martedì 27 novembre 2012

la ballata del perdere e trovare






E mi squilla il telefono e lo sanno tutti che io non rispondo quasi  mai, lo sanno almeno quei tutti che provano a chiamarmi. Tranne rare eccezioni che conto sulle dita di una mano, io, se mi chiami al cellulare non ti rispondo e quasi mai ti richiamo. Non c’è un motivo, non c’è avversione, i più intimi sanno un trucco per trovarmi lo stesso e mi parlano di sponda col rischio che io prenda accordi e fissi orari senza sapere di averlo fatto. Ma questa è un’altra storia. Il cellulare non lo odio affatto, ha uno schermo con dei bei colori e mi piace quando si accende la notte mentre guido. Il cellulare lo dimentico per giorni in giro, non l’ho mai perso o forse l’ho perso e ancora non me ne sono accorto. Poi certe mattine parte la caccia al cellulare, che è inutile farlo squillare che tanto sono sei giorni che sta da qualche parte buttato e avrà smesso di respirare il litio delle batterie. Il cellulare che uso nella vita è anche quello che uso per lavorare. Pazienza.  Ci vuole pazienza. Di solito quando non lo trovo per dei giorni sta sotto il sedile della macchina o in garage, tra i pezzi smontati di qualche moto che un giorno rimonterò tutta e sarà uno spettacolo.
Poi capita che un giorno mi squilla il telefono. Un numero sconosciuto, che nel mio codice etico da utente di telefonia mobile è la tipologia assolutamente rifiutata. Numero privato, numero non in memoria… non ce n’è, non ci sperare, dovessi mai premere il tasto della cornetta verde poi la gola non riuscirebbe ad articolare il “pronto” che ti aspetteresti. Lascia perdere. Invece una domenica mattina, fascia oraria tabù di suo, squilla il cellulare e la sera prima chissà come ho perso la bassa tecnologia delle comunicazioni che posso permettermi tra le lenzuola e quel cazzo di maledetto trillo mi si pianta tra i ventricoli e gli altri icoli rischiando di uccidermi. Scommettici che la mia suoneria è il vecchio squillo vintage dei telefoni di una volta perché sono un uomo in bianco e nero e sogno di averci un cellulare a gettoni. Squilla e io non ci vedo, ho perso la sensibilità dei polpastrelli, sospetto l’amputazione notturna degli arti inferiori, mi chiedo perché mai la sera prima mi sono mangiato uno sformato di topo vivo. Squilla e quell’altra accanto scuote le chiappe e non per voluttà, per enfatizzare piuttosto lo stato tensivo generato da quel suono lancinante che investe anche lei e che mi chiede con un ringhio basso di placare. Squilla coi cani che escono da sotto l letto e mi guardano con l’aria di dire “ma ti sembra l’ora”. Sapessi almeno chi è che chiama ma non ci vedo, l’ho già detto, e rispondo sicuro di non sentirci neppure, giusto per fermare la tortura di quel drin drin vibrato.
“Giorgio?”
Voce femminile dall’altra parte, sospesa nell’incertezza. Conosce il mio nome. Qualcuno ha fatto il mio nome. Un infame di certo.
“Arughhh az”
Più o meno rispondo.
“Giorgio Olmoti?”
Armageddon, conosce tutto di me. I servizi segreti.
“Chi sei?”
Mi dice un nome e ride.
Resto lì, sdraiato nel letto con gli occhi di colpo sbarrati e piantati nel soffitto dipinto con due mani di buio, che le tapparelle fanno il loro sporco lavoro irreprensibilmente.
