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Ph. Giorgio Olmoti |
"e io piangerò e saranno lacrime di silicone, perchè il futuro tutti ci svelerà per quegli androidi di prima generazione che siamo, difettosi nel chip dell'emozione." blughost
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Ph. Giorgio Olmoti |
Mi sono, nel bene e nel male, creato da solo. Ci ho messo qualcosa di più di sette giorni. Prima il respiro che non usciva, l'ho inventato a poche ore dalla nascita, che già mi davano per morto. Poi imparare a guardare e a parlare, subito pare e in una maniera che lasciava sgomenti. Parlavo e ero piccolissimo e argomentavo. L'agiografia famigliare dice che avevo sempre da ridire e avevo un parere mio su tutto prima di compiere un anno. Era la mia strategia difensiva credo. Che l'ho capito che toccava guardarsi le spalle da solo già da subito. Poi camminare, male, sempre incasinando un passo davanti all'altro. E correre e cadere e la bicicletta e parlare con tutti gli animali e provare a inseguirli e stare per ore a guardarli. Ho imparato a leggere con fatica e scrivevo malissimo e in giro in giro per il foglio. Forse avevo qualche disturbo dell'apprendimento ma allora si diceva solo che ero uno che non aveva voglia di fare un cazzo a scuola. Probabile. E intanto mi creavo da solo con quello che c'era. Come un piatto arrangiato con le cose che trovi nel frigo la sera tardi e sei stanco. E poi sono venuti i libri e i fumetti e i film guardati in bianco e nero con mio padre alla televisione. I boschi e l'acqua e cominciare a scoprire che ne valeva la pena. Guardare il mondo perdendosi nell'attenzione ai particolari, come in certe tavole complesse di Jacovitti che stai lì a scoprire per ore. Mi sentivo padrone del mio mondo. Ed è arrivata tutta insieme quella maledizione di una voglia che ti prendeva allo stomaco e ti ingombrava tutti i pensieri. Le femmine erano al centro di tutto ma tu non eri al centro di niente per loro. Una maledetta fatica. E allora i libri non bastavano più e avevi un carico di emozioni che non sapevi dove parcheggiare ed è cominciata quella cosa lì di ficcarti, saltandoci dentro a piedi uniti, nella musica. Altro che la memoria imbarazzante dello Zecchino d'oro e dei quarantaquattro gatti che cantavi gridando in auto fino a scoppiare. Per la gioia della famiglia che aveva preso a trattarti come si tratta un forsennato. Sono arrivate le canzoni e ho fatto come faccio sempre. Mi sono letto di tutto, ho ascoltato per ore la radio ogni giorno, mi guardavo in giro. Studiavo. Stavo zitto e cercavo di imparare. Il primo vinile è stato Bob Dylan. Avevo un disco ma non avevo un giradischi. Costruire da zero tutto il mio Empire of dirt, citando Cash che fa una cover meglio dell'originale. Il primo stereo era, giuro, un giradischi mono collegato con i fili volanti al bauletto di una vespa Px appeso al muro e su cui, come usava, erano montate delle casse. Come dici? Come facevo ad averci il bauletto di una Vespa? Non ricordo. In ogni caso è in prescrizione. E avevo un registratore a cassette con la radio che era un bel modo di allora per sentire la musica. Al punto che per anni ho avuto solo cassette e pochi dischi feticcio. Migliaia di C90 con due album registrati, uno per lato, e le copertine scritte a mano e disegnate da me medesimo. E sono arrivati Crosby, Stills, Nash and Young. Credo che Deja vu sia il disco che ho ascoltato di più nella mia vita. E poi i dischi da solisti e la monumentale opera di Young e il sogno delle ore di registrazione con Hendrix che Stills conserva gelosamente e che non è stato pubblicato. E poi Crosby, quella voce lì mi ha inchiodato le emozioni all'anima, come le tesi luterane al portone della chiesa. Mi ha cambiato la vita. Una parte irrinunciabile. Me lo sono portato dietro fino qui che mi sono creato tutto da solo e ora comincio a vedere le crepe in quell'argilla da poco. Crosby è parte preponderante della mia personalissima colonna sonora. E ora è morto. Abbiamo giocato ogni volta che lo sentivo a credere nell'immortalità e a ridere di quei complottisti che sostengono che anche uno come lui è destinato a morire. E oggi è morto. Un giorno Ste mi ha portato ad Aosta a vedere Crosby Stills e Nash e erano già vecchi e viaggiavano ognuno su un autobus nero enorme suo. Senza guardarsi in faccia. Ma sotto quel palco, c'ero andato sospettando la delusione, Crosby si è proposto al pubblico come se il tempo non fosse mai esistito. Una voce miracolosa. E io ero arrivato lì con la paura di fare i conti con il reale. Sembravo quel suo personaggio che guarda nello specchietto e vede l'auto di madama e si fa stringere al collo dalla mano della paranoia. Crosby è morto e io mi sono creato da solo usando anche quelle sue canzoni. E grazie a lui ricordo ancora il mio nome. Quasi sempre. Ma avrei voluto chiamarmi Crosby e forse per questo il mio cane si chiama Nash.
