venerdì 27 novembre 2015

e uno e duel










E ieri sera alle Officine Corsare è successo di nuovo. Duel - Cantautori a confronto, il certamen tra due nuove leve della canzone d’autore che si giocano la serata a colpi di brani originali e cover e monologhi. Una nave nella tempesta della poesia che si coniuga allo spartito, dell’emozione che corre a filo di plettro, governata da Federico Sirianni e Tiberio Ferracane, due nocchieri avvezzi alla perigliosa procella. Un altro giovedì all’insegna della canzone d’autore e di qualità anche se qualcuno reclama un’attenzione per una certa vena pop incarnata da Tiberio Ferracane con fierezza andalusa. E ancora, un ennesimo tentativo di Federico Sirianni di palesarsi nella sua inquietante natura più profondamente spirituale, che lo ha spinto in queste ore a tentare di camminare sulle acque, complice un problema allo scarico della lavatrice. Al tavolo della giuria l’immancabile Giorgio Olmoti che, pur cercando di mantenere un basso profilo e facendo della discrezione e della pratica del silenzio la sua cifra stilistica, viene sempre coinvolto nelle serate di Duel per accontentare il vasto pubblico femminile che non manca di manifestarsi in tutta la sua natura più ferina e sensuale, incitando il nostro con mugolii e toccamenti. Egli, Giorgio Olmoti appunto, riesce però a portare avanti il suo compito, a volte gravido di pesanti responsabilità, con abnegazione e bella disposizione d’animo, rivelandosi incorruttibile alle lusinghe dei sensi. In giuria ci sono anche Tiziana Platzer, penna di pregio del panorama giornalistico del mondo occidentale e quindi della civiltà civile e Federica Gilli che porta distillata nelle corde vocali l’idea prima di voce che tutti teniamo nel cuore e nella segreteria telefonica. Una squadra fantastica e irresistibile che con bella disposizione d’animo riesce a recuperare i tempi morti generati spesso da una certa piega che alcuni, chiaramente di origini meridionali, sul palco finiscono per imprimere alla scaletta. Ma non facciamo nomi. Ieri sulla ribalta c’era Sara Madalena da Battipaglia, in verità da Capaccio ma preferisce si dica da Battipaglia trattandosi di luogo noto e a quel punto Giorgio Olmoti, che paga un pesante tributo d’origini a quelle terre, perso per perso, ha suggerito Lisbona o Oslo che uno ci guadagna a bestia di immagine e portamento. Sara era accompagnata dal chitarrista Michele Pastore. A confrontarsi con la compagine campana (questo vezzo cronachistico mi sta bruciando cellule cerebrali più di una regolare assunzione di crack) da Torino, ma con la solita faccia meticcia di quelli che dici da Torino li guardi e già sai, c’era Ila Rosso che s’accompagnava da solo perché un chitarrista disposto dice che non l’aveva trovato. Fatti i due pezzi loro di rito, nel senso delle canzoni, Sirianni e Ferracane spiegano come funziona Duel e questa cosa che i finalisti vanno al Premio Bindi e al MEI e registrano negli studi di Transeuropa e passano in radio a più riprese e mai una lira tirata fuori e si parte. A confrontarsi sono due attitudini artistiche distanti, due antropologie lontane. Ila Rosso, propone pezzi divertenti, deviando da un repertorio consueto che lo colloca robustamente nel novero dei narratori cantanti di un tessuto urbano dilatato e notturno in cui ci si riconosce e, peggio, si teme di riconoscersi, dove il cetaceo piaggiato della fabbrica, l’ombra che grava sui respiri di questa Torino postindustriale. Non manca nemmeno la canzone sui Murazzi che, sia detto tra noi, ha ragione la Platzer che a un’ennesima canzone sui Murazzi preferirebbe essere coinvolta in un incidente a catena sulla Firenze Bologna, altezza Cantagallo, causa nebbia. Però Ila Rosso è uno che sta ficcato come un cuneo, ora diranno che scrivo sempre ficcato e infatti lo faccio apposta come messaggio subliminale e quindi scrivetemi in privato, nella polpa di questa capitale sabauda dal passo sbilenco e dagli accenti mutanti. E a sentire quelle canzoni se sei un cazzo di randagio di queste strade cominci a percepire addosso quell' odore perso tra l’umido e l’accatto. Roba bella insomma. Ma la serata procede ed è la volta di Sara Madalena e se dico che questa mia trentennale frequentazione con la canzone d’autore, questo mestiere mio che s’arena spesso a margine delle storie cantare e delle foto dimenticate e dei film mai montati e di tutta la memoria dell'universo, non s’era mai frequentato con qualcosa di plausibilmente riferimbile a quello che Sara fa sul palco, non esagero. Non sono propriamente canzoni ma è una marea di immagini, un ribollire di evocazioni infulcrate sul corpo e l’animo di tutte le femmine del mondo che ti si propone in guisa di un canto narrativo, di una personalissima gestione del teatro canzone. Resto davvero lì senza darmi ragione di quello che sta capitando sul palco, devo concentrare l’attenzione sui particolari perché forse il totale non posso sostenerlo, nemmeno fosse lo sguardo dell’assassino che attende. Immagini, storie accennate e poi precipitate nel buio di strazianti recuperi emotivi. Da non crederci. Da non credere soprattutto che arrivi da Battipaglia doe ho speso anche periodi consistenti della mia esistenza pencolante fra piazza Madonnina e le pizze a metro a via Italia. E solo per quella protezione di cercare nel minimo scopro che quella chitarra si fa incerta, perde il tempo e la corda e dentro tutto quello spendere c’è un cantiere pieno di potenzialità che andrebbero definite, scolpite, guadagnate alla certezza e alla miglior cura. Ma l’effetto complessivo mi stordisce come raramente capita. E intanto la sera continua e c’è il monologo di Ila Rosso e la scelta di fare Fanigiulo, che apprezzo oltre misura. Sara che dopo aver cantato narrando a voce piena e in bilico su testi difficili e raffinati al racconto accenna la lettura perdendo smalto e forza e scegliendo di cadere scontata sul Suonatore Jones. Ila Rosso in questa fase convince per il mestiere di vecchio arnese di strada che si porta addosso.
Tornano sul palco Sirianni e Ferracane, quest’ultimo cotonatissimo a ricordare certo vezzo estetico degli Ottanta, tipo un incrocio tra Massimo Ciavarro e il cantante degli Alphaville. Sirianni ormai benedice e giura di aver ridato la vista a un cieco. Gerry Siracusa minaccia di sciogliere i capelli replicando in piccolo il miracolo di San Gennaro, Luciano Villata è toornato dall’ultima trasferta e dice di essere una guardia svizzera. Giorgio Olmoti invoca Satana per tenere i conti in pari. Si respira una potente atmosfera mistica. Il pubblico vota e Sirianni prende i voti e non vedeva l’ora. Il pubblico decreta la vittoria di Sara Madalena. Tiberio Ferracane ruba la fidanzata a uno del pubblico approfittando delle interviste. Tocca alla giuria di qualità e Gilli e Platzer danno il loro voto a Sara Madalena decretandone la vittoria mentre Giorgio Olmoti vota coraggiosamente per il bravissimo ed eccezionale e imperdibile e potentissimo Ila Rosso. Da più parti si dice che Giorgio Olmoti, che non ho la fortuna di conoscere, sia l’unico competente in quella ciurma sganghera ma non ci possiamo affidare alle voci di corridoio con troppa leggerezza per quanto vox populi…
A fine serata Giorgio Olmoti ritrova sua cugina ventenne davanti alle Officine Corsare e si intrattengono affettuosamente. Non una cugina lontana ma un potentissimo primo grado di parentela. Ella, la cugina, confermando il bagaglio genetico di pregio di quella famiglia, è molto bella. Gli agghiaccianti barboni che s’accompagnano all’Olmoti nelle persone di Sirianni, Ferracane, Siracusa e Villata, avanzi di un tempo speso indecentemente, si avvicinano e mostrano affettuosamente di essere amici per conoscere la cugina. L’Olmoti capisce la manovra, a cui ha personalmente partecipato milioni di volte con le cugine degli altri, e minaccia e tiene lontani. Sirianni che è persona bieca prende la chitarra e canta canzoni ispirate guardandola secondo lui con aria seduttiva, secondo gli altri come un vecchio alpino che racconta la presa dell’Ortigara. Una cosa imbarazzante. La cugina Barbara si allontana leggermente imbarazzata e Sirianni dichiara di essersi innamorato. Olmoti giura che lo morirà a colpi di mazza se prova solo a pensare di imparentarsi. Litigano fino a notte fonda. All’alba l’Olmoti telefona a quelli del suo clan, alla sua famiglia tribale in cui il taglione è legge oltre che attrezzo per lavorare la porchetta. Si vedrà.
Comunicazione di servizio. Senza fare riferimenti, se sei un cantautore genovese a Torino comincia pure a scappare che tanto ti troviamo.