Già, la voce sua. Avrei dovuto riconoscerla. Così mi dico e non parlo. E parla lei e ride che una amica comune chissà come, una che ora vive dove vivo io e che non vedo mai, l’ha incontrata e le ha dato il mio numero.
L’ultima volta che ci siamo sentiti sarà stato di certo da un telefono a gettoni, che io il telefono a casa non lo avevo e ti chiamavo dalla cabina del policlinico.
Nell’era di facebook e di internet e anche in grazia di questo mio incessante vagare, ho ritrovato amici e compagni di scuola con cui ho condiviso caffè leggendo a volte nel profondo dei nostri occhi che se non ci eravamo più parlati per tutti questi anni forse un motivo c’era e quindi si parlava di quegli altri di cui non si sapeva più nulla che è un bell’esercizio della comunicazione a grado zero. Ma qui non c’è da parlare di scuola, di amici comuni, di passi condivisi, che piuttosto ci siamo trovati di sguincio senza cercarci e spaventati ogni volta. Nascosti senza che io avessi nulla da nascondere. Avevo il mio motorino razza Ciao e ne ho ancora uno uguale, per lealtà. E me lo sono chiesto dov’eri.
Mi chiedi se ho la moto, eccerto, se ho un cane, eccerto, se ascolto ancora un mucchio di musica, eccerto, se ho figli, eccerto, se faccio le fotografie, eccerto. Rispondo giusto a tutte le domande. Sono preparatissimo su di me. Ma sei ancora completamente pazzo, ma canti per strada e ti vesti con quella roba vecchia assurda. Quale roba assurda chiedo io. Ridiamo.
Toccherebbe a me fare le domande e dovrei chiederle se ha trovato uno veramente ricco come sognava, se è ancora bella come me la ricordo, se si ricorda come si disegna un tristallegro. Le mie domande fanno schifo e salto il turno e apro la busta dei ricordi spiccioli. Perdendo a poco a poco parole e confidenza. E restiamo così allora, ora ho il tuo numero e guarda che ti cerco e ci dobbiamo troppo vedere.
La mattina davanti alla stazione ci arrivo col passo del sorriso, che è un passo che m’è consueto e non pensare sia facile che il prezzo della felicità è alto e paghi ogni giorno e lotti senza mai smettere. Sono passati dei mesi da quella telefonata domenicale e siamo lì, in mezzo alle voci e alla fretta, a un passo da quel posto dove trovammo un portafoglio che ci regalò due giorni indimenticabili e sono passati trent’anni e lo dico senza il conforto della prescrizione ma con la nostalgia del rischio. Del resto ci stavi con me perché ero quello scasso della strada con gli anfibi e i pantaloni a quadretti e il cappello dell’esercito confederato. Andiamo al bar e gli altri ci lasciano da soli, perchè io sto con una donna meravigliosa che non ha mai smesso di rispettare questa mia tensione verso le cose che accadono. Prendiamo qualcosa che non ricordo e che non è nemmeno appiglio al passato, che allora non ce l’avevo la fissa del chinotto per esempio. Non abbiamo nulla da dirci e da condividere. Ha realizzato il suo sogno e non sogna più. Penserà lo stesso di me. Probabile.
“S’è fatto tardi, ma ora ho il tuo numero e non mi scappi più. Organizziamo una cena una di queste sere”
“Contaci”
Già... contarci... come fossero le pecore per un sonno che non sai afferrare.
Buona notte.