Ciao Croz
Primo movimento
Il campetto giù allo scalo è invaso dal primo sole veramente estivo. I ragazzini corrono dietro al pallone gridando. Al Guasto, per arrivare lì, gli è toccato passare davanti al bar della stazione. C’era da giurarci che suo nonno se ne restava lì al tavolino a sentirsi passare gli anni addosso, bevendo quel vino avvelenato e berciando con quegli altri rancidi a chi era nel giusto e chi nello sbagliato. Qualsiasi fosse l'argomento. Non gli piaceva punto passare da quella parte, sentendosi addosso gli occhi di quello schifo d'uomo con le unghie sepolte come fossili sotto ere geologiche di sporcizia e l'alito da trogolo e quel puzzo di piscio e nafta che si portava nei panni frusti. L'aveva sempre odiato quel vecchio e la cosa doveva essere reciproca. A memoria sua, la carogna, il padre di sua madre, non gli aveva mai rivolto un accenno di grazia, un sorriso, un’attenzione. Si limitava a guardarlo come fosse un cane nato con tre zampe. E anche mentre passava con i pantaloni di tre taglie più grandi che gli dondolavano sui passi come la gonna di una ballerina spagnola della televisione, giuraci che era lì a guardarlo con disgusto e la testa piegata di lato. Magari qualcuno dei suoi gli avrà anche domandato “ma non è il figliolo della Cate quello lì?”, chiedendoglielo più per dispetto che per informazione. Lui non avrà risposto, continuando a fissare quel mucchio d'ossa e pelle troppo pallida.
Abitavano vicini il Guasto e suo nonno. Proprio la stessa casa ma con due porte diverse per entrarci. Il padre era sparito in Belgio e dopo le prime lettere e qualche spicciolo non ne avevano più avuto notizia. La Cate andava a servizio dalla moglie di quello del Consorzio e dice che si consolava con diversi maschi della zona. Era una cosa che si sapeva e a scuola ogni tanto qualcuno gli soffiava come un serpe “Guasto, tua madre è una troia”. Anche al nonno erano arrivate le voci e la sera in casa si sentiva gridare a volte. Dopo una cena ringhiata il vecchio merdaiolo era andato vicino a farla secca con un bottiglione del vino vuoto. Glielo aveva tirato dietro mentre lei si alzava dalla tavola dove dividevano quello che c'era. Di suo, il Guasto s'era convinto che la rabbia del nonno dipendesse da quella maledizione di dover contribuire a sfamare la figlia e il nipote. E poi c'è quella storia del nome, che lui mica se lo ricorda quando hanno cominciato a chiamalo “Guasto” ma quando gli viene quella rabbia lì, che la conosce solo lui e che gli sale dalla pancia alla gola con il sapore amaro di fiele, gli monta il sospetto che quella maledizione d'essere chiamato da tutti così deve essere un regalo, l'unico, del vecchio. Giuraci che è stato lui a cominciare a chiamarlo così con gli amici del bar allo scalo. Dove sta anche adesso e lo guarda e fa la faccia dello schifo. Remo, che così si chiama il Guasto all’anagrafe, va avanti e non si gira, fissando piuttosto l'attenzione sulle lucertole che fuggono al suo passaggio. Lui lo sa bene che se ti muovi piano, pianissimo, quelle bestie lì le freghi e le puoi prendere con il cappio fatto con l’erba lunga e tirarle su allo strangolo e guardare che spasimano di riuscire a infilarsi nei loro buchi. Le tieni sollevate e ti godi quella frenesia disperata come fossi dio che manda le piaghe sulla sua gente.