domenica 22 novembre 2015

siamo a Cavallo





e ieri sera alla Cavallerizza occupata c'erano Gianpiero Alloisio e Federico. e ieri sera c'era il privilegio di leggere tutte insieme pagine preziose del libro del mondo e dello spartito migliore di questa nostra contemporaneità a fiato corto. c'era la Cavallerizza occupata che è una sorta di presidio, dice che è una fortezza bastiani a guardia dei contenuti, una linea di trincea contro il marcio che avanza contrapponendo petti giovani alla retorica becera e clientelare. dice. ma c'era soprattutto Gianpiero Alloisio che a vederlo su un palco oltre che un pregio è una rarità e Sirianni se l'è portato a Torino, ce l'ha portato a Torino in nome di palchi condivisi a mille in questi decenni. una vita giocata a spartire che si sintetizzava tutta sul palco ieri sera, portandosi addosso il racconto di passioni e maledizioni al cielo spese. Da Bindi a Giuccini a Gaber a Jannacci e a Sirianni ancora, tutta la migliore canzone che ci siamo potuti permettere è passata dalle corde e dalla penna di Alloisio. E quella Venezia cantata da Guccini è la sua, con Stefania che muore dando alla luce un figlio e io quando è nato Dani sul comodino a Ste ho fatto trovare una rosa e una copia di Novella duemila per fare il simpatico e lei ancora storidta dal cesareo ha sillabato netto un vaffanculo che m'ha fatto intuire che lei non sarebbe crepata affatto anche se a Venezia ci avevamo lavorato per anni. giuro che è successo e ieri l'ho raccontato proprio ad Alloisio e Ste mi guardava come quel pomeriggio in ospedale e rideva. ieri il concerto speravo fosse nel teatro vero e non in quella sorta di ristoro defilato ma lì son tutti volontari e decenni di case occupate e centri sociali e controinformazione e autoproduzioni non saranno passati invano nella mia vita e figurati se non capisco. ieri speravo di fare la fila e di dover restare in piedi in fondo alla sala e invece c'erano quelli che s'erano raggiunti uno con l'altro con i telefoni e poco più e erano quasi solo quelli soliti delle serate nostre. arrivati come capita ma lì è tutto un fatto di volontari e mica me lo devi spiegare a me. entro e dopo decine di serate sospetto il disagio al primo sguardo di Federico ma lo conosco e lo so che può andare avanti lo stesso. E poi gente che faceva l'apericena, ma ci sta che li son tutti a combattere per la causa e sono volontari e mica me lo devi spiegare a me. ieri le aste dei microfoni perdevano consistenza e s'ammosciavano davanti all'urgenza della canzone. Un problema tecnico, un altro, un altro ancora, ma lì è un fatto di esserci e resistere resistere resistere e allora mica me lo spieghi a me. E ieri le luci non andavano e il tecnico gli dava le botte a schiaffo per farle andare come faceva mio nonno con la televisione ma mica poi funzionava. e nemmeno le luci ma erano luci volontarie e mica devi dirlo a me. Ieri alla fine in qualche modo si solo riusciti ad accroccare due cavi e un mixer e sono partiti quelli sul palco. Sirianni e Alloisio, che sono vecchi ferri che hanno suonato in ogni posto impossibile dell'universo e mica devi spiegarlgielo a loro. Ieri mentre sul palco i due ci regalavano una delle più belle serate della mia vita, la gente, quasi tutta la gente, continuava l'apericeva e gridavano e parlavano. Accanto a me avevo due tizie e uno forse americano che parlavano cercando di superare con la frequenza delle loro parole il disturbo della musica che arrivava dal palco. Intanto il fonico, ne ho visti di fonici meravigliosi in questa mia vita e sono prima di tutto maestri della pratica del rispetto, direttamente dal palco e durante le canzoni si faceva i cazzi suoi e parlava con gli amici che arrivavano, o lo faceva proprio restando lì accanto a Gianpiero che cantava. Ma lì son tutti volontari e mica me lo devi spiegare. Ieri dietro di me una parlava al cellulare gridando e sto parlando di una stanza stitica dove sul palco c'erano due che non fossero stati quello che sono meritavano comunque rispetto perchè quando cerchi le parole e le note fai una fatica boia se ci sono tre che starnazzano in americano in seconda fila e una subito dietro che spiega come scaldare i cannelloni nel microonde urlando nel telefono. Ieri non c'era pratica del rispetto dicevamo, non c'era attenzione per quei contenuti che pure lì dice che si difendono con le unghie e con i denti e il problema è eminentemente di comunicazione. E allora io che sono cresciuto in strada alla terza volta che imploravo questi accanto a me di parlare piano mi sono incazzato e gli ho detto di levarsi dal cazzo, di andarsene che tanto di stare lì non gliene fregava un cazzo e c’era tutta una città da scorrazzarci e gridare in americano e in finnico e in bosniaco. Poi dice perché nelle scuole americane ogni tre per due entra uno e spara sulle genti. Questi assassini seriali sono come la pula, quando servono non ci sono mai. Ma il problema sospetto non fossero questi qui del pubblico che vanno nei posti per poter mettere la foto e condividerla e raccattare i like, quelli che si mettono in posa col sorriso sgargio e poi ripiombano in quel retrogusto di apericena che regna sulla loro esistenza e non li lascia mai. Il problema forse è la comunicazione, la prevalenza delle ragioni. Se tu organizzi un concerto e lo fai ficcato in un angolo della sala dove dai da mangiare e mentre quello arpeggia tu decidi di buttare tutti i vetri e le bottiglie nel cassonetto della differenziata lì in quella stanza e poi passi con la scala di legno tra le tre file di sedie e la gente attonita, mentre lo fai autorizzi il tuo pubblico a pisciare sulle parole, a trattare le canzoni come ennesimo piattino distratto del fottuto apericena ma tanto lì son tutti volontari e mica devi spiegarlo a me. La notte, dopo la cena in una piola risoratrice tornavamo io Ste e Sirianni verso le nostre case sghembe. E in via Roma c’era quella che aveva parlato tutta la sera, quella a cui avevo gridato vattene, che fotografava l’amico con un violino in mano. Lo fotografava in strada all’una. Con il cellulare. Fingevano di suonare per strada e cercavano altri like che a quell’ora nessun musicista davvero prova a tirar fuori lo strumento. Ci metteva l’impegno vero lei a fotografarlo, lo stesso che ci aveva messo a non ascoltare la musica quando c’era sul serio e allora quelli che stanno a guardia della cultura e dei contenuti una domanda se la devono fare ma lo so che sono tutti volontari e mica devi spiegarlo a me. no, forse devi proprio spiegarlo a me perchè io i volontari li conosco e mi ricordo che esserlo stati per loro non è stato un motivo per sudare di meno, per soffrire di meno, per morire di meno.