mercoledì 14 novembre 2012

una mattina mi son svegliato




Oggi, ti piacerebbe forse, ma non ne sono sicuro davvero. La gente sta scendendo in strada. Forse ti scapperà un sorriso e penserai che le persone oggi fanno le cose per essere come la televisione, come le fotografie, come il cinema e un po’ è anche colpa nostra se le urla arrivano così silenziose. Oggi sta succedendo qualcosa e quindi già me lo immagino che dirai che non succede nulla. Non è vero. Succede per esempio che tu stai morendo o sei già morto da qualche parte e da qui in poi non sei mai esistito. Capita che non ho idea del tuo reale dolore, mica una cosa morale ma piuttosto una maledetta morsa nella carne, che provo a confrontare con la mia esperienza vaga mordendomi la carne dentro le guance. Inciampo nel tuo ricordo e questo davvero mi infastidisce, che preferirei caderti addosso sul serio e bestemmiare l’ingombro del mio corpo goffo e delle tue ossa sottili. Che beffa che la mia ossessione per la memoria debba misurarsi con l’indisposizione verso il ricordo ma è di più, lo so che lo sai, è proprio che il ricordo in questo caso è un tabarro che abbiamo imparato a far indossare alla vita quando non regala altre possibilità. Stanno gridando ora nelle piazze e l’asfalto fa spazio agli schizzi di sangue che hanno già prenotato il posto loro sulla strada del successo. Il problema è tutto lì, nel successo che non è inteso come la possibilità di un bel rifulgere in seno al tessuto sociale ma piuttosto come quello che è già capitato, già accaduto. Inchiodati alla storia senza ragione di diventare più memoria, diresti tu solo guardandomi, che le parole, le benedette parole sono danno e dannazione di questo tuo respiro. Chissà se adesso c’è ancora il tuo respiro, ora intendo. Non ci sei voluto stare al gioco del compianto sul povero cristo morto, troppa iconografia scontata in saldo. Mi adeguo e non ho notizie ma stamattina, mentre spiego a mio figlio cos’è uno sciopero, ti sento morire di quella morte che si dimenticò di raccoglierti in montagna tanti anni prima. Aggrappato a un mitra scarico. Cazzo, non ci sarai più. Se qualcuno verrà a dirmi che ancora vivi nelle nostre scelte e nei nostri sorrisi, dovrà sapersi allontanare in tempo. Balle, stai morendo o sei già morto. Maledetto bastardo. E le genti che passeranno… passeranno appunto. Ognuno faccia la parte sua, questo certo che me lo devo ricordare. La tua faccia, quell'odore dei giorni in chiusura sono una cosa personale che non posso rischiare di perdere con l'azzardo dell'immaginario condiviso. Ora devo andare. In strada.

