"e io piangerò e saranno lacrime di silicone, perchè il futuro tutti ci svelerà per quegli androidi di prima generazione che siamo, difettosi nel chip dell'emozione." blughost
venerdì 2 novembre 2018
mastica e guarda
Dei primi giorni di scuola alle medie, ero alla Ellero di Udine, mi ricordo le prove di evacuazione. Niente di tecnologico, che la cosa più all’avanguardia di quell’istituto lì era la preside che si chiamava Fannì e era una signora avanti negli anni e con un continuo fremito di sopracciglia foltissime che facevan tutt’uno con la montatura tartarugata degli occhiali a lente spessa. Insomma, reduci di recentissimo sisma, certi dicono sismo, ci addestravamo a fuggire con ordine. Un bidello mezzo sciancato passava dall’aula e diceva “uscire” o altra frase concordata. che per quei tempi lì deliranti avrebbe potuto essere anche “uomo in mare” o “tora, tora tora”. Noi ci alzavamo e in fila vociante scendevamo le scale. In cortile c’erano gli altri alunni, almeno quelli raggiunti fino a quel momento dal segnale di evacuazione. Si giocava col frisbee che a quel tempo era una novità sconcertante e c’erano quelli veri comprati al negozio di giocattoli di via Paolo Sarpi o all’Upim, ma la maggior parte erano ricavati dal coperchio del fustino di una certa marca. Questi succedanei del frisbee erano in plastica blu e erano a ben guardare più pesanti e quando ti arrivavano in testa era una manganellata da non scherzarci. Del resto in quello stesso cortile, giocando a calcio con la parabola di un vecchio maggiolone, a me m’hanno tranciato il naso e sarà per questo che a tutt’oggi distinguo solo certi specifici odori tra cui spiccano la pizza, la passera, il cacao, le pagine stampate di fresco, le fragole, la moto, la pelle anche quella dei giubbotti.E con questo mi sono risparmiato di rivelarvi più avanti i miei gusti e il senso ultimo della vita a mio giudizio. Sia come sia in quei giorni era scoppiata la moda delle Big Babol e in classe era un continuo PAF di palloni che esplodevano sulle facce nostre ottuse. si sentiva l' odore di quelle gomme, tipo fragola sintetica, misto agli afrori della nostra età di transito, con le voci che passavano dal falsetto al baritono e un' ombra di baffo che ai più svelti già compariva sul labbro superiore. Poi si è sparsa la voce che il bambino che cantava "Mi scappa la pipì papà", una canzone che all'epoca furoreggiava, era morto per aver masticato un inverosimile bolo di gomme Big Babol e per molti della mia generazione è iniziata l'epoca della prudenza. Abbiamo imparato a guardare il presente virare in storia continuando a masticare piano, come mucche a bordo strada. Ed è stato l'inizio della fine.
la domenica delle salme
https://www.youtube.com/watch?v=-IYXROBDLdE
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La canzone nella storia
Nel 1984 De Andrè, affiancato
da Mauro Pagani, realizza un album, Creuza de mä, che gioca d’anticipo
rispetto ai tempi e che risulterà essere una perla significativa della
produzione del cantautore ma anche una pietra miliare della storia della musica
italiana(1). Il disco, cantato in genovese, accoglie nei suoi solchi i suoni
del Mediterraneo, frutto di una lunga ricerca di Pagani, poi condivisa con De
Andrè. La conferma di questa ricercata unità culturale del Mediterraneo arriva
proprio dal risultato finale raccolto nel disco, in cui l’uso del genovese
conferisce a quei suoni, prodotti da strumenti difficili e a volte rarissimi,
una musicalità che trasporta l’ascoltatore come poche volte accade. In altre
parole un capolavoro. Riproporsi dopo un gioiello simile al pubblico e ai
critici che attendono la prossima mossa non è cosa facile. Infatti passano
degli anni, spesi in giro in barca con Pagani, a raccogliere altre suggestioni
per quella storia che avevano iniziato a raccontare con Creuza de mä, e
ancora consumati in un progetto mai portato a buon fine sui suoni della
Mongolia, che doveva vedere anche la partecipazione di Vasco Rossi. In buona
sostanza, anni passati da De Andrè a fare il contadino nella sua tenuta
all’Agnata, lasciando che l’idea prendesse forma. Guardando il pascolo e il
cielo e le nuvole.
Proprio le nuvole.
