedienti della sopravvivenza disperata. Indubbiamente, per il mio libro questi sono temi interessantissimi ma l’influenza della mia esperienza di quei giorni sugli esiti della ricerca è palese.
Lavorando con le fotografie si finisce per fare i conti con il loro potere evocativo che, per la loro stessa natura, agisce in tempi brevissimi su di noi, bastando anche un’occhiata distratta per sollecitare ricordi ed emozioni e mentre scrivo questi appunti disordinati qualcuno magari starà sfogliando il mio volume riconoscendosi in un volto, in un luogo o in un semplice gesto o, e la catena diventa ossessiva, correrà col pensiero al giorno dell’acquisto del libro stesso, alla faccia della commessa, al bar dove fanno quel caffè di merda e via di questo passo. Per quello che riguarda me, con i soldi di questo libro ho comprato una macchina molto più spaziosa di quella di prima.







giovedì 27 ottobre 2011

la lega, il bossi e i maroni




sei partito per la crociata verso roma, carcassa verminosa di un sistema di cui non volevate essere più sudditi te ne torni con i figli piazzati in giro per gli scranni e gli uffici europei e la moglie in pensione a 39 anni. e a quei poveri ebeti del tuo elettorato mugghiante gli gridi "facciamo vedere che ce l'abbiamo duro" e evidente che tra erezione e rigor mortis ci passano delle differenze. senza parlare di "secessione. imbracciamo le armi" per poi ritrovarti col tuo pupillo maroni, ve lo ricordate maroni ai suoi esordi imbarazzanti ora secondo i media, è il volto accettabile di questa stagione, il delfino, che si scaglia contro la violenza di piazza. del resto a scagliarsi c'erano lui e alemanno e i pulpiti sono ormai una cosa che affitti a ore. e della pensione di tua moglie dici" era un suo diritto". un cazzo di bieco diritto figlio di tutto quello per cui ti avevano mandato lì a batterti forte del tuo diploma alla scuola radio elettra che galvanizzava i tuoi elettori. dici che tua moglie ha solo usufruito di un diritto all'epoca esteso anche a molti altri. io penso che se un sistema mi fa schifo la dignità, ma nel tuo caso oltre alla dignità ci sono tutti quelli lì che t'hanno votato e che l'hanno fatto perchè tu scendessi giù a suonargliele a quei romaladroni, la dignità dicevo, mi impone di non essere compartecipe e beneficiario. se il mio vicino tortura i gatti e piscia nelle cassette della posta io quando offrirà il pranzo a tutto il quartiere per festeggiare i soldi fatti coi filmini venduti sottobanco delle torture ai felini, a quel tavolo non mi ci vado a sedere. bossi mio, io li conosco gli occhi di quelli che ti hanno votato, son velati da una maledetta fatica che forse non gli ha mai fornito motori critici troppo raffinati. e tu e i tuoi accoliti ne avete approfittato biecamente. dandogli in cambio una bellissima camicia verde. il potere delle camice. sarebbe da farci due riflessioni. io non ho mai fatto un concorso pubblico, non ho una casa popolare, non ho benefici, non mi riconosco in questa sinistra ma tu tieni in piedi il più agghiacciante dei teatrini politici mai proposto, un troiaio spaventoso dove interessi pubblici e privati si intrecciano com'è sempre stato ma con in più quella tracotanza ignobile di questi che se ne vanno in giro con la certezza che tutto resterà impunito. a me delle sorti istituzionali delle tue scelte p di quelle di bersani o  di quelle di alfano non me ne fotte un cazzo. io sostengo da sempre l'urgenza di pensare e mai per procura, forse sbagliando, ma con piena paternità di fatti e parole. scrivo perchè li vedo i miei indiani nella riserva che ancora credono che è tutta colpa dei negri e delle tasse. con la camicia verde. e la facia verde.