lunedì 12 novembre 2012

collegare la periferica


Allora, ti ricordi come funziona qui? Fai partire il pezzo e leggi.


Premessa. A Torino, negli ex mercati generali, ci hanno ficcato una celebratissima iniziativa sull’arte contemporanea. A Torino ci sono Artissima, Paratissima, Ganzissima e tutte ‘ste cose belle che contribuiscono a costruire una robusta grammatica comune da spendere in coniugazioni d’azzardo tra i tavolini della movida. Maledetto quello che ha deciso che un brulicare di persone inerti bardate di bicchieroni di plastica caricati a ghiaccio e qualcosa si dicono movida e fanno cultura metropolitana. Ieri era Paratissima per me, che mi figuro sia una specie di festival dei calci di rigore a giudicare dal nome. C’erano un mucchio di foto appese. L’ho già raccontato altre volte che nel mio mestiere ci passa parecchio la fotografia e almeno una volta al mese da vent’anni a questa parte, arriva uno a farmi vedere le sue foto scattate in India e ogni volta mi mostra le stesse foto di quegli altri prima di lui, passate in bianco e nero con un clic su un programma di fotoritocco, che tanto basta. C’è un bramino a bordo Gange che l’ho visto così tante volte presentato come uno scatto eccezionale, al punto da percepirlo come un lontano parente. La suggestione è che anche lui sappia di me, dall’altra parte del mondo con una scrivania ingombrata di foto mie e di altri, che mi ritrovo di nuovo la sua faccia davanti e mi pare ammicchi e mi chieda di tacere e reggergli il gioco dell’unico. Sono rupie meritate le sue. Ieri a Paratissima, sulle pareti di quei padiglioni, ho contato quattro bramini. Lì dietro Paratissima c’è il villaggio olimpico, che sono case vuote e mai utilizzate e costruite con il fiotto caldo dei finanziamenti per le olimpiadi invernali, sempre siano lodate, che arrivarono sulla città, che quando arrivano i finanziamenti si dice che sono per la città e c’è questa cosa strana che tutti i cittadini che conosco io, bada che non sono pochi, non si sono visti offrire nemmeno un caffè. L’unica memoria sociale di quella stagione finanziatissima sono i piumoni sgualciti che i vecchi volontari ancora indossano d’inverno e non per vezzo ma piuttosto per necessità, come l’eskimo di Guccini. Andiamo avanti. Dicevo che ci sono tutte queste fabbriche e queste aree che ancora puzzano di un maledetto lavoro sporco durato decenni e poi ristrutturazioni fatte nel tempi di un singhiozzo e acqua che trafila dai soffitti e crepe che si aprono sotto il sole ma c’era da spendere i benedetti finanziamenti. Insomma enormi leviatani spiaggiati sull’arenile di questa città regalata al  pulsare frenetico del lavoro culturale declinato in mille forme. Alla salute di Bianciardi perché qui sputano sulle tombe ma lo fanno con la grazia della mano davanti alla bocca. A Paratissima io ci sono andato ieri sera perché c’era l’ennesima presentazione di “La faglia” che è un romanzo ambientato in una periferia di fantasia torinese, e la storia è interessante ma soprattutto Massimo Miro, l’autore, è un catalizzatore di energie sparse e organizza ‘ste serate con gente che parla, che suona, che legge, che filma e proietta. Ci sono anche io in questo Barnum narrativo e faccio Sgummo, che sarebbe uno dei personaggi del romanzo. Si parla di periferie e città industriale e passato presente e piuttosto mi pare di notare un occhio antropologico e un’attenzione sociologica negli altri che mi lascia ammirato. Non ce l’ho quell’attitudine lì. Sono qui perché la periferia per me non è una categoria storiografica e neppure un luogo dello spirito ma piuttosto il contenitore di una fetta consistente della mia vita. Una cosa mica da poco che mi ha condizionato al punto da farmi essere sempre periferia di qualcosa. Senza rimpianti e senza rancori, con l’idea che un posto vale l’altro ma poi sempre in periferia rimanevo. Senza il culto del perdente, che si vince a prescindere da dove giochi, senza l’assunzione di un merdosissimo paradigma vittimario perché ognuno fa i conti con la sua pelle. Insomma prendo il microfono e leggo ‘sta storia di Sgummo e io non leggo quasi mai in pubblico, parlare certo che parlo spesso a titoli vari ma leggere… roba d’altri poi. Gratis per giunta. Non ho vantaggi da questa cosa, che nemmeno ce ne andiamo a cena a ridere insieme, per me è importante stare attorno a un tavolo e ridere insieme, vado lì e faccio Sgummo e a stento ho consapevolezza di chi ci sia sul palco con me. Ma va bene così, che di cose mie sparse ce ne sono milioni e Massimo Miro e il suo libro sono una bella cosa. Sta di fatto che ogni volta son lì seduto che mi guardo attorno e penso che sul tavolo ci sono sempre mille proposte brillanti per il lavoro sulle periferie e nell’esperienza mia tutto quello che di brillante riguarda quella fetta estrema dei territori cittadini finisce inevitabilmente sul bancone del “compro oro”. Bada che le periferie in cui sono cresciuto io non sono torinesi ma dammi palazzi e puzza di miscela grassa nelle strade e facce che ti inchiodano alla tua maledizione di essere “fuori zona” e saprò trovare segno identitario.
Per dire, sabato mio figlio giocava nella palestra di via Panetti. Dai, sfrutta la bella potenza delle tecnologie recenti e vai a vedere dove sta piazzata a Torino ‘sta strada. L’immagine di Google Maps ti farà vedere una bella zona verde, parco Colonnetti si chiama, bordata dalla salda nervatura di viali dritti dritti che sembra siano lì per portarti a fare una bella scampagnata fuori città. Certo, stai guardando dall’alto, dal punto di vista di dio, e ci sta che da quel punto di vista ti sfuggano certe attenzioni minime, certe sfumature, pare sfuggano anche al dio medesimo, soprattutto oggidì che le sfumature di grigio le vendono al supermercato e te le regalano per insistere sul tuo immaginario erotico bollito e sterilizzato. Bene, devi sapere che sei nel cuore di Mirafiori, mica cazzi, Mirafiori, proprio quella che aveva dato il nome alla meravigliosa FIAT 131 Mirafiori. Per inciso se giri lì attorno su Google Maps ci vedi casa mia e ci vedi i resti del mammut della fabbrica delle fabbriche. 