Vanno vengono
per una vera
mille sono finte
e si mettono lì tra noi e
il cielo
per lasciarci soltanto una
voglia di pioggia. (2)
Aristofane (3) aveva usato la
metafora delle nuvole per parlare dei sofisti, mettendo Socrate nella stessa schiera,
considerati come cattivi consiglieri, che indicavano ai giovani un modello di
comportamento in antitesi col governo conservatore ateniese. Del resto
Aristofane era un aristocratico e si serviva della sua scrittura, della sua
arte, anche per difendere i suoi privilegi.
Per De Andrè le nuvole sono il
presagio ombroso sui nostri tempi, il dilagante malcostume che fa della cosa
pubblica la palestra in cui si anabolizzano l’arroganza, l’illegalità e la
sopraffazione. Su questo palpito d’angoscia il cantautore costruisce Le
nuvole, l’album del 1990 che vede ancora la collaborazione con Pagani,
musicologo e polistrumentista. Il disco è diviso in due parti, la prima in
italiano, la seconda in dialetto, a proseguire il racconto affrontato con Creuza
de mä e utilizzando l’italiano come l’ennesimo dialetto, mischiato agli
altri dell’incrocio salmastro del Mediterraneo. Fulcro del disco è La
Domenica delle Salme, una canzone scarna dal punto di vista musicale, con
una chitarra insistente, quasi inchiodata su un unico accordo ossessivo, e
interventi brevi e lancinanti con il violino, il kazoo e una sirena. Già dal
titolo il riferimento è alla Domenica delle Palme, ovvero alla breve euforia
prima della tragica croce e vi si può leggere una metafora del Sessantotto e
delle speranze di quegli anni. Nei giorni in cui De Andrè scrive i versi di
questa canzone molti di quelli che erano negli anni Sessanta sulle barricate,
si proteggono adesso dietro porte blindate e l’occasione persa di far emergere
i valori nuovi sostenuti dalla contestazione ispira al cantautore questa
corrosiva e impietosa canzone. Carica anche di una affilata autocritica, perché
De Andrè si aggiunge alla schiera compatta di quelli che si negano ormai
l’incazzatura, la rabbia per i temi alti e si concedono il ringhio solo quando
direttamente toccati in quelle sicurezze d’abitudine a cui non sanno più
rinunciare. Lo Stato è però il principale obiettivo dei versi taglienti di
questa canzone, in quanto portatore di una subdola dittatura che chiama
democrazia ma che s’è comprata col sorriso delle pubblicità le cellule reattive
della sua gente. Lasciando a regnare su tutto una pace terrificante.
La domenica delle salme
diventerà anche un video, per la regia di Gabriele Salvatores. Il disco, solo
nel 1990 vende oltre 330.000 copie. Segue una serie trionfale di date nel tour
che promuove il disco, che troveranno testimonianza nell’album 1991
Concerti.
La storia nella
canzone
La Domenica
delle Salme nasce come un’invettiva, come una rasoiata sul
volto della nostra politica peggiore, in barba alla traccia sapiente dei
chirurghi plastici che spianano rughe ma non sanno celare opportunamente certa
voglia di potere. Ancora, La domenica delle salme è il canto allucinato
irrigidito in uno stato di trance indotta, la rivelazione. Perché se questa
canzone voleva essere una riflessione sull’Italia degli anni Ottanta, grondante
arroganza e stilismo e onnipotenza partitica, e sul sogno utopico inghiottito
nel buco nero della memoria dei Settanta, alla fine risulta essere l’impietoso
specchio dove un intero secolo, alla chiusura delle sue stagioni, potrebbe
guardarsi per un’ultima sistemata alla maschera rossa della morte che indosserà
al gran ballo finale. Questa canzone è una delle composizioni più marcatamente
segnate dal senso della storia, e sulla spettrale passerella costruita sul
vuoto degli ideali dei nostri giorni sfilano, agghiaccianti, le ombre della
memoria oscura del Novecento. Rivelazione dicevamo e, nel rispetto della
profonda spiritualità laica di De Andrè, non pochi scrupoli si sono fatti
avanti tra i nostri appunti nel definirla tale, ma quell’incipit con la fuga
del poeta della Baggina non può non lasciare attoniti nella sua coincidenza. La
Baggina è la denominazione popolare del Pio Albergo Trivulzio, una casa di
riposo milanese passata agli onori della cronaca, perché da un’indagine su
tangenti e appalti in quella struttura, gestita dal socialista Mario Chiesa,
parte l’azione della magistratura milanese, che colpisce pesantemente la rete
clientelare e di finanziamento illecito alle strutture partitiche.