martedì 11 ottobre 2011

scatta la canzone

ieri stavamo lì, sui divani in finta pelle nera che rhobbo mette generosamente a disposizione e incrociavamo parole e chitarre. il blues è il cardine di queste nostre sessioni del lunedi sera in una fabbrica riadattata a scuola di musica in barriera di milano. e si parlava di Robert Johnson e dimmi tu se non ti puoi sentire fortunato a averci della gente con cui parlare di Robert Johnson il lunedi sera in una vecchia fabbrica su un divano in finta pelle nera e con Rhobbo che è il maestro Jedi di tutte le corde suonabili. quando dico che sono un uomo felice non esagero ma la felicità non è un regalo, è piuttosto una cosa che devi strapparti a denti serrati dalle carni vaghe dell'esistere. ma è un'altra storia. insomma eravamo lì a raccontarci le nostre storie con un vago shuffle a portarle e ascoltavamo e giravamo attorno a certi maledetti turnaround, che girarci attorno è tutto quello che si può fare appunto. e tornando a casa nella città che ormai a quell'ora si fa inghiottire dal buio pensavo a questo fatto che mi porto dentro una sorta di colonna sonora permanente e che la sovraesposizione alla musica per tutti questi anni ha finito per dare una sorta di fondo musicale a tutti i miei gesti, alla quotidianità spesa nel banale procedere di sempre e agli eventi iconici di una vita. indifferentemente. la musica c'è sempre e me la canticchio a fior di labbra o me la suono con enfasi in testa e mi tiro certi assoli che scansati. una volta ho sognato un concerto di springsteen da solo in un bar e mi ha fatto un inedito che non è mai esistito se non nel mio sogno ma se è per questo spesso sogno di vivere tra i personaggi disney in carne e ossa e vado a pesca con cip e ciop tutti pelosi e grassoni che la barca rischia sempre di rovesciarsi per cui i miei sogni son sempre una cosa piuttosto in bilico. e mentre facevo 'sti pensieri che lo capisco da solo che son cose di poco prezzo ma ognuno ha in testa la bancarella di idee che si merita, mi sono reso conto che i milioni di foto che ho scattato per mestiere e per l'ossessione narrativa che da sempre mi anima sono percorse sempre da una musica che mi suonavo mentre inquadravo.
così questa foto sotto i portici


si porta dentro questa canzone

lunedì 10 ottobre 2011

bavagli e bavaglioli



io sono a favore di una robusta ranzata censoria sulle parole, sulle idee e sulle opinioni. io sono a favore del controllo su tutto. sono a favore della libera espressione univoca. non voglio più scrivere per paura che altri usino le mie parole, le mie idee carpendole dal cesto dell'innocenza in cui le conservo per farne strumentalmente usi impropri e dannosi. da qui l'idea di limitare il mio racconto alle cose che si incontrano in strada. dando magari qualche bella idea per lo svago e il tempo libero. già, il tempo libero, troppa sedizione si cela in questo concetto. il tempo partecipe forse piace di più. come dici? partecipe di cosa? maddai, allora proprio non vuoi capirla... remi contro. io sono a favore della legge bavaglia... ma le immagini, quelle le immagini parlano da sole.