venerdì 13 novembre 2015

CRONACHE DA DUEL






Giovedì 12 è già una scommessa con il destino, che se fai qualcosa nella serata rischi di scivolare senza consapevolezza nel venerdì 13 e di pagarne il pesante e oscuro dazio alle forze delle tenebre e al signore della jella. Ma ieri nessuno ci ha voluto pensare, a distanza da un anno dalla prima edizione ripartiva Duel, un confronto senza esclusione di colpi tra portatori sani, oddio sani a volte è parola d’azzardo, di canzone d’autore. Chitarra e voce per spararsi addosso come nel più polveroso dei corral, come in quei confronti in mezzo alla strada del paesino del Kansas che, come tutti quei posti lì dei film, pare giovarsi di un unico ripetuto piano regolatore che si sviluppa tutto ai lati di quell’unica via. Qualcosa di unico appunto. E c’è il saloon e c’è lo sceriffo bolso e c’è il vecchietto borbottone, e c’è la bella che balla, e c’è la gente sparsa che balle. Tutti gli ingredienti formidabili per una perfetta storia di frontiera. E ieri a giocarsi la pelle delle loro canzoni c’erano Lupita, nata in Messico e cresciuta tra la Francia e l’Italia, e Daniele Chiarella, radici del sud ma cresciuto nella periferia torinese e poi spostato verso la cintura residenziale e osando quasi verso la campagna.  Il tutto si svolge alle Officine Corsare, dove ieri le tagliatelle al cinghiali servite in abbondanti porzioni potevano già da sole dare un senso alla serata e dove c’è un clima che non te lo spiego perché tocca entrarci per capire ma quando sei lì e c’è Duel ti guardi attorno e te lo ricordi di cosa si stava cercando di parlare qui adesso e tanto vale che vieni un giovedì alle Corsare e dai una ragione plausibile della tua esistenza. Insomma, arrivo lì che è presto e si prova. Sono uno della giuria, sono quello che c’è stato sempre, tutte le sere della passata edizione in giuria mentre gli altri giurati si davano il turno e non sono un punto di riferimento quanto piuttosto uno che ha tempo da spendere la notte e lo spende come gli piace. Perché sul fatto che tutti quelli che interagiscano con la macchina complessa di Duel siano a buon diritto coinvolti prima di tutto con la loro passione non ci piove. Poi dentro per alcuni di noi ci passa un mestiere, un’arte, un passo. Sul palco ci sono Federico Sirianni e  Tiberio Ferracane, al timone di questo Pequod con le sartie sbranate dai marosi, affrontando l’abbaglio del bianco leviatano che porta dentro tutte le note e le diminuite e le armonie e gli accordi e le parole, tutte le maledette parole buone per raccontare e cantare e gridare. Stanno lì, Ferracane e Sirianni, due capitani di lungo sorso, due sciacalli di mare che si muovono sul palco come sulla tolda e urlano verso la lancia che salta sulle onde e che è già in caccia. E su quella lancia ci sono i giudici, ci sono anche io quindi, e come ramponieri dannati bilanciamo i nostri attrezzi e colpiamo e rischiamo la gola. Ecco, dopo questa bella tirata di retorica marinaresca, che ben convincerà Ferracane a includere la mia ballata sul ramponiere nel suo prossimo disco, torno a miglior concretezza narrativa e proseguo nella cronaca del duello da bordo campo. 
A cena, prima dello spettacolo ci siamo io, Sirianni, Ferracane, Lupita e Chiarella. Ordiniamo fettuccine al cinghiale per tutti e ho il sospetto che i due sfidanti ci assecondino nella nostra tabella alimentare più per timore di una nostra reazione scomposta che per un reale appetito. A riprova, noi tre, vecchi ferri del mestiere sbattuti da un posto all’altro con le nostre storie da raccontare in forma sparsa, mangiamo senza tregua l’enorme piatto e accompagniamo a grossi sorsi di rosso dopo una giostra iniziale di quintana di gin tonic e vodka tonic e tutto quello che di tonic esiste sulla faccia della terra. I due concorrenti avanzano nel piatto in vago imbarazzo e sorridono alle nostre tremende cazzate. Lupita è bravissima, l’abbiamo sentita durante le prove e è bellissima e quella suggestione western tex mex che si porta negli occhi ci strega subito. Sirianni mantenendo un aplomb e una distanza degne di un serio professionista le propone un tour insieme subito, fissa tre date al telefono gridando frasi sconnesse e io e Ferracane ci guardiamo bene dal segnalargli che lì il telefono non prende. Poi è la volta di Ferracane che imposta lo sguardo a mezzo tra Cassell e Buzzanca e ci basisce tutti con un delirio potentissimo. Guarda