Le circostanze dell’arresto di Chiesa sono di estremo
interesse anche sotto il profilo simbolico. I magistrati milanesi erano stati
messi al corrente dei suoi maneggi da Luca Magni, titolare di una piccola
impresa che aveva ottenuto l’appalto delle pulizie del Pio Albergo Trivulzio,
la casa di riposo di cui Chiesa era presidente. Come altri imprenditori e
fornitori nella sua stessa situazione, Magni si racava abitualmente a pagare le
tangenti in contanti nell’ufficio di Chiesa presso il Pio Albergo.(…) Il magistrato Antonio Di Pietro ne fu
informato, e Magni andò a pagare la tangente successiva con un microfono
nascosto nella sua persona e i carabinieri a due passi. (4)
In poco
tempo, con un effetto valanga, l’operazione Mani
Pulite fa cadere nella
sua rete politici e imprenditori. Le comunicazioni giudiziarie partono ogni
giorno a decine dal Palazzo di Giustizia milanese (5). I partiti più colpiti da
questa offensiva sono la Democrazia cristiana e il Partito socialista (6).
Da Milano
l’indagine si estende nel corso del 1993 all’intero territorio nazionale,
rivelando mille piaghe purulente nelle amministrazioni locali e la connivenza
tra apparati politici e grande industria.
L’ammontare delle tangenti versate nelle casse dei partiti
e finite nelle tasche dei mediatori, nei conti svizzeri e nei paradisi fiscali
di mezzo mondo diventava sempre più cospicuo; si parlava ormai di centinaia di
miliardi e la maxitangente pagata per il riacquisto da parte dello Stato delle
azioni della famiglia Ferruzzi dopo il fallimento della fusione ENI-Montedison
veniva valutata addirittura attorno ai mille miliardi. (7)
Ai tempi della stesura de La
Domenica delle Salme lo scandalo della Baggina e il successivo sollevamento
del coperchio sul calderone ribollente di Tangentopoli, ancora non aveva
riempito le pagine dei giornali e le aule dei palazzi di giustizia. Eppure, se
anche non vogliamo parlare di rivelazione, dobbiamo convenire che De Andrè, con
un istinto forse affinato anche da certe travagliate esperienze personali (8),
annusa nell’aria il pericolo corso dalla libertà individuale. Mentre il letto
del poeta in fuga, brucia sulla strada di Trento, e già a nominarla quella città
evoca altri fantasmi (9) che poi prenderanno forme definite con lo scorrere dei
versi. E il presentimento, all’evocazione di Trento, trova conferma nei versi
successivi, quando Renato Curcio, nei passi obbligati della sua cella, viene
esplicitamente citato. De Andrè lo evoca per parlare dell’uso della giustizia
che obbliga al carcere un uomo, certamente ideologicamente coinvolto nella
lotta armata, ma a cui non sono ascritti delitti e che porta su di sé la colpa
di non essersi dissociato. E per la Gallura circolano liberi i sequestratori
del cantautore, beneficiari di quella legge che confonde la delazione col
ravvedimento.
Il riferimento a Curcio è preciso. Io dicevo semplicemente che non si
capiva come mai si vedevano circolare per le nostre strade e per le nostre
piazze, piazza Fontana compresa, delle persone che avevano sulla schiena
assassinii plurimi e, appunto, come mai il signor Renato Curcio, che non ha mai
ammazzato nessuno, era in galera da più lustri e nessuno si occupava di tirarlo
fuori. Direi solamente per il fatto che non si era pentito, non si era
dissociato, non aveva usufruito di quella nuova legge che, certamente, non fa
parte del mio mondo morale… Il riferimento poi all’amputazione della gamba,
voleva essere un richiamo alla condizione sanitaria delle nostre carceri. (10)
Curcio il carbonaro, è quindi
pretesto per parlare anche delle condizioni delle prigioni italiane, ancora
piene di detenuti politici di destra e di sinistra. Il nesso tra carcere e
società è sempre stretto. Il meccanismo detentivo si propone da sempre due
scopi: il recupero dei soggetti devianti e l’allontanamento dei pericolosi dal
consesso civile. Dunque allontanamento e recupero sono due aspetti racchiusi in
una stessa funzione, con evidenti problemi di gestione, considerata la
contraddizione insita nelle due finalità. Per questo il sistema detentivo
necessita di essere continuamente riformato.