martedì 4 ottobre 2011

tenendo bancone









e me ne vado al bar mio dopo una giornata caricata a sale e sparata nella schiena. mi metto al tavolino mio e bevo e mangio e leggo il giornale. dani e ste parlano con quelli del bar che è una seconda casa nostra. lo dico di altri settanta bar e osterie e trattorie e chioschi e furgoni della porchetta. per fortuna non sono case tassate. e c'è questo qui che c'è sempre e ha un cane vecchissimo che se ne muore un po' ogni giorno, come per tutti gli altri noi compresi ma in questo cane qui è una cosa palese parecchio. son sei anni almeno che sta morendo. quando a quello del tavolo della zecchinetta gli è venuto l'ictus l'hanno portato due mesi dopo a giocare sulla sedia a rotelle come il conte mascetti e lui guardando di traverso il cane vecchio ha biascicato "mi stava sul cazzo che morivo io e 'sto cazzo di cane campava ancora". ma il padrone del cane è uno che ha la faccia strana, sembra uno cattivo. pochi denti in bocca, tutto rasato, collana d'oro. l'ho fotografato mentre guarda di sghimbescio ste che paga alla cassa. l'ho fotografato nel riflesso dello specchio dietro il bancone, ficcato tra l'amaro averna e il don bairo l'uvamaro.sono anni che cerca di parlarmi ma io svicolo che al bar mio voglio bere in silenzio. oggi prende la questione di petto, mi si piazza davanti e inizia a freddo "sono del Cinquantatre, sono nato in fondo alla calabria. eravamo poverissimi che avevamo il mito dei filmi di maciste e andavamo in certe grotte a fare come quei filmi che la maga era moira orfei e la sorella e invece eravamo seccati di fame e pesavamo trenta chili e quando arrivavano le ragazze l'estate dal nord ma mica turisti, gente dei nostri, ci atteggiavamio a fare i tuffi con certi fisici di schifo e si tuffavano da venti metri, io da otto poi siamo emigrati a torino che avevo sedici anni e non ho potuto migliorare il tuffo e ho iniziato a lavorare e i ricci e i polpi che mi mangiavo allora si può dire che sono stati tutta la vita bella che ho fatto perchè poi solo fabbrica, tranne l'anno del militare. se ora mi fai nuotare mi affogo che nella vasca da bagno quasi mi metto i braccioli ma allora era un'altra cosa e sono andato sulla spadara a vedere la pesca e il pezzo attorno alla punta dell'arpione il capo barca lo taglia e dice che lo mangia solo lui che lì è il più buono perchè il pesce ci ha concentrato tutto il dolore. insomma eravamo come dei indigeni e io mi ho rotto un braccio da piccolo e non lo dicevo sennò erano botte e mio padre era civile abbastanza e colla cinghia ci faceva il verde ma mai il nero nero. eravamo sporchi e nella strada che io il polpo mangiavo solo le gambette da crudo e poi buttavo tutto ma se entravi nell'acqua allora era come i filmi dei pescatori di perle ora non c'è più manco l'acqua. eravamo così poveri che a quattordici anni mia madre ha comprato il dentifricio e io e mio fratello che non lo avevamo mai visto l'abbiamo messo sul panbe e ce lo siamo finiuti come un gelato. poi è venuta la fabbrica e non ho più niente da ricordare. mi dispiace.