Quando sono arrivato a Torino, stiamo parlando dell’anno con la cilindrata portata a duemila tondi tondi, per Natale con Ste siamo andati davanti ai cancelli della fabbrica delle fabbriche, con il nome scritto grosso e  grigio contro il grigio del cielo e della terra. Lì, nel parcheggio vuotato dalla domenica, ho fatto una foto a Ste con Dani di pochi mesi in braccio e lei aveva un cappottino nero e lui un cappellone di lana fatto dalla nonna e la foto era in bianco e nero e l’abbiamo stampata e mandata a tutti con gli auguri nostri dalla città della fabbrica delle fabbriche. Da guardarsi ascoltando Vincenzina e la fabbrica appunto. Non è un caso che dieci anni dopo ho scritto un libro, Cantastoria si intitola se volete versare un contributo fattivo alla mia causa domestica, e Vincenzina era il mio Virgilio che mi conduceva per cinquant’anni di storia nostra, di imbarazzo nostro mnemonico, attraverso le canzoni. Tutto era partito da quella fotografia. Fatta proprio dietro casa nostra, che ve lo dicevo che la periferia per quelli come noi non è una possibilità o una maledizione, è e basta. Insomma l’hai trovata via Panetti. Un capillare dell’arteria di via Artom, una lingua d’asfalto che si infila nella topa verde di parco Colonnetti e che dura qualche decine di metri, Uno pseudopodo urbanistico che muore nel nulla di uno spiazzo di fango o di polvere, a seconda delle stagioni. Unica meta plausibile un impianto sportivo che sta ormeggiato a bordo parco e che comprende anche un palazzetto dove gioca mio figlio a basket. Il sabato lo accompagno alla partita e Ste entra con lui e gli altri genitori mentre io scelgo di andarmene in giro lì attorno e non devo dare spiegazioni perché nella mia tribù lo sanno benissimo che ho questa maledizione che devo andare e guardare e ascoltare e qualche volta raccontare a mia volta. Il cane è parte integrante di questo passo. Stavolta però resto in macchina, nel mio vecchissimo e indistruttibile pick up che è una seconda casa. In questo caso è un punto di vista privilegiato. Mi sono parcheggiato di fianco al campo da bocce perché mi piace sentire i discorsi dei pensionati, quasi tutti hanno versato il loro tributo alla santa fabbrica delle fabbriche. C’è il sole, ho un paio di Zagor, ho sempre qualche vecchio numero di Zagor sparso tra il bagno e il sedile dell’auto, Tom Waits che fa piovere cani dallo stereo che mi sono montato da solo sul magico pick up. Il cane acciambellato accanto. Se il cane sonnecchia tutto filerà liscio. All’inizio di via Panetti ci sono quattro camper, un campo nomadi improvvisato sulla strada con i panni stesi sulle recinzioni del parco, ad asciugarsi a quello stesso sole che ci stiamo godendo io e il cane. Ho vissuto quattro anni sul lembo di un enorme campo nomadi in un'altra città e quella casa costava pochissimo perché nessuno ci voleva vivere e ancora me le ricordo le grigliate e la musica e le retate. Bambini, un mucchio pazzesco di bambini. Passano davanti al bocciodromo, due soprattutto, con le loro bici, trionfo della cannibalizzazione. Uno più grosso, a occhio dodici anni come il mio, va a prendere l’acqua con una tanica. A piedi nudi, sbilanciato dal peso maledetto dell’acqua, nella mano sinistra stringe un telefonino di quelli che quando li lanciano sul mercato la gente fa la fila per farsi colpire in fronte. Mi fa ricordare una bellissima foto di Enzo Sellerio, scattata alla fine degli anni Cinquanta circa in Sicilia e didascalizzata “baracca senza acqua ma con la televisione” in cui si vede una ragazzina che esce con un secchio da una casa sfondata e sbilenca sul cui tetto campeggia un’antenna televisiva. I ragazzini che arrivano per giocare a basket scendono da macchine che sono già segnale di famiglia e ordine, che poi vai a sapere come stanno le cose mi sussurra