Se nei primi decenni
dell’industrializzazione il carcere è una struttura di adeguamento alla
fabbrica, in cui i detenuti vengono avviati alla produzione progressivamente,
con l’avvento della società del benessere e con la richiesta di
specializzazioni del sistema produttivo, questo criterio viene progressivamente
abbandonato e il carcere diventa lo strumento del controllo sociale. Nelle
società avanzate la detenzione serve a disciplinare le irrequietezze, le
insofferenze, le aspettative che esse stesse hanno generato; le celle si
riempiono prevalentemente di individui che vivono ai margini della società
opulenta o la rifiutano. A raccontare quelle ore di cella e le passeggiate e
l’isolamento ci si prova con successo Giuliano Naria, costretto a passare in
carcere nove anni e sedici mesi della sua vita perché sospettato d’essere un
brigatista rosso e in seguito prosciolto da ogni accusa. Il suo libro, I duri,
più di ogni dato statistico restituisce la situazione carceraria degli “anni di
piombo”, fatti non solo di detenuti politici ma anche di comuni legati ai
diversi clan e autori di eclatanti gesta criminose, e per lo stile con cui è
scritto e anche, a tratti, per l’ironia che traspare nel raccontare certi
episodi, si rivela anche una prova letteraria di ottimo livello.
Ho alzato la testa e ho visto un’eternità di giorni assenti, una
sfilata di solitudini senza termine. Ho aperto la scatola di salsa di pomodoro
che mi ero portato dall’Asinara facendola in barba alle guardie e ai caramba,
ho montato il cannone e sono andato in cerca dell’assoluto”, così ha raccontato
Piero Montecchio al giudice istruttore di Brescia che gli aveva chiesto perché
avesse sequestrato quattro agenti e tre infermieri.
Il carcere recide sistematicamente tutti i tuoi rapporti,
vuole imperativamente diventare il tuo unico interlocutore. Annebbia e confonde
la tua fantasia e la sostituisce con il nulla di un’eternità destinata a guardare
verso il vuoto. Si può resistere soltanto avendo chiara consapevolezza, o
credendo di averla, di ciò che si cerca e di ciò che si è disposti a rischiare.(11)
La Domenica delle Salme viene celebrata per quelli nelle
celle e per quelli fuori, che contano sulla sicurezza della loro libertà e che
invece vengono lentamente schiacciati dal potere invadente che scandisce i suoi
tempi non sulle stagioni ma sull’ora dell’aperitivo. Un’Italia da bere,
assistendo alla tragedia col bicchiere sospeso tra due dita e i salatini lì,
accanto al modulo per accendere l’ennesimo finanziamento alla vita.
E non
solo il nostro Paese. Il senso della storia che scandisce l’accordo insistente
della canzone allarga la visione oltre l’Italietta a un passo dalla Seconda
repubblica, anch’essa ampiamente prevista in questi versi. I Polacchi ai
semafori lustrano gli occhi al loro sogno d’occidente mentre i nostri
imprenditori d’assalto colonizzano l’Est europeo e i nuovi mercati dove la
manodopera è a costi bassissimi e si può produrre con significativi guadagni
merci che poi vengono reintrodotte sui mercati occidentali. Nel giugno del 1989
in Polonia si svolgono le prime elezioni libere dell’Est europeo. Il Partito
comunista polacco viene prepotentemente sconfitto, mentre trionfa Solidarnosc
(12). Di li a poco anche in tutti gli altri stati dell’Est, quasi sempre in
maniera pacifica (13), con un effetto domino, passano dal regime comunista alla
democrazia. Prima tocca all’Ungheria e poi è la volta della Germania dell’Est,
col simbolico crollo del muro che divideva in due la città di Berlino (14). E i
fantasmi del Novecento più nero, con la scimmia del quarto Reich che balla la
polka sopra il muro, sembrano riproporsi nelle notti di quegli anni Ottanta,
respirate coi polmoni pieni del gas esilarante che un apposito Ministero del
sorriso si occupa di liberare nelle strade. Perché le fucilate d’un tempo sono
imbarazzantemente fuori moda nell’Europa degli anni Ottanta. E allora si può
pensare anche alla piramide di Cheope, tutta da ricostruire
masso per masso
schiavo per schiavo
comunista per comunista.
Il crollo
del muro segna anche la fine della guerra fredda, ovvero del confronto tra Stati
Uniti e Unione Sovietica, giocato sullo scenario internazionale. A risentirne,
tra i paesi occidentali, è, insieme alla Germania che si riunifica, soprattutto
l’