Il campetto sta lì, riempito dalle urla e dai colpi secchi sul pallone di cuoio consumato. Rubato alla palestra della scuola media di Sapriano, il paese vicino. Perché il cane non piscia mai dove mangia dice il vecchio Morchia che ha fatto il ladro tutta la vita. Le scarpe di tutti non sono buone per quell'agone sportivo e giuraci che a casa qualcuno stasera si prenderà le sberle. Non è certo un problema del Guasto. Lui non gioca. Sta a guardare di là dalla rete e resta seduto sulle seggiolette di plastica ingiallita messe da un improbabile pubblico improvvisato. Nell'erba sporca ci sono due ragazzetti che non sono in età per stare lì in mezzo a giocare ma restano nei paraggi perché può sempre succedere che vengano chiamati dentro a rimpiazzare qualcuno. Stanno lì come i cani sotto il tavolo, che s'approfittano dei pezzi di pane che cadono in terra. E intanto guardano quegli altri che corrono e rotolano nell’erba zellosa e si gridano i morti e i parenti. Ogni tanto arriva anche Simone che ha la stessa età del Guasto e andavano all’asilo insieme ma non si sono mai dati troppa confidenza. Non gioca a pallone, sembra lui il pallone, è grasso e ha gli occhiali con la montatura verde smeraldo e le lenti tondissime a enfatizzare la grossa testa e gli occhi sbarrati. Va in giro con un cagnetto secco e basso, nero focato. Simone lo chiamano con un elenco di trovate spiritose che hanno a che fare con il peso in eccesso e gli occhiali e la puzza dei piedi. Inventano i nomi le rare volte che lo chiamano ma non è mai per cercarlo davvero, piuttosto per ridere a bocche spalancate, di quello sguaiarsi di rabbia e acido dello stomaco alla bocca, che non ha nulla da spartire con il divertirsi. Però lui ha il cane che gli gira attorno allegro, pensa il Guasto. Poi vede un’altra lucertola sul muretto. Immobile al sole. Il rettile muraiolo aspetta una mosca o un altro insetto da acchiappare al volo. Cerca il bastone il Guasto, quel legno nodoso che si porta sempre dietro. Con l’aria di essere un pastore del presepe, che la consistenza del suo pelle e ossa è come la cartapesta e la somiglianza con i pupazielli che il prete mette nello scenario della natività a fine anno è sputata. Solleva lentissimo quell’arma primitiva il Guasto, scortecciata con il coltellino che gli ha regalato la madre dicendo di non perderlo che era svizzero. Lui la Svizzera non ha idea di dove sia, ma quei coltellini devono essere una cosa rarissima. Lui lo sa che la madre il suo l’ha preso dalla scatola dell’armadio. Ci tiene quelle cose segrete che sono i ricordi e le fotografie dell’uomo che doveva essere suo padre ma è stato inghiottito dal Belgio, che sarà vicino alla Svizzera.
Come una katana dei film di botte cinesi, nel controluce del sole il bastone resta sospeso in aria, poi cala in picchiata. Sulla lucertola. La muraiola. La schianta, la spezza, la spappola. Muore. Contorcendosi muore.