Lupita e per fare il signore giura che per lei tornerebbe a rapinare gli anziani come quando aveva vent’anni e una ragazza gli chiedeva di farlo per lei e con lei. Non è chiaro se questo episodio sia realmente accaduto, io e Sirianni con lo scudo della prescrizione, tendiamo a averne bella certezza. A quel punto in onore al mio atteggiamento sempre pacato le chiedo di sposarmi in Messico. Nessuno si fila di pezza Chiarella che mangia, beve e ride con noi e dice “cazzo lei è troppo brava”. Arrivano gli altri della giuria. Tiziana Platzer della Stampa e Fabrizio Chiapello, nume tutelare dello studio di registrazione Transeuropa. Vecchie conoscenze della giuria anche se Tiziana è in realtà giovanissima e ha i capelli con delle zone viola metallizzato che fanno molto spregiudicata. Ora ci siamo tutti. Come ai vecchi tempi. E si parte e canta Sirianni e canta Ferracane e spiegano il meccanismo di Duel e intanto la sala si riempie. Poi è la volta dei due sfidanti. Salgono sul palco e Lupita è lei e la riconosciamo subito e già ci sentiamo in totale confidenza con le sue canzoni e il suo sorriso e poi c’è quell’altro, Daniele Chiarella, che ha dismesso gli abiti da cena e ha sostiutuito la felpa col cappuccio grigia, la stessa che indosso io più o meno, con una sorta di camiciotto rosso che accoppiato a degli agghiaccianti occhiali da sole degni dei Village People ci fa consultare rapidamente tra noi per decidere se chiedere un trattamento sanitario obbligatorio alla vicina ASL. 



E comincia Lupita e ci lascia in bilico sul sogno. Voce rarissima, sul serio, perfetta. Padroneggia la chitarra con bella maestria e quello che ci propone è un esercizio di perfezione. Canzoni in francese, italiano, spagnolo, inglese. Ascoltarla è leggere il libro del mondo, come diceva quell’altro. Tutto eseguito in onore alle scuole alte della canzone, tutto perfetto. I testi forse sono il punto debole, suonano ma raccontano meno. Ma la serata continua. 



Tocca a Daniele Chiarella che prende la chitarra e spara sul pubblico due blues rochi e scombinati, con testi altrettanto in bilico tra verità e surrealtà. Una sorta di Captain Beefheart della prima cintura torinese, una creatura mutante nata dall’accoppiamento forsennato di Muddy Waters con Rino Gaetano, ma che porta addosso segni di passati congiungimenti con Frank Zappa e Pupo e Mariele Ventre. Armageddon. Comincio a agitarmi sulla seggiola. Il pubblico non è evidentemente attraversato dalla mia stessa anima punk, dal mo vizio di mettermi ai crocicchi aspettando il diavolo per firmare un’ennesima ratealizzazione del patto originariamente stipulato. Il meccanismo prevede una cover a testa e Lupita si supera mentre Daniele azzarda una canzone in odor di Genova con Sirianni che si sente colpito nell’intimo e lancia sguardi di territorialità manifesta dalle quinte. E poi devono raccontare una storia e tenere il palco e Daniele Chiarella si gioca l’arma della narrazione convulsa e accidentale e io l’ho capito che c’è tutto un trucco e lo conosco bene che è il mio stesso trucco e sorrido che a cena volava basso e sul palco è un esplosione di invenzioni e perfette cose casuali. Figo tutto, la serata ha un tiro mica da ridere. E poi c’è la votazione del pubblico che propende per Lupita. Sfrontatamente. Non riesco a capire cosa hanno deciso i miei due compagni di giuria e già ho un microfono in mano e faccio il mio numero circense con le parole e i sorrisi strappati ma la cosa è seria e i ragazzi si giocano l’accesso a cose di prestigio significativo tipo la finale del Premio Bindi e il MEI a cui si aggiunge anche la realizzazione in studio del loro brano. Non c’è da scherzare e non scherzo e ci metto del tempo per consegnare alla storia il giudizio mio. A dispetto del fatto che Lupita ha un avvenire artistico già scritto nel cielo, assegno il mio favore della serata a Daniele Chiarella. E poi tocca agli altri due che confermano con miglior competenza il mio giudizio e il meccanismo della serata tiene in conto il voto del pubblico per il quaranta per cento per cui se i tre giudici esprimono compatti il loro giudizio in antitesi a quello popolare si ribalta la scena. Non avete capito ma è colpa mia, venite e tutto vi sarà chiaro. Insomma la prima puntata di Duel alle Officine Corsare l’ha vinta Daniele Chiarella. Poi la serata è andata avanti fino a tardi ma i miei ricordi si fanno meno distinti.