giovedì 29 settembre 2011

panciotto mio fatti capanna





Le dita, quelle grosse dita che gli fanno impaccio quando accarezza un bambino o tiene in mano una tazzina buona,  passano e ripassano sul velluto del panciotto. Seduto sulla poltrona nel buio del teatro che per questa sera è cinematografo. Palco d'onore il suo e su tutto ci son velluti di pregio. Come su quel panciotto che proprio non se lo voleva mettere e invece alla fine l'hanno convinto. Gli hanno assegnato una poltrona quasi vicino al signor Giovanni, al Pastrone direbbe parlando di confidenza con gli altri che lavorano con lui, che poi sono soprattutto gli attrezzisti e i facchini. Con quella gente ci sta bene, è la sua gente e la fatica di portare casse sulle spalle è una lingua universale e lui l'ha imparata che quasi era ancora bambino. E sarà stato quello a farlo grande e grosso. Bocche in casa da sfamare ce n'erano parecchie e allora via a lavorare giù al porto che per lui, genovese di Sant'Ilario, era il confine di tutti i mondi possibili. Con quei moli che si coprivano di merci e la gente che s'ammassava per prendere le navi, che a partire, con la maledetta miseria, che t'arriva alle spalle come un calcio nel sedere e ti butta fuori di casa, è un dispiacere anche quando la casa è ammobiliata solo di fame e freddo. E ora Bartolomeo il gigante del porto  è lì con quel panciotto da signori che le sue grosse dita non smettono di percorrere sulla traccia tattile del velluto. Seduto vicino a lui, nel palco d'onore, c'è anche il poeta, e davvero gli darebbe gusto caricarselo su quelle sue spalle larghe per portarlo all'osteria del Caricamento. Giusto per far vedere ai suoi amici di sempre com'è fatta quella gente lì. Gabriele d'Annunzio si chiama quell'omarino, il poeta, che lui quasi gli scappa da ridere a vedere come si comporta ma sente che tutti gli altri lo portano in rispetto e allora gli monta quella vergogna alla gola che ce l'aveva anche a Genova quando passava un signore ben vestito. Per non parlare delle donne eleganti, che si capiva che lui non sarebbe mai riuscito a parlarci nemmeno se si fosse caricato di coraggio con il vino. Il poeta, che roba. Hanno un bel ripetergli che questo suo nome qui del cinematografo, che lui ora lo chiamano Maciste anche quando non è nel film, l'ha inventato proprio il Gabriele d'Annunzio. Del resto a lui l'avevano battezzato Bartolomeo e con quel nome lì non ci crede nessuno che sei un personaggio di quei film di eroi, ambientati in una di quelle epoche che lui non l'ha neanche tanto capito ma è chiaro da come li vestono che è roba degli antichi tipo i romani o la bibbia o magari  anche quelli dell'Africa. Lui quasi si sente di conoscerla l'Africa meglio di quegli altri, per quanto siano signori. Fin da bambino ha sentito i racconti dei marinai che tornavano dai paesi lontani e gli pare proprio d'averla sentita mica una volta sola questa storia che in Africa ci sono quelle razze che hanno le tuniche bianche addosso e saranno vestiti come quando si gira la pellicola del cinematografo. Nè più nè meno. Certo in Africa è difficile che hanno la luce elettrica e invece il Pastrone l'ha usata moltissimo nel suo film per fare quella pellicola bellissima che adesso sono tutti lì a vederla alla proiezione al teatro Regio di Torino e c'è il coro e l'orchestra e il poeta e le donne eleganti e il panciotto a filo di dita. Quel Pastrone è uno che la sa lunga. Ha fatto costruire gli stabilimenti dove fanno il cinematografo e a Torino son tutti dietro a fare cinematografo ma il migliore è proprio il signor Giovanni che ha capito prima di tutti che quello lì è davvero un bell'affare e ha smesso di fare il musicista, proprio nell'orchestra del Teatro Regio che sta suonando questa sera, per buttarsi nell'avventura del cinema. E ha anche scoperto lui, Pagano Bartolomeo, che faceva lo scaricatore, il camallo si dice a Genova, e lo ha portato a Torino perchè gli serviva uno grande e grosso, un gigante buono con una forza spropositata, che poi tanto il cinema anche esagera certe volte e la gente se lo immagina ma gli piace crederci uguale. Adesso sono tutti lì che si proietta per la prima volta la pellicola di Cabiria che è stata un lavoro lungo e pieno di cose che l’hanno lasciato meravigliato e che vorrebbe far vedere a quelli rimasti a lavorare al porto. Questa pellicola dura quasi quattro ore, accompagnata dalla musica dell'orchestra perchè il sonoro in quei film, siamo nel 1914, non c'è ancora. La vicenda è d'ambientazione storica. Pastrone ha la passione per quel genere di pellicole e sembra destinato a grandissimi successi ma lui è uomo che si fa travolgere dai nuovi entusiasmi che il progresso tecnologico e scientifico gli suggerisce e, solo quattro anni dopo  Cabiria, abbandonerà la carriera cinematografica all'apice per dedicarsi agli studi di medicina. Bartolomeo Pagano ormai per tutti Maciste, girerà ancora moltissimi film, fino agli anni Trenta, tutti incentrati sulla figura del gigante forzuto al servizio del bene. Non tornerà più a fare il camallo al porto ma prenderà abitudine alle luci degli stabilimenti cinematografici, al ronzio della cinepresa .
Si riaccendono le luci e parte un lungo applauso. Tutti gli sguardi sono rivolti a loro. Pastrone fa brevi inchini, gli attori sorridono, il poeta fa quelle sue facce strane ma dev’essere per quello che è poeta.  Bartolomeo non gli presta attenzione e ringrazia di averci addosso un bel panciotto per quel’occasione.







