venerdì 28 febbraio 2014

Di me, del tempo e di Luciano Bianciardi









ho quarantotto anni. ci penso a volte, che fra venti sarò un vecchio e non sarà una nozione meramente morale, un'attitudine al pensiero canuto ma piuttosto la misura fisica dell'impaccio, della fatica d'essere e di camminare, una misura di quel fiato che manca e che serbi con parsimonia al futuro prossimo che a quell'altro di futuro non c'è più da pensare. non sono mica tanti vent'anni e allora chiudo gli occhi e penso cosa ho fatto nei miei primi vent'anni e dopo e ancora e le frazioni e i bisesti da contare col dubbio del baro al tavolo della tua mano di tempo. fra vent'anni sarò un vecchio, un vecchio abbastanza, e mio figlio sarà quasi me adesso e si porterà nel mondo pezzi miei, che siamo da generazioni razza vagante. fra vent'anni farò ancora l'amore ma forse non sarà quella disputa coi sensi che mi fotte tutti i giorni ora e prima, che i segni di quello scorrere impietoso del tempo non si palesano ancora sulle mie voglie e non sono di quelli che vanno tutti i giorni a correre al parco che ho da ballare piuttosto tra le lenzuola. ma chi può sapere tra vent'anni. non è una cosa che mi preoccupa, ci penso con curiosità e quasi con la certezza che altri venti non ho nemmeno da farli tutti interi per quello che mi resta e per quello che ho speso. fra vent'anni certo non sarò diventato più ricco, non son buono d'essere ricco e se lo fossi spenderei fino alla povertà. fra vent'anni guarderò alla mia vita come a una sfacciata fortuna, perchè è così che la guardo ora, vada come vada. fra vent'anni sarò morto o a un passo dal crepare e altri cento ne vorrei di anni, magari solo per poter camminare in confidenza con la risacca e sulla sabbia con accanto chi dico io. poi penso che quando è morto Bianciardi era già stato tutto e niente dentro un corpo solo e aveva la mia età adesso. mi sto regalando l'inutilità di altri vent'anni di questo passo.




lunedì 17 febbraio 2014

Shine on me











disguidi metropolitani. sto camminando verso il parco con il cane. sono completamente svuotato dall'ultima sessione davanti al computer e tra i fogli, per una di quelle cose di mestiere, che cerco di smazzarmi il finesettimana incastrando parole e immagini e pagine e file e chiavette e zippature e te l'ho mandato e non l'ho ricevuto e revisioni e maledizioni e sonno perduto e musica per respirare. Già, il mio mestiere, questo arranco editoriale bianciardiano che mi tiene in vita e mi ucciderà con immutata grazia alla fine. ma ora è notte e mi scrollo i copia e gli incolla dalla punta delle dita e i mela qualcosa, ricordandomi mentre cammino che l'ultima volta che ho mangiato era venerdi a pranzo e ora è sabato ed è notte e nemmeno uno straccio di kebab a portata di passo. respiro però e il cane mi guida come faceva un tempo con le pecore, che tra lui e me c'è comunanza per mestiere di vivere a volte e senza metafora. sono nel controviale che conosco a memoria come conosco a memoria tutte le strade sotto tutte le case che ho riempito in questi anni del niente disordinato che mi camallo da un trasloco all'altro, con la disinvoltura di un assassino seriale di memoria. Non passa nessuno nel viale e ce la camminiamo in punta di notte e il cane, tre passi avanti, ogni tanto si volta a vedere se sono ancora vivo, che le chiavi di casa ce le ho io e non si sa mai. Poi arriva questo con la sua macchina troppo coupè, troppo nuova, troppo giusta, troppo tedesca. Frena davanti al semaforo che è in turno di riposo e respira del sonno che sanno prendersi quegli aggeggi lì quando emettono con regolarità una luce gialla pulsante, che è presa di distanza da ogni responsabilità eventuale, che ti dice fai come cazzo vuoi che è notte ma poi non venirmi a cercare. Questo frena la sua macchina di lusso e scende sul bordo dell'incrocio. Avrà la mia età ma governa uno sproposito di cavalli mentre io ho un cane che potete anche chiamare Libero se volete e ho le dita che ancora grondano resti di parole. Scende e barcolla e è male in arnese e troppi ne vedo di questi che vengono a raccattare un pizzico di bonza dai senegal all'angolo per sentirsi vivi e per giustificare il guizzo della cravatta allentata e della risata e della faccia degna di un quadro di Kokoschka. Quel pittore lì ho sempre pensato che sarebbe stato perfettissimo per illustrare "Il tamburo di latta" fosse stato mai illustrato. come Lada per Sveick, la morte sua. E pure la morte di questo qui che è sceso dalla Porsche, che vigliacco se la propunci con la "e" finale che le spetterebbe. Barcolla e sta male. Arriva davanti all'auto si volta e vomita di getto. Sul cofano. Solo sul cofano. Mi guarda senza vedermi. Il cane s'è fermato e punta come quando c'è un conto in sospeso. L'altro risale in macchina pulendosi le labbra gonfie e bluastre con la manica della giacca. Ha i bottoni dorati. Riparte sgommando. Senza lasciare traccia perchè è così che si muove l'organismo complesso di questa città terminale. Il parco è lì a due passi e noi si riprende a vagare in punta di notte.