l’esperienza di uomo che guarda. Incrociano i loro sguardi con quelli di quegli altri stracciati con le bici e i panni stesi sul bordo del parco. Mi viene in mente la sequenza di ladri di biciclette in cui il ragazzino protagonista con la sua mozzarella in carrozza a filargli la tela della felicità a fior di labbra, incrocia lo sguardo con l’altro, il bambino ricco, che conta il senso della sua vita sull’avvicendarsi delle portate. Maledizione di tutta ‘sta memoria di pagine e film e foto che mi porto ficcata in gola e che confondo in questo mio scrutare. Insomma sto lì in bilico e per questa volta non sarò agente di storia, di questa storiella mia a più voci, e resterò a fare quello col finestrino sul cortile: Però, permettetemi, a ben vedere uno come me ficcato dentro un vecchio pick up, con uno Zagor stretto tra le dita, una canzone rauca che esce dagli sportelli e un cane che dorme tenendo l’occhio azzurro chiuso visto dall’alto del vostro Google Maps fa già parte della giostra che cerco di descrivere con distanza ma è questa mia attitudine ad essere storia e film e foto e fumetto e uomo a mia volta. Con il sogno torbido e segreto di essere lo Zagor delle mie periferie per giunta. Ormai lì in via Panetti, abbiamo tracciato i confini di pertinenza, se non lo sapete facciamo così sempre nelle periferie. Se metto la macchina qui dieci volte questo è il posto mio, se porto il cane alle cinque al parco e sto in quel pezzo di prato non venirci col tuo che si sbranano e questo è il posto mio, lo sanno tutti che è il posto mio. Un fotografo un giorno s’è dedicato a raccontare le favelas attraverso i segni di delimitazione degli spazi di pertinenza tra una baracca e l’altra. Ottima idea ma non mi ricordo il nome del fotografo anche se l’ho conosciuto personalmente. Stiamo lì e ognuno attiva l’attenzione degli altri ma la regola è non far vedere che sei curioso e fare il vago. Tutti abili nell’esercizio d’estimo che ci ha fatto intuire che non c’è preda tra noi che non si piscia dove si mangia, ci godiamo il sole e il respiro di questo sabato pomeriggio. Nel palazzetto intanto si vince, si perde. Come fuori. Poi arriva una macchina sportivissima e teutonica, una cosa davvero fuori zona lì e penso subito “cazzo, il gran visir degli spaccia viene a vedere i suoi topi che ballano”, che il parco, m’ero dimenticato, è pure un supermercato stupefacente. Invece esce uno tutto sportivoelegante e col capello giusto e tira fuori un paio di scarpe bicolori e si cambia il mocassino e apre lo sportello e estrae una sacca da golf. Subito lo raggiunge un altro, ancora una berlina in sfoggio di tecnologia teutonica che brilla a quel sole che era il nostro sole fino a pochi secondi prima o ora per suggestione pare che su di lui brilli di più. Si cambiano e tutte le altre attenzioni della stradina si piantano sul bicolore di quelle scarpe e le mazze e la borsa con le rotelle. Si avviano verso il lembo del parco e a questo punto scendo anche io e scende il cane e lascio la macchina aperta e la musica che continua orfana d’attenzione e me lo immagino che molti avrebbero chiuso l’auto al posto mio premendo il telecomando e con le frecce che fanno l’occhiolino ma il mio camioncino non ha nemmeno la chiusura centralizzata e lascio perdere. Sul prato il comune, non ci posso credere, ci ha piazzato un campo da golf e altri ne arriveranno con le scarpe bicolori e si eserciteranno al tepore di quel sole. Ognuno adeguato all’altro in un equilibrio sospeso e surreale. Certo i pericoli ci sono. Pensa tu se uno spacciatore inguattato nei cespugli in fronte viene centrato alla tempia da una palla da golf. Rischia di restarci secco. Secco sotto questo sole che scalda la periferia mia che non è un luogo dello spirito ma piuttosto è lo spirito di tutti i luoghi. Buona fortuna a voi.