sabato 26 settembre 2015

Medjugorje che male accompagnato








e sono tornato di nuovo a un'ora che non mi ricordo stanotte e ce ne siamo andati in giro io e Ste nella notte con la moto e stamattina alle sette mi sono svegliato, mi sono fatto la doccia con il caffè e, sempre in moto che qua la famiglia fa la fila per girare in moto, ho portato Dani a scuola. poi sono tornato a casa e ci siamo rimessi a letto. ora sto qua davanti al computer a fare i conti con una promessa fatta a Domenico Cosentino che per chi non lo sapesse è il mio editore e mi fa lavorare come quei cinesi chiusi diciannove ore al giorno nei capannoni. sto chiudendo il prossimo libro e intanto penso che oggi c'è "Torino spiritualità" e non me lo spiego perchè non mi invitano mai. le ho provate tutte, ho piantato i resti delle costine nel giardino per fare l'ortodosso (non l'hai capita? vai in pace), ho smesso di mangiare maiale e di bere alcolici per guadagnarmi il paradiso ma non sapevo come spiegarlo ai vitelli e alla cedrata, mi sono procurato un glande di lattice perchè farmi circoncidere davvero mi faceva troppa paura ma poi ho pensato che amare un dio non poteva essere una tremenda rottura di cazzo per un fatto di rispetto e ho rinunciato, mi sono rasato il cranio e vestito d'arancione ma anche il mio senso del ridicolo a quel punto era in crisi ed è tutto dire, ho fatto sacrifici ma ammetto che era per comprarmi la moto e non vale, ho fatto guerre tremende in nome della pace, ho ucciso tutti quelli che non predicavano il mio stesso amore perchè l'amore prima di tutto, ho detto frasi incomprensibili che al confronto l'inno di mameli è chiarissimo e le ho chiamate preghiere, ho fatto finta di credere che dietro quei pochi che si arricchivano e esercitavano il potere c'era la porta del paradiso e ho pregato per l'oro, mi sono scambiato il segno della pace in un locale di scambisti ma a quelli non è bastato. ce l'ho messa tutta ma tra me e la spiritualità c'è questa bazzeccola di essere uomo che finisce per essere un impedimento ma che è tutto quello che sono davvero pare. però metto 'sta canzone e mica per niente, suona piano e mi sveglierà con la dovuta cautela. e con il vostro spirito. ora vado altrimenti chi lo sente Cosentino.


domenica 12 luglio 2015

SENZA SCAMPO

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In mezzo al mare. La costa è lontana e la distesa d’acqua salsa si gonfia in onde che prendono il mio kayak di fianco, costringendomi a procedere con una rotta sghemba per tagliare la cresta e pagaiare con l’illusione di volare sospeso sull’acqua. Quante volte l’ho provata questa sensazione di essere un niente a galleggiare nel niente, che in quell’azzurro che domina e non c’è terra e non c’è acqua e non c’è cielo, la sensazione è quella di essere in un non mondo e ogni tanto un pesce che salta o qualcosa che galleggia sembra sussurrarti che è tutta apparenza e che in un'altra dimensione succedono cose e la vita pulsa. E tu sospeso in bilico su quella linea d’orizzonte, che è l’unico indizio per stabilire che sei ancora da questa parte del cielo.
In mezzo al mare. Come nei viaggi in moto e nell’andare per boschi o per piazze o per corridoi di treni o cessi d’autogrill, sei solo a misurarti i pensieri. E allora me lo chiedo qual è il maledetto guizzo che m’anima alla vista dell’acqua e del porto e della riva. Mi chiedo cos’è quella vertigine che mi prende quando mi alzo all’alba per vedere i pescatori che tornano e mettono i pesci ordinati nelle cassette sui carretti, per portarli a vendere a quelli che poi li porteranno a vendere a quegli altri che poi li porteranno a vendere e a vendere e a vendere e poi ci sarete voi in fondo a questa corsa, con le vostre forchette sospese sul gesto d’assaggiare. E direte che è fresco anche quando il pesce è saltato da un furgone a un aereo, a un carrello di ristorante per giorni. Ordinerete e sarà un lampo negli occhi a farla innamorare, mentre chiedete con sciolta abitudine il risotto con gli scampi, che, diciamocelo, poche cose sono stupide come uno scampo che giralo come vuoi c’è da mangiarci nulla ma ti ingombra il piatto e fa bel punteggio sul tuo bollettino della socialità vincente. Status lo chiamano, lo scampo fa status. Sarà per questo che lì in mezzo al mare e ficcato nella mia canoa sorrido a questa mia vita senza scampo.