E io che racconto per mestiere e per attitudine stavolta non so da dove cominciare. Sul serio. Con Elisabetta Bosio e Cosimo De Nola registriamo i podcast di "Storie di cani", che sono l'estensione sonora del libro "Che razza di cane" e ci divertiamo molto e pare che si diverta la gente ad ascoltarci. Le musiche sono originali e suonate tutte dalla portentosa Elisabetta, le parole sono le mie, sempre lì lì per inciampare inseguendo e superando altre parole. Poi capita che in quella bolla che annulla lo spazio e il tempo che è lo studio di registrazione,, davanti al microfono e senza averla preparata prima, decido di raccontare una storia, questa storia che esce oggi nel podcast e che si intitola "Il cane d'Africa". Inizio quasi prendendola larga e poi a un certo punto comincio a visualizzare le scene e a riportarle come se l'avessi vissuta io. E invece è una storia della memoria familiare, che mi è stata raccontata insieme a mille altre la sera, dopo cena, con mio padre che è stato il più grande narratore di storie sue e di libri d'altri che io abbia mai incontrato e possiamo dunque ben dire di padre in figlio. E insomma mio padre è il protagonista di questa storia e stavolta non si ride per nulla ma si spiegano le radici profonde del mio legame con i cani. E io me lo sono sempre immaginato mio padre a sette anni a Anzio, mentre gli alleati sbarcano e mio nonno ha affondato il dragamine al largo di Trieste per non consegnarlo ai tedeschi, mio nonno che s'era già fatto la Prima guerra mondiale e gli anni negli Stati Uniti e era potentemente antifascista. Me li sono immaginati sempre senza poterli vedere se non nell'indizio genetico che mi porto addosso come se lo porta mio figlio. E insomma registro la storia e a due giorni dalla pubblicazione mi arriva di notte un messaggio da mio fratello Andrea, un altro pezzo importantissimo della mia memoria domestica. Perchè nei giorni dello sbarco ad Anzio tutta la popolazione era stata caricata sulle navi e sfollata in Calabria e in Sicilia. La famiglia di mio padre era stata mandata a Bova Marina. E nel racconto a più voci di quei giorni si diceva che a mio padre e alle sorelle gli avessero fatto un film gli americani sulla nave. Dice che mio padre aveva un passamontagna rosso di lana e sudava e quando l'aereo tedesco li ha mitragliati tutti credevano l'avessero colpito e invece era solo il berretto che stingeva. Insomma mio padre ha passato la vita a cercarsi nei documentari e chiedeva a me che di mestiere frugo negli archivi di trovare quelle immagini sulla nave. Nel 2016 mio padre è andato avanti e non le ha mai riviste quelle immagini, abbiamo anche dubitato fossero mai state girate. Però ci aveva raccontato la sua vita passo passo, dandogli una notazione salgariana che ce la rendeva imperdibile. E l'altra notte mio fratello l'ha trovato. Ho lo spezzone del video e mi sono fatto i fermo immagine perchè ho subito attivato la mia macchina tecnica di mestiere. E lo guardo mio padre e ci sono le sorelle e alle spalle anche mio nonno. Hanno perso tutto. Non sanno dove li stanno portando. E di colpo ho capito che la faccia di mio padre era quella del bambino che racconto in questa puntata del podcast. Era successo tutto pochi giorni prima. Io quasi non riesco più a guardarla quella faccia. Ma ho capito un sacco di cose di me e di tutta la mia vita. Mi dessero solo il tempo di una spaghettata di notte con lui e mio fratello per rivederci quelle immagini insieme. Però abbiamo chiuso il cerchio. Grazie soprattutto a mio fratello Andrea, grazie a tutti e scusate l'impaccio.
Buon ascolto.
Ah già, stavolta Elisabetta ha suonato da strapparmi l'anima
Lui camminava ed io correvo.
Era tutto il giorno che giravamo con mio padre i boschi alla ricerca di funghi. Il bottino era davvero magro e io avevo riempito lo zaino di tela di mele di qualche albero abbandonato al suo destino da decenni e che ancora si ostinava a buttar fuori certi frutti butterati. Ma per me era comunque una soddisfazione e mia madre di sicuro il giorno dopo avrebbe fatto una torta recuperando al palato quei frutti vaiolosi.
Scendiamo in una valle verso un gruppo di betulle, lo stesso posto dove anni dopo, durante una scossa fortissima di terremoto, vedemmo i cinghiali correre impazziti gridando. E non potevamo credere ai nostri occhi. Solo se vai a funghi puoi capire il senso di vertigine che può prenderti quando all'improvviso ti imbatti in un campo riempito di mazze di tamburo o in una zona dove trovi porcini sparsi dovunque provi a guardare.
Porcini e ancora porcini. Grossi, vellutati. Sembravano finti. Li raccogliamo e riempiamo tutto quello che abbiamo con noi e che può contenerli. Siamo felicissimi. Arriviamo alla macchina e mio padre dice "Però mi è venuta fame, facciamoci due porcini alla brace". Mia madre obietta che non abbiamo niente per cucinarli e se lo dice lei che riusciva a fare il sartù sul fornello della roulotte quando eravamo assediati dal sisma. Ma mio padre m'ha insegnato a improvvisare, a inventare, a viaggiare, a scoprire, a cercare nei libri e negli occhi delle persone e nella terra e nell'aria e nell'acqua. Apre il cofano della Fiat 124. Tira fuori le catene da neve, che all'epoca erano catenazze degne di una nave negriera. Accende un fuoco, che in macchina sua e anche nella mia non manca mai qualcosa per accendere un fuoco e un sacchetto di sale. La fiamma si alza tra i rami secchi e sta diventando buio. Tutta la famiglia attorno a quel fuoco bordato di pietre. Ridiamo. Poi mio padre butta le catene dell'auto sulla brace viva e le fa arroventare. Ci appoggia le più succulente tra le cappelle dei porcini e ci mette un pizzico di sale. Usiamo dei bastoncini a cui abbiamo fatto la punta come posate. Io funghi buoni così non ne ho più mangiati in vita mia.