venerdì 9 novembre 2012

una canzone per me

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Non saprò mai rispondere a quelli che ti chiedono qual è il libro che porteresti su un’isola deserta, razionalmente mi porterei una buona lama di Maniago sulla suddetta isola e emotivamente ci vorrei la femmina della mia vita, ma libri e dischi e cose così lasciamo perdere. Non ho nemmeno una canzone da riferire a un momento preciso della mia vita e per uno che ha fatto della memoria un’ossessione metodologica e un mestiere magari non c’è coerenza ma tant’è. Ho estratto da certe pieghe profonde dello stomaco le parole per un libro mio lasciandomi portare da quell’accordo insistito che scava immagini ne La domenica delle salme e non era nemmeno il libro che ho scritto su De Andrè, non era nemmeno un libro sulle canzoni a ben vedere, e sull’argomento ho speso qualche boccia di inchiostro. Eppure mi capita una cosa e mi capita da trent’anni almeno. Mi succede, a far di conto per approssimazione col pallottoliere dei ricordi, da quando vivevo al bordo assoluto della periferia, proprio dove finisce la città e avevo il mio branco di amici, gente che ancora è la mia famiglia, e c’erano i nostri anfibi e i motorini razza Ciao con gli adesivi che celebravano la musica nostra e c’era quella sensazione di inadeguatezza in punta di rabbia. La musica che si sentiva allora andava ascoltata forte, che le voci nostre erano poca cosa. Me la ricordo quella musica lì ma, come dicevo, non la lego a un momento, piuttosto la ripasso spesso anche oggi. C’è una canzone però, una in particolare, che non ho mai reputato la migliore e nemmeno quella su cui mettere un segno per riconoscere l’emozione. Stava lì nell’aria come tante altre e se me la porto dentro non è perché me la son caricata con la passione ma piuttosto perché me la sono beccata come un raffreddore, come una cosa che non sai di portarti addosso fino a che i sintomi non dichiarano il danno loro. Sta di fatto che nel corso della vita mi sono trovato spesso al bivio. Si trattava sempre di scegliere tra cambiare facendo il compromesso di un sorriso alla merda e restare quello lì, che allora avevo un giubbotto di pelle, gli anfibi, una camicia a scacchi, un jeans sdrucito e un portafogli aggrappato a una grossa catena mentre oggi ho un giubbotto di pelle, gli anfibi, una camicia a scacchi, un jeans sdrucito e un portafogli aggrappato a una grossa catena. Ogni volta che sono rimasto nel dubbio e sono arrivato vicino a perdere il passo d’uso, non il migliore ma l’unico che conosco e quindi il più leale che posso permettermi, ogni volta che mi sono detto che se avessi solo trovato che lo schifo aveva un sapore schifoso ma che non si moriva di certo, quella cosa succedeva e succede. Arriva in dissolvenza da chissà quali maledette volute del mio cerebro sgualcito. Prima è una chitarra che picchia, dan dan dan dan… poi una nota di basso a scivolare nel dubbio e quella voce che mi racconta il vento in faccia che m’ha tenuto in vita fino a qui, che se era solo per il mero miracolo biologico del mio corpo ero crepato da un pezzo. Quando la sento che monta dentro di me, capisco che non ho scelta, che non c’è niente da scegliere, che io sto dentro quelle pennate furiose, che quel Fender Precision che sta per abbattersi sul palco in bianco e nero della copertina è lì a ricordarmi che io non mi porto addosso nessuna morale di riferimento ma ho quella fottuta canzone che s’accende come la spia d’emergenza del mio respiro. L’altro giorno, e ne ho scritto da qualche parte, era l’ultimo giorno per concorrere al massacro del concorso da insegnante, avevo compilato i moduli e me li rigiravo tra le mani e in dissolvenza dan, dan dan, dan…. London Calling.






Con gli occhi delle donne




Premessa.
Ogni giovedi dalle 15 alle 16 su www.ondefurlane.eu c'è Convoy, trincea d'ascolto un programma in cui si parla, io parlo per la santa precisione di fotografia alla radio. Anche di fotografia a ben vedere. In appendice alla trasmissione carico sul blog il racconto di alcune delle immagini evocate dai microfoni, giusto per dare una possibilità in più alle fotografie di esistere oltre la mera nozione che ne abbiamo sfogliando le riviste e guardando sui muri delle città.