sabato 11 luglio 2015

muto soccorso

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Guarda tu alle volte. Stai lì a mangiare la pizza, in quel posto modesto di mezzi e di sapori ma che sta sotto casa e ormai ti conoscono e basta un cenno. Senza parlare dello sconto che conclama il tuo essere recidivo in quel succedaneo di vita che ti porti addosso e che chiude troppo spesso i giochi della giornata appoggiato a quei tavoli zoppi a leggere un menù che conosci a memoria. I venditori di rose rinunciano da un pezzo a fermarsi al tuo tavolo anche le rare volte che dividi il tempo della tua cena con una femmina. Ti fosse girato un pacco di soldi per le tasche ora stavi a succhiare gamberi in Costa Azzurra ma la vita tira senza guardare e anche una capricciosa può andare e, oltre a placare la fame, già a ordinarla ti pare di svelare il senso ultimo di tutta la tua vita amorosa. Con supplemento di salamino piccante dici alle volte al cameriere, con un sorriso che cerca minima complicità per questo tuo residuo consunto d’orgoglio libertino. E mentre usi i grissini con lo stomaco come il domatore farebbe con la frusta davanti alla tigre, alle tue spalle quello arriva silenzioso come un incursore. Prima che tu abbia realizzato, accanto al tuo piatto compare un pupazzetto, una collanina, un accendino, una torcia. E un biglietto in guisa d’istruzioni, un bugiardino della disperazione tua e sua e della pizza. Dice che è sordo e dice pure che è muto e dice che potete fare un’offerta. Ti lascia il pupazzetto e la torcia e il bracciale e quello che è sul tavolo e prosegue silenzioso. Quasi altero. Come un sovrano tra gli scrofolosi. C’è dignità e una sorta di vezzo generoso in quella distribuzione. Poi torna sui suoi passi e recupera il dono non accettato da lui, eterno danao delle pizzerie. A volte recupera qualche spicciolo. Quelli che accettano lo scambio tra stronzata e soldi sono spesso a tavola con bambini vocianti. Il sordomuto ne ha piena consapevolezza. Conta su quei bambini che hanno la voce che lui giura di non avere. 
Torna al tuo tavolo e vi guardate per un secondo, il tempo di fargli distogliere lo sguardo forse nel terrore di lasciarsi sfuggire il segreto. E tu lo sai che lui ci sente e parla. Ma sai anche che essere sordo e muto a quell’ora e tra quei tavoli è una comodità per te e per lui.




 

domenica 21 giugno 2015

LA PELLE DEI PELLEGRINI





Max Liotta


Sul Po c'è il borgo medievale, che è una sorta di mastio cavalleresco, ne ha l'odore come i fondali di cinecittà sanno di lontano west, e ci sono le botteghe e le torri e le travi di legno. Ci portano i turisti al borgo medievale e, visto che c'è l'ampio parcheggio di Torino Esposizioni, ci arrivano le corriere che schiumano dalle lamiere il sudore dei pellegrini. Quando si aprono le porte di quelle carrozze caricate a fede si sente la zaffata delle scatolette del cibo per gatti ma deve essere parte del grande disegno di redenzione. La sindone, vengono per vedere il lenzuolo su cui c'è impressa l'impronta del figlio del loro dio. Vengono a far pegno di fede, quella stessa fede che predica accoglienza e inclusione e pace e già i conti non mi tornano, che questi sono migliaia e migliaia e fossero tutti davvero quello che dicono questo mondo sarebbe un mondo diverso sul serio e invece a volte mi scopro da solo a fare esercizio di quello che predicano. Troppo spesso mi capita, senza chiedere il premio di dio ma solo per il rispetto che porto a carne come la mia. Ma non è questo il punto. Questi arrivano al borgo medievale che è una cosa posticcia, il capriccio di uno coi soldi che s'è fatto costruire un presepe a grandezza naturale a bordo Po quando il medioevo era finito da un gran pezzo. Un falso. L'ennesimo messo a tiro dei passi dei pellegrini e della loro pelle. E si fanno le foto e costruiscono il racconto corale degli archivi fotografici domestici e quando gli chiederanno di Torino ricorderanno la fortezza medievale che non esiste. L'inganno sulla pelle dei pellegrini. E ci vengono dopo aver visto un lenzuolo su cui inspiegabilmente c'è impressa l'orma tutt'intera del corpo del figlio del loro dio, quello che mangiano in guisa di pane e vino e in evocazione di sangue e corpo tutte le domeniche per trasfondere nel loro corpo il benedetto bene. Liberissimi di farlo e liberissimi di crederci in faccia a tutti i Lorenzo Valla della terra che sono stati sempre dimenticati subito in favore del potente racconto del miracolo e dell'orma del cristo e pure del borgo medievale. 

Sono venuti a frotte in questi giorni che c'è il papa e hanno fatto filotto. sono andati a vedere Tiziano Ferro allo stadio ieri sera e oggi il papa buonissimo, il più buono di sempre, e il lenzuolo e pure il borgo medievale e pure l'autogrill prima di Barriera. Ma voi l'avete mai guardata la pelle dei pellegrini, proprio la pelle, quella che si sono venduta le agenzie di viaggi e i conventi che ospitano cena e colazione compresa e i produttori di sandali e bandierine bianche e gialle. La famiglia Renzi, per dire, s'è fatta le ossa robuste traghettando pullman e pullman di pellegrini, per dire come vanno le cose e come serve quella pelle a fare borse robuste. Se ci pensi, tutto torna. La pelle dei pellegrini è tovaglia di banchetto. e il papa buono ha tuonato con il sorriso, lui tuona così, contro le banche che hanno strozzato il mondo. Dico, papa buonissimo, ma mi prendi per pandolo o cosa. Ma lo capisci da solo che i tuoi ci stanno con i piedi in tutte e due le scarpe dentro quel sistema lì delle banche o cosa? Ma ti è chiaro che siete azionisti del peggio? Lo vedi che le città quando hanno palazzi di pregio è sempre roba tua. Non ti viene il dubbio che questo esercizio di potere che dura duemila anni ha un prezzo e non da saldo. Ma fai sul serio? Ancora non mi sono ripreso da quando ci hai rimbrottato, papa buono come il pane e pure il vino, che nella nostra società le femmine le trattiamo come esseri inferiori e io e la mia donna facciamo da sempre lo stesso lavoro e spendiamo le stesse maledizioni al sudore e dividiamo pure i sorrisi e ceri morsi che voi vi negate chissà perchè. E tu vieni a dirmi che io sono discriminante con le femmine? A me? Con che faccia esci dalle tue stanze e tutto intorno a te le donne stanno a far le serve velate e sono spesso pescate ai giacimenti di umanità a costo spirituale zero dei paesi poveri e fuggono ma invece di un barcone scelgono di pregare per te e di essere lo zerbino tragico del tuo sistema complesso di potere. Ma ci hai creduto davvero alla loro vocazione o fai buon viso a buon papa? Dove sono le femmine nella tua regola del mondo, dove sono le banche nella tua regola del mondo? Cosa ti raccontano per tenerti buono come il pane e come il vino o cosa ci racconti per fare altrettanto? Dove tessete i vostri sudari impressi di un corpo ucciso per la nuova e l'eterna alleanza? Con chi vi siete davvero alleati? Non mi tornano i conti. Dove stanno stese nel tuo mondo le pelli dei pellegrini? Dov'è il bene? E la pace?