Mio padre sapeva il nome di tutte le piante e sapeva seguire le tracce degli animali e sapeva prendere le trote con le mani e ora un po' queste cose le so fare anche io e un po' anche mio figlio. Mio padre è morto esattamente cinque anni fa. Mentre moriva io ero lì e lui mi diceva che quelli della casa editrice erano stati gentili a darmi tre mesi di ferie per stare con lui. Gli ho mentito mentre moriva e non gli ho detto che quelli della casa editrice se n'erano fottuti di lui, della sua morte imminente e anche di me che in quel momento non avevo nessuna difesa. E ero lì con lui mentre moriva e e lui m'ha consigliato di leggere "Viaggio al termine della notte". Io l'avevo già letto ma ho capito cosa mi voleva dire. Ciao, forse ci si rivedrà dall'altra parte e se non c'è nulla non importa. Il sapore di quei funghi è valso tutto.
Qualche mese prima della grande peste. Un pugno di giorni appena. Lo scampolo di quel 2020 in cui si sussurrava già della morte nera che arriva nell'alito pesante di chi si nutre di pipistrelli e sembravano storie di viaggiatori del Catai tornati a raccontarci del Gran Cane piuttosto che la realtà che ci mordeva ai garretti e ci inseguiva per farci chiudere in casa da lì a qualche settimana. Eravamo partiti come facciamo da tutta la vita nostra. Da Torino a Milano per una serata in teatro a raccontare il nostro "Moby Dick e altre ballate del mare". Io e Ste, Federico e Matteo. Gente che a dirla amica gli farei un torto, che piuttosto la famiglia è quel pugno di persone che scegli perchè ti somigliano e sono diverse, ridono con te e di te e tu per loro fai lo stesso, e loro sono la mia famiglia, la mia razza senza pedigree. Tutti stipati come è capitato milioni di volte in una macchina, andando piano per non consumare troppo, fermandoci a mille bar e consumando noi molto più di una macchina potente e di prestigio. Ma è la vita che ci siamo scelti e non abbiamo mai preteso niente da nessuno. Arriviamo al teatro e c'è un cancello e una vecchina che fa la portinaia e vive in una stanzetta che ci viene voglia di chiederle se ci fa un risotto con l'ossobuco e siamo già pronti a andare a farle la spesa e ci siamo dimenticati dello spettacolo. Ma la scaletta scritta a matita e le prove fatte in macchina per quei sedici secondi di attenzione condivisa sono un obbligo che ci richiama alla realtà. Il teatro è piccolo e defilato, fosse la prima volta, ma è bello. A riceverci un personaggio che definirò con vaghezza enigmatico, perché per tutta la sera ci guarda come se fossimo noi quelli strani e quasi non ci rivolge la parola. Montiamo tutto e come da prassi ce ne usciamo a cercare un bar. Niente, siamo in un quartiere di gente per bene e stanno facendo il coprifuoco con largo anticipo sui decreti che verranno e che, li avessimo solo sospettati, non saremmo mai più tornati a casa la notte per i giorni che restavano. E ridevamo come ridiamo sempre tra noi. Ma è la vita che ci siamo scelti e non abbiamo mai preteso niente da nessuno. Arriviamo davanti a una pizzeria. Le luci accese. Ci affacciamo alla porta e chiediamo quattro bicchieri di vino. "Non possiamo farvi entrare solo per un bicchiere di vino, se volete vi diamo quattro bicchieri e lo bevete lì fuori" "Ma piove" "Non possiamo". Ridiamo e ci diciamo che Milano è troppo raffinata per noi se una pizzeria, che fa schifo a guardarla ma ha i tavoli disegnati da un geometra del catasto che si crede un artista, può tirarsela al punto da tener fuori noi che a Torino, a Napoli e a Udine veniamo accolti dagli osti come fossimo gli unti del signore. Restiamo con i calici sul marciapiede e piove e non sappiamo che ci stanno versando un anticipo sul disagio che verrà a tenerci fuori dal locale con la consumazione da asporto, che per me l'asporto è una roba che riguarda la milza o la cistifellea quando stai inguaiato. Buttiamo il vino nel tombino. Ma è la