mercoledì 12 febbraio 2014

Bau Bau Freak Antoni














io son di quella razza lì che quando gli skiantos iniziavano a cantare già li sapevo e giravano i 45 giri e tutti ciondolavamo la notte ululando alla voglia di quell'età lì che ci piacevano le sbarbine. io son di quella razza che per ogni lampeggio azzurro che sciabolava nei vicoli magari attaccava a correre ma dentro gli partiva il karabigniere blues. io son di quella razza che al liceo saliva in piedi sulla cattedra e recitava i versi dedicati a buba loris e poi m'hanno bocciato. io son di quella razza che siamo rimasti quei ragazzi semplici che eravamo e il successo non ci ha cambiato. io son di quella razza che ci siamo fatti da soli. molti hanno anche salutato educatamente prima di andarsene. io son di quella razza che leggeva frigidaire e dentro le storie di paz c'era quella broda di freak. io son di quella razza che scriveva pure su frigidaire perchè al peggio non c'è mai fine e la razza mia lo sa bene. io son di quella razza che un'estate a sinalunga mentre mi stavano rubando un pezzo di vita che io i lucchetti non li metto mai tanto perdo le chiavi, sono andato al campo sportivo e c'era una festa di paese, di quel paese dove ci vivevo io e c'è nata rosi bindi e ci stanno asserragliati gli eredi ultimi del duce, e c'era un palco della musica da ballo che pompava sulla folla e un altro palco piccolo e sopra si agitava uno coi pantaloni mimentici larghissimi e dietro io l'ho riconosciuto che c'era il bestiale dandy bestia e erano loro al completo e hanno fatto un concerto per sei persone e poi abbiamo bevuto e ci siamo abbracciati per scambiarci il niente e ci siamo rullati di cartoni. io son di quella razza che ha i suoi libri di quello lì conservati dalla prima edizione. io son di quella razza che gli ha voluto bene sul serio. giù il cappello che se n'è andato Freak Antoni. bau bau baby.




domenica 2 febbraio 2014

Moto d'animo



eddai. come le altre volte. fai partire la canzone qui sotto e poi inizia a leggere.






Ho visto cose che voi umani non  riuscireste a immaginare, perché sono il vostro quotidiano, i vostri passi che credete sempre diversi e invece premono, alla stessa ora e con la stessa millimetrica forza, le solite piastrelle e i soliti vialetti e le solite scale. Ho visto cose che farebbero tremare i polsi ai più arditi ma che solo la distrazione cela allo sguardo. Ho visto cose che pochi possono guardare con i miei stessi occhi strabici, che mi consentono d’essere attento a due scene, in due direzioni contemporaneamente. Sempre con grande danno per l’esperienza e per il cervello.