1936.
I braccianti arrivano alla fattoria provenienti dalle contee vicine ma anche dagli altri stati. In treno, viaggiando su carri merci presi al volo, sempre con il rischio di essere scoperti e riempiti di botte da quelli delle ferrovie. Altri arrivano in auto, non certo belle macchine fresche di fabbrica, piuttosto rottami precari e rugginosi che hanno preso il posto dei carri dei pionieri e sono mezzi di trasporto ma anche letto e cucina e tetto. Per tutta la famiglia. Gli accampamenti sono pieni di bambini laceri, almeno di quelli che ancora non sono stati avviati al lavoro agricolo. Sono ormai anni che quella multiforme comunità si sposta inseguendo i ritmi della stagione agricola. Declinando l’esistenza soltanto al presente.
Dorothea Lange si aggira per anni tra quei volti segnati ed è parte di quella comunità, Di più, è la possibilità offerta alla memoria di quella gente disperata. La Lange va in giro aggrappata con ostinazione a suo apparecchio fotografico, con l'ossessione della realtà, in contrapposizione alle foto finte e stucchevoli dei pittorialisti, i fotografi che volevano realizzare foto che sembrassero quadri. Se ne va in giro, Dorothea, portandosi addosso il segno della poliomelite trasformata nel vantaggio di un passo diverso per un'attenzione diversa. Ha la premura di raccontare le cose più fragili, ben sapendo che sono quelle che possono dissolversi da un momento all'altro. Si è dedicata per la parte più consistente della sua esperienza fotografica, a documentare il reale, senza infingimenti, senza espedienti. Le sue foto compaiono nelle riviste dell’epoca e sono il racconto di quei giorni drammatici, comprensibile anche da chi non sa leggere.
I braccianti si sono radunati nell’area della California dove in quel periodo si raccolgono i piselli destinati all’industria conserviera. Chilometri e chilometri di monocolture. Sistemati ancora una volta alla meglio. Al campo c’è anche Florence Owens Thompson,. Trentadue anni e sette figli sono le cifre significative dell’esistenza di questa donna. Dorothea è un’abitudine per quella gente e ormai nessuno fa più caso alla fotografa dal passo incerto che si aggira tra i rifugi di fortuna. Nessuno si mette in posa e quello sguardo fissato nel vuoto, incorniciato tra i corpi avvinghiati dei bimbi è il racconto potentissimo di quell’epoca. Al punto da diventare una delle icone del Novecento, e una delle pietre miliari della storia della fotografia di tutti i tempi.

Dorothea Lange, Madre migrante, California, 1936


1984
Il campo profughi di Peshavar è una distesa infinita di tende. Sono cinque anni dall’intervento massiccio dell’esercito sovietico. Sono cinque anni dall’arrivo dei carrarmati con la stella rossa. Gli elicotteri con il loro palpito di morte, hanno cominciato a volare sui villaggi. Bombe, agguati nella notte, uomini che partono dal villaggio senza più tornare. Questa storia Sharbat Gula la conosce bene. Lei è una Pashtun, il suo è un popolo fiero che resiste in quelle terre martoriate da una guerra eterna. Cambiano i contendenti ma è sempre guerra e sempre tragedia per le vittime indifese. Sharbat Gula è solo una ragazzina ma ha già dovuto fare i conti con un’esistenza segnata dal dolore. Ha perso la sua famiglia ed è arrivata al campo profughi in Pakistan dopo mille traversie. Quel giorno è nella tenda che lì usano come scuola, giusto per non perdere la speranza di un ritorno alla normalità. Steve Mc Curry ha scelto di raccontare con le sue foto la tragedia della guerra. Beirut, Jugoslavia, Cambogia, Filippine, guerra del Golfo, Afganistan sono gli scenari in cui realizza i suoi scatti, sempre caratterizzati da un uso intensissimo, drammatico del colore. Ha imparato a vestirsi come i soggetti che intende ritrarre, lascandosi assorbire dall’ambiente che lo circonda, diventandone parte. Ha appreso la lezione dei grandi maestri di reportages e si muove nel campo profughi con lo stesso rispetto di Dorothea Lange tra i braccianti, tra gli ultimi. Il ritratto di quella ragazza, ancora non lo sa, diventerà di lì a poco una delle più famose copertine di tutti i tempi. Diciassette anni dopo tornerà sui suoi passi e ritroverà Sharbat, ora madre. L’esercito dell’unione sovietica se n’è andato, anzi è sparita dagli scenari internazionali la stessa Unione sovietica, ci sono stati i talebani, poi gli americani con i loro alleati e i terroristi islamici e di nuovo gli integralisti. Tutti carichi di armi e rabbia. Il tempo, quel tempo lì fatto di guerra e dolore e paura, ha segnato il volto della donna ma gli occhi sono ancora quelli rubati sotto la tenda a Peshavar e raccontano come nessuna immagine di soldati saprebbe fare il dramma di un’esistenza senza pace.
Steve McCurry ha imparato a raccontare la storia dal basso facendo suo il linguaggio dei reporter che per primi hanno scelto di occuparsi della foto sociale. Ha saputo condividere la lezione della Lange e ha deciso di raccontare attraverso gli occhi di chi subisce.

Steve McCurry, Ragazza afghana, Peshavar, 1984