vita che ci siamo scelti e non abbiamo mai preteso niente da nessuno. Poi torniamo dentro, l'uomo del teatro pare non abbia mai visto prima l'impianto audio che è il suo e ci arrangiamo, lui guarda verso punti lontani, mette a fuoco all'infinito ogni volta che ingombriamo in suo campo visivo. Infastidito. Ci dice che abbiamo lasciato l'auto in un posto che non c'è problema se non fosse per il vicino che rompe i coglioni e danneggia le auto. Ci guardiamo. La macchina è la mia, una Lexus con trecentomila chilometri e rotti che mi ha lasciato in eredità mio padre e che ci sta accompagnando in giro ma che durante il lockdown mi verrà completamente distrutta da un camion o qualcosa di simile, non lo sappiamo perchè è scappato ma ha lasciato la macchina disintegrata sotto casa. La Lexus era una macchina prestigiosa con gli interni in pelle chiara e il computer di bordo e lo stereo figo e un motore potente ma ha fatto un mucchio di strada e però mi ricorda mio padre e la riaggiusto sempre. Ma quando me l'hanno sbriciolata durante il primo lockdown l'ho buttata via e m'è rimasto solo il pick up che mi hanno rubato durante il secondo lockdown. Ma è la vita che ci siamo scelti e non abbiamo mai preteso niente da nessuno. Insomma ci ficchiamo in uno stanzino che lì chiamano camerino e potrei fare un catalogo dei camerini della mia vita degno di Breton e dei vertici creativi del surrealismo. Facciamo lo spettacolo. C'è pubblico e ci siamo noi e siamo felici. Raccontiamo le nostre storie. Siamo felici così. Ma è la vita che ci siamo scelti e non abbiamo mai preteso niente da nessuno. A fine spettacolo la gente si ferma a parlare e sorridono tutto tranne l'uomo del teatro che resta serio e accigliato. La notte ripartiamo e mentre entriamo in tangenziale la macchina buca una gomma. Gli altri scendono su una rampa e io procedo piano verso un autogrill. Scendo e comincio a darmi da fare con il cric e poi realizzo che le gomme bucate sono due. Sullo stesso lato. Una cosa incredibile a cui non crede nemmeno l'uomo del carro attrezzi. Ci carica e dice che di notte nessuno può aggiustarci la macchina. Ci può portare nel piazzale di un gommista e la mattina ci sistemeranno tutto. Decido di restare io. Gli altri riusciranno a prendere un taxi e a tornare con il treno, l'ultimo, ma io resterò lì con la macchina. I soldi quello del teatro a fine serata non ce li ha dati e, capita raramente ma capita, non ce li ha ancora dati se vogliamo essere precisi. Lo benedico spesso. E penso che forse il vicino dispettoso o forse la sfiga o forse vai a sapere. Ma è la vita che ci siamo scelti e non abbiamo mai preteso niente da nessuno. Mi lasciano in uno spiazzo tra un campo nomadi, un Macdonald aperto tutta la notte dove i barboni per stare al caldo dormono appoggiati ai tavoli e avvolti nell'odore di Macnugget che fa quasi casa. Resto nel buio delle fabbriche. Provo a dormire nell'auto di notte, tutta la notte. Gli amici mi scrivono. Ogni tanto passeggio, piscio contro il buio e vado a farmi un caffè con la ciambella rosa che odio. Ho uno spyderco sul cruscotto e la macchina accanto alla mia ha la targa francese e l'hanno sfondata portando via tutto. Un enorme gufo vola su quel buio. Alle tre si spengono le luci del piazzale e resta sullo sfondo solo il Mac illuminato e sembra un quadro di Hopper. Lo sai chi è Hopper? Non sai mai un cazzo, non importa. Viene l'alba e la fotografo e la mando agli altri e sono vivo e poi aprono l'officina e cambio le gomme e spendo i soldi che non ci hanno mai dato per quella data. Torno a casa per pranzo. Ma è la vita che ci siamo scelti e non abbiamo mai preteso niente da nessuno. Ecco, noi non abbiamo mai chiesto niente a nessuno e ora, a distanza di un anno e mezzo dubitiamo tra noi di averla mai vissuta quella vita e muoriamo davvero inghiottiti dall'assenza.
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