sabato 24 settembre 2011

la vita ha la strada segnata e anche il bufalo





il viaggio di questa volta è scivolato via come un flusso di coscienza, come un guizzo di coscia, come un sorriso dal finestrino e una maledizione dal buio. in macchina ho tutto quello che mi serve per i tre giorni di strada che ho davanti. quarantasei anni nomadi m'hanno insegnato a sottrarre. e ora, per partire, mi basta una giacca con parecchie tasche nel sedile posteriore, una maglietta e una mutanda e mezzo sapone nello zaino insieme al computer e alla macchina fotografica e la vecchia leatherman consumata e penne stilo e quaderni e le carammelle alle erbe che compro in una piccolissima bottega di Brà. scarpe robuste e jeans d'abitudine e son pronto. Stavolta parto e tra una cosa e l'altra mi mangio millecinquecento chilometri in quaran'otto ore. praticamente sempre in macchina se si esclude un documentario che gireremo venerdi mattina al Maxxi a Roma. vado. Volo. scorta di musica e bottiglia d'acqua. ascolto la registrazione dal vivo di Lino Straulino, il portentoso Lino Straulino che a goderselo tutto ci vorrebbe il privilegio concesso a ognuno di una serata a tavola con lui e una chitarra e se vi dice culo anche il banjo asei corde costruito dl liutaio Catania per gli italiani che cercavano di misuarsi con la tradizione sonora d'oltreoceano ma che potevano farlo grazie a quello strumento continuando a suonare come se avessero avuto nelle mani una chitarra, una familiare chitarra. Devo scrivere qualche pagina su Lino e ascolto e raccolgo le idee e altre me ne vengono e passano da un autogrill all'altro e le pagine migliori come al solito le immagino e le perdo alle piazzole di sosta. Pisciando sull'asfalto smangiato del bordo della strada. Lino Straulino è una colonna sonora perfetta e alla fine di questo viaggio canteremo in coro io e lui a voce spiegata e a finestrini spalancati al tramonto che arriva. Sul sedile dietro c'è Sciumi, il cane mio Sciumi. La notte ci fermiamo in un uliveto e camminiamo e respiriamo quell'aria lì che mangia la stanchezza, ce secca la tristezza. Io e Sciumi insieme siamo perfettissimi e quando tocca ripartire lui mi fa un fischio e io salto in macchina.
All'alba, sul raccordo arrivo in planata e devo arrivare a Fiumicino a recuperare Massimiliano. sono in largo anticipo e me la prendo comoda. Ascolto Howlin' Wolf. Poi le macchine cominciano ad accatastarsi, a incolonnarsi colla tosse dei motori al mattino. Penso che sono sul raccordo ed è normale. Normale un cazzo. Si sono incartati tra loro, accartocciati e c'è un corpo in terra e sangue, un sacco di fottuto sangue in terra. arrivo a Fiumicino con due ore di ritardo e quindi quasi in orario. Arrivo a fiumicino che ancora faccio i conti col tempo e col tempo che finisce e con quel morto lì per terra. Arrivo a Fiumicino che è già tempo di ripartire. poi sarà un altro correre e altre mete e mille parole e Sciumi mangerà la migliore amatriciana della sua vita. la mangerò anche io e ci strizzeremo reciprocamente l'occhio più chiaro che entrambi ci portiamo addosso per un'attenzione monoculare alla vita che con l'altro occhio inseguiamo i sogni nostri. e guardiamo i morti in terra.