Stavo lì a annusare questa vita, che mi pare già qualcosa da non sottovalutare, sperando in qualcosa di meglio e li ho visti arrivare. Mi tenevo abbracciato a carne uguale e diversa da me e ridevamo e mangiavamo un gelato. A bordo Po. Sono arrivati due giovani pellegrini, vestiti di un'umana bruttezza da discount dell'esistere. trascinavano marsupi e bottiglie e odiosissimi trolley, che il viaggiatore vero viaggia leggero, e erano unti di quel sudore cosmico che emette questa tua massa uggiolosa che tornerà a casa e odierà quelli che arrivano dal mare e quegli altri che rubano il rastrello, senza dar segno di aver capito, distratti pellegrini che nient'altro siete, che la terra loro la zappano ma appartiene alla banca e spesso la banca è la tua. E gli hai detto che far l'amore è peccato e ridere è bene solo se si ride quando ridi tu. I tuoi ministri danno di testa al muro guardando immagini di voglia a bassa definizione in rete e si sfogano strozzandosi nel peccato di una cosa che peccato non ha e sfiorando di nascosto e toccando le carni più deboli, quelle che non sanno rispondere. Sempre in nome di questo amore che non mi torna ma che urlate in coro come urlavate davanti al rogo dell'eretico e della strega. Lo chiamate amore. E questi due a bordo Po avanzavano barcollando ubriachi di qualcosa che doveva essere afflato spirituale ma pareva maledetta stanchezza. Stavano tornando ai loro carriagi e poi verso casa. Tutto compreso. Facce tristissime. Poi lei si è fermata, ha preso il cellulare e ha steso il braccio, quanto presagio di sciagura quando sul mondo si stende un braccio in avanti e quando è capitato non è che avete scosso le mura pesanti del vostro bene, e s'è disposta al selfie. Lui ha preso posto, il posto concesso a quel tipo di foto sghemba, nell'inquadratura e hanno sorriso, un enorme sorriso durato il tempo dello scatto. S'è spento lo schermo e pure le facce. Lei ha condiviso sul social qualcosa e hanno ripreso a camminare senza parlarsi e quello loro doveva essere il passo dell'oca dell'amore universale che marciava sul mondo. Non ho potuto contenere un guizzo di terrore. Ma è stato solo un attimo.
 
Tra le travi del borgo medievale, che se allunghi la mano le tocchi, ci sono le rondini che fanno i nidi ma i pellegrini non le vedono e non le sentono, però loro credono esista il paradiso dall'altra parte. Il paradiso della pelle dei pellegrini.



lunedì 18 maggio 2015

L'uomo bianco




di me della mia vita e di quelli che tifano juve, ma immagino che non si possa generalizzare, direte voi. io ti chiamo da sempre il maschio in bianco e sei lì con la tua femmina in bianco e le tue figlioline in bianco. vi chiamo così perchè siete venuti nella casa di fronte alla mia dove prima c'erano le signorine smargiasse che esercitavano e avevano stanze che la mattina prendevano aria regalando scorci di specchiere e muri vermigli e il pomeriggio sedute in terrazza parlavano con quell'accento dell'est e dicevano sempre "ciao belo come stai, vuoi le cocole da tua amichetta..." io mi bevevo il pastis di fronte insieme a ste e il mondo aveva un suo senso sghembo che è il senso su cui ci appoggiamo quando dobbiamo riprendere fiato. poi è venuto l'uomo in bianco. ha comprato quella casa e l'ha fatta ripitturare tutta bianca e bianchi i mobili. mobili di lusso come l'auto e i vestiti e le mazze da golf che il sabato l'uomo in bianco carica nel cofano. sempre vestito da qualcosa che ha a che fare coi soldi e che stride con il resto della strada ma è da un pezzo che a Torino c'è la voga di colonizzare le aree grigie della città andando a comprarsi un appartamento nelle zone dove si galleggia tra poveracci e borghesi piccoli piccoli e io poi vivo ai margini della Crocetta che è zona bene ma che già qui dove sto io ha perso notevoli quote sociali e antropologiche. i mobili bianchi le pareti bianche e una enorme libreria bianca totalmente vuota. non hanno nulla in casa che non siano mobili bianchi e cucina bianca e camicie bianche. la moglie bianca passa l'aspirapolvere anche la notte. sono giovani e molto bianchi. lavano i vetri fino a farli bianchi di riflessi. mi guardano, mi vedono nel mio studio mentre registro programmi per la radio al microfono o scrivo o me ne sto sul divano da solo o in compagnia e vedono tutto ingombro ovunque di libri e dischi e ciarpame e la casa è in affitto e le pareti coloratissime e insomma siamo in antitesi e in imbarazzo reciproco. un giorno l'uomo bianco mentre arrivava a casa s'è incazzato con la vecchia che butta le briciole ai piccioni che a loro volta sono predati dai gabbiani del Po che a loro volta sono predati dai gatti che a loro volta... insomma la vecchia è la fiera dell'est dal vivo per tutto il quartiere. e l'uomo bianco arriva e grida rivolto al balcone della vecchia, che lei sta sempre sui veroni a tender la mano briciolosa al pennuto e fa la guardia e tutto conosce della via. Gli grida "è una vergogna. Inciviltà. Sporco". Nel breve volgere di un secondo da altre finestre escono gli altri abitanti che, di fronte all'attacco diretto alla nostra vecchia, sorta di tenente Drogo dell'isolato che spia se tra i piccioni si celano i Tartari, mostrano di che pasta è fatta questa ciurma e lo minacciano di morte ma dopo mille sofferenze. L'uomo bianco china il capo e entra nel portone e sale al piano suo dove tutto è in grazia del latte e del bianco che purifica. Bene, l'uomo bianco resta sveglio fino a tardi, non come me ma abbastanza. guarda la tele e lei intanto passa lo straccio della polvere sui mobili bianchi. non si sfiorano mai, mica come noi bestie che siamo, che certe volte al volo chiudiamo la tapparella quando siamo già bell'e preda dei sensi. lui mi spia e non lo capisce che lo vedo che si attacca al vetro perchè il buio è fuori ma la sua stanza è illuminata. mi guarda al computer e vede i film che mi proietto sul muro e sente la musica che quella la sente tutto il quartiere che io son resident diggei della via. non mi invidia, piuttosto credo mi disprezzi. a volte ho le mutande bianche e lo faccio come gesto di solidarietà a stargli davanti in mutande mentre lavoro. lui ha sempre la camicia, lei sempre dei pigiamoni felpati. bene, tutta questa premessa per dire che ieri sera giocava la juve e l'uomo bianco manco a dirlo è pure della juve. guardava la partita sul suo schermo piatto appeso al muro bianco. a un certo punto è uscito in balcone e gridava invasato che la juve aveva vinto. da solo. con una sorta di rabbia dentro che gli esplodeva e la schiuma alla bocca, manco a dirlo bianca. gridava e saltava e gridava e sono andato a farmi la doccia e son tornato e era ancora lì. a me questi uomini bianchi mica mi lasciano tranquillo. sono una razza pericolosa secondo me. sarebbe da spiegarglielo ma mica a lui, piuttosto a lei e alla sua tutona felpata, che il bianco è la ballata dell'assenza.