Corso Vittorio al sole, nell’ora di punta dell’uscita dagli uffici e dalla noia. Per correre come furetti furenti verso quell’altra noia catodica e i piatti caldi come questa estate che porta sole e gente ai murazzi la sera. Sono le sei ma siamo nelle giornate più lunghe dell’anno o forse la mia memoria infallibile vacilla e sono solo le quattro ed è maggio o luglio o settembre nero. Arrivo all’incrocio col lembo ultimo del Valentino e poi davanti ho di nuovo il Po a marcia invertita che è più un rito di passaggio che un luogo in questa capitale sabauda cloppetettante sui tacchetti amplificati ad arte. Il Po passa schiumando tra i piloni di cemento, sempre nella direzione opposta alla mia sensazione. Da piccolo passavo i ponti e vedevo la distesa d’acqua, compatta e a specchio, senza indizi che svelassero il senso della corrente. O forse c’erano e non li sapevo decifrare. Adesso attraverso con la moto, attento come posso al traffico che marca a uomo, a cofano, a paraurti. Ho solo un attimo per guardare l’acqua e ogni volta mi meraviglio. Il Po a piazza Vittorio marcia contromano da un pezzo e la gente non se ne accorge. Mille anni prima di ora, non ricordo in quale carne io mi celassi ma c’ero, venivo in riva a quest’acqua che correva come dio consiglia, da piazza Vittorio a corso Vittorio, che allora si chiamavano con altro nome e migliore fantasia.
Ma stavolta è successo qualcosa. Si è sfasciato un tubo, una condotta, un qualcosa che pompa acqua nelle vene della metropoli e lo slargo è riempito da mezzo metro d’acqua furibonda. Un paralitico se ne rimane in mezzo al gorgo con le ruote affondate nel pantano e tutti sono sgomenti e quei vigili, chili di cerebro rubati dal barattolo dell’AB qualcosa, dirottano il traffico in un vialetto del parco che è strada chiusa e non sembra che si siano accorti del tipo che stringe le dita sulle ruote della carrozzella, i denti contro i denti e cerca di scampare al diluvio che tutti ci punisce ma lui lo fotte proprio. Dio è giusto. Giusto un po’. Sono in rara tenuta giacca e cravatta, capita con la cadenza delle eclissi totali o quando cambio lavoro. Per la santa precisione in questi ultii quindici anni m'è capitato questa volta qui e un'altra volta che con il Boia ci siamo ficcati in una storia che va bene da raccontare la sera al bar tra amici ma che rendere pubblica è azzardato. Insomma sospetto che a me la giacca e la cravatta non portino grande fortuna anche se quella volta con il Boia ci hanno cavato fuori dai casini. Ma torniamo alla porzione di città allagata. Me ne rimango seduto sulla mia Guzzi, che in questa sede eviterò di celebrare con enfasi ma che è evidentemente un parto della volontà divina cui l’uomo ha aggiunto la vernice e i filetti dorati tirati a mano. Il bicilindrico, badate bene che mi sono risparmiato di dire il mitico che di questa parola c’è manifesto e prolungato abuso, borbotta e tossicchia davanti a quell’acqua che sembra un modellino in scala delle tragedie di Po, delle acque invasate che invadono. Qui poi c’è pure puzza di merda. Mi affianca uno con un’Honda customizzata che mi guarda. Soprattutto la cravatta guarda questo qui e piega di rinforzo la faccia a ghigno. Ha un casco plasticoso e mimetico. Un pupazzo come ne girano tanti nel percorso garage bar. Quando viaggi per il mondo questi non li incontri mai. Memore dei guadi con Jeio, roba da dogma assoluto e fede incrollabile nella tecnica meccanica mandelliana, non degno di sguardo e dico vado. La prima strappa, anzi è la frizione che strappa mentre la prima entra con quel vezzo di certe volte di farsi sentire da tutto l’isolato. E muovo tutto quel peso tronfio, quell’eccesso di trippa ferrosa e affondo con le ruote e non mollo il gas per non succhiare acqua con gli scarichi e sfioro il paralitico che mi guarda speranzoso e lo supero che ho la moto mica il pattìno del bagnino e raggiungo l’asciutto e vado oltre. Nello specchietto, per tutto il tempo, mi è rimasto quello con l’Honda, a seguirmi fiducioso. Poi scivola e cade e è solo un'assenza nello specchietto per quello che mi riguarda. La città, questa città, è una giungla e ci sono pure le sabbie mobili.