mercoledì 21 settembre 2011

la ballata delle bestemmie e del Boia




http://www.youtube.com/watch?v=WVuOo_LwzXs&feature=related



"Come sto ?”
“T’ho visto meglio fratello. Diciamo che hai avuto giorni migliori.”
Stai come uno che s’è piantato nel fianco d’un furgone, di slancio, moto, tuta in pelle e bestemmia tutto insieme. Stai come uno che non ci posso credere che dopo milioni di pieghe al limite e staccate a spezzare la leva e a mettergli l’ansia addosso ai Discacciati flottanti fatti fare su misura, poi si pianta col botto in una fila lenta, allungata su una statale della Val Susa. Davanti al forte di Exile e davanti pure agli occhi di Boia che è amico tuo, ombra tua che ora prova la fottuta paura addosso di non sentirti parlare, di non trovare niente sotto la visiera. Davanti pure a altri occhi, che da copione diranno di non avere visto.
“Come sto ?”
“T’ho visto meglio fratello. Diciamo che hai avuto giorni migliori.”
Stai come uno che era già un po’ che tirava i dadi e barava sulle caselle, mai per vincere, solo per andare un po’ più avanti del lecito. Stai come la migliore delle Gibson, la più cristallina delle Martin, la perfettissima tra le Fender nelle mani sbagliate. Nelle mie mani per esempio. Soprattutto stai per terra, con le labbra a un millimetro dall’asfalto e il fiato strozzato che appanna il catrame lucido. La puzza della benzina e della paura le senti anche oggi e le percepisco anche io, che tutti ogni tanto ci pensiamo. Giusto per poterci eventualmente dire poi “allora è così che arriva il dolore”. Con una guancia appoggiata all’asfalto in un lento appassionato con la puttana statale e il braccio a cingere… il braccio… già, il braccio.
“Dove cazzo è il mio braccio? S’è staccato? Non lo sento più:”
“Ce l’hai, ce l’hai. Ora però stai calmo che cerchiamo di sfilarti dalla moto, che te la sei parcheggiata sulla schiena e forse è meglio toglierla.”
Infatti, ne approfitto per svelartelo visto che Boia, con quella sua delicatezza che è marchio di fabbrica registrato, te ne ha fatto un accenno. Si sono invertite le parti e tra te e la Guzzi quello sotto sei tu. Se hai pazienza e devi averne fratello credimi, ora ti leviamo dalle ossa la bestia di ferro in agonia. Le hanno spezzato il filo della schiena, le hanno assestato una mazzata sulla fronte come si faceva coi tori. Da non crederci. Il telaio spezzato proprio sotto la sella e la forcella chiusa come la lama d’un tragico serramanico.
“Come sto ?”
“T’ho visto meglio fratello. Diciamo che hai avuto giorni migliori.”
“E la moto.”
“Non ci pensare adesso.”
Quando arriva l’elisoccorso e ti imballano a quell’altro scemo dell’amico tuo gli scappa pure di sussurrarti a filo d’orecchio “guarda che culo, ora ti fai pure un giro con l’elicottero”. Non ho mai smesso di pensare che almeno c’era Boia che è tuo fratello e pure mio fratello e siamo una cazzo di famiglia scassa che non vince quasi mai.. E tu forse, mentre l’altro ti saluta, già dormi e t’hanno tagliato la tuta tua di pelle in strisce buone per farci le cinture da vendere l’estate sulla spiaggia di Riccione.
“Come sto”dici.. Stai come uno che non se ne fa una ragione. Tutta colpa del generale Custer e di quegli altri che ne hanno massacrati a mucchi di indiani e li hanno terrorizzati e piegati alla logica della riserva. E tu hai avuto la sfiga di incontrare uno di quella razza lì cancellata, che gira senza frecce. Te l’avrei voluta dire questa merda di battuta, giusto per farmi insultare e spostare l’ago del dolore ma l’elica già tira delle sberle di peso all’aria e ti sollevano.

Nella stanza del CTO ci arriva ridotto davvero una mappina. La testa gli rimane voltata da un lato e fermata da certi rivetti invisibili al cuscino. Il corridoio, l’ascensore, la camera, tutto pieno di noi razza randagia e incollocabile.E certe infermiere sorridono e certe s’incazzano e certe ci guardano con la rassegnazione di quando scruti oltre il vetro e fuori piove. E la sfilata nostra è cosa lunga e articolata. Quei corridoi, quelle scale e quell’ascensore, niente è pronto, psicologicamente attrezzato, per ricevere l’orda. In quei giorni ogni tanto me lo sono chiesto perché la maggior parte di noi è fuori taglia, troppo grossi, troppo goffi, troppo chiasso e troppa polvere sollevata. Un impasto di bestemmie, grasso, inchiostro, tatuaggi e segni sparsi e calli da chitarra e cicatrici gastriche da eccesso e fegati indonabili e moto parcheggiate fuori e femmine, tutte le femmine, inquadrate nei mirini nostri per cabrate improbabili che non faremo mai. Quasi mai.
E in lunga processione arrivano tutti e ognuno, in uno scontro titanico davvero, s’affanna a dimostrarsi il più imbecille. Un po’ perché imbecilli lo siamo, un po’ per mostrargli il culo alla malasorte.
Un pomeriggio Tommy e Andrea non riuscendo a montare una forcella la prendono di peso e dall’officina la portano pari pari al capezzale. Rispettosi dell’orario di visita ovviamente. Parcheggiano la Fiat 124 grigia con interni in finta pelle rossa, siamo nel 2007,  e passano la reception sfoderando la faccia da culo migliore che conoscono. E quell’altro, col collo a tirargli la testa da un lato, a ringhiare la soluzione tecnica pregando di non sboccargli d’olio le lenzuola. E tutti, proprio tutti, vicino di letto compreso, a ridere come meravigliose teste di cazzo.

E’ una storia che non finisce bene e nemmeno male ma come per tutte le storie nostre è importante che soprattutto non finisca.