mercoledì 6 maggio 2015

mutatis mutandis

 




la linea del tempo. avete presente il sussidiario, quel libro delle elementari che conteneva quella porzione dello scibile che si riteneva potessimo metabolizzare in quell'età lì bambina dell'apprendimento che la didattica spreca puntualmente. la storia ce la proponevano per blocchi monolitici. c'erano i babilonesi che poi passavano la staffetta del tempo dell'umanità agli egizi e poi ai greci e poi ai romani e via così. fino a sfiorare la prima guerra mondiale che erano e sono le colonne d'ercole della didattica della storia per un fatto di tempi mica di contenuti. nessuno te lo diceva che mentre facevi i romani in egitto continuava la storia, era in parallelo e certe cose che avevi studiato con i greci le ritrovavi pure dopo con i romani e solo il punto di vista era cambiato. non te lo dicevano e non te lo dicono e ci sfugge la nozione minima di sincronia. pensaci. fino a fine marzo ogni giorno quelli dell'isis ne combinavano una delle loro, grandi coreografie di cui ho scritto ampiamente sul blog, bambini carnefici e bambini vittime, teste che saltavano che nemmeno nel consiglio di amministrazione di una multinazionale, territori conquistati da un'entità militare di cui, se ti guardavi indietro, fino a poco tempo prima non sapevi un cazzo. dal nulla al tutto. laboratori nelle scuole e prese di posizione e per carità dentro questo dibattito ci passa anche una possibilità oggettiva per il mio affitto e il mio pranzo e quindi mi tiro prepotentemente nel mezzo. ma del resto voi, che leggete qui gratis sempre, ve lo sarete posti il problema che da qualche parte i soldi per campare devo pure trovarli e quindi è chiaro che sono della partita quando si parla di storia recente e guerre e foto e film e cose così. poi arrivano i barconi e via di nuovo, che l'isis scompare. a dire il vero c'è una terra di mezzo in cui i barconi sono farciti di gente dell'isis che sbarcherà e si farà saltare in aria ma poi ci si concentra sui barconi e i disagi degli stranieri che rubano il lavoro e le donne. quando ormai siamo preparati sul tema e citiamo a memoria le spiagge di Lampedusa come fosse lo scenario del d-day il tema viene sopraffatto dalle zingare che hanno un ufficio stampa che comunica all'italia che sono sfrontate e guadagnano milioni rubando ogni giorno ed è per copertura che passano la vita tra i topi e a vent'anni sembra ne abbiano ottanta. e giù anche lì a schierarsi e ormai dell'isis ci siamo scordati proprio e quindi non c'è più, come i babilonesi quando eri arrivato ai romani appunto. ti sei messo l'animo in pace che il tema della contemporaneità sono gli zingari e arriva l'Expo, pagata sei volte quello che vale con soldi pubblici e arresti e intercettazioni ma questo ce lo siamo scordati perchè è notizia antecedente addirittura all'isis, e ci sono i black block e c'è da ripulire tutto e via a schierarsi e a dire che hanno il rolex questi black block e per prova c'è una foto di una tizia con il cinturino di un qualsiasi orologio al polso, una cosa da uovo di pasqua ma chi se ne frega la gente capisce quello che vuole capire o che vuoi fargli capire e quindi tirare dritto ancora. oggi leggo addirittura che la rolex scrive al governo lamentando il danno d'immagine. ma sto tranquillo perchè sta arrivando il caldo e presto ci concentreremmo sulle ondate di caldo che chiameremo Caronte e Lisippo e sulla moria dei vecchi lasciati a casa durante le vacanze. ci concentreremo il tempo di dover passare ai cani abbandonati d'estate e via così. quello che mi lascia stupito è che, rispetto a queste voghe di contenuti che si azzerano tra loro in progressione, Salvini resiste trasversalmente e allora tocca dircelo che la mutanda sporca è quella che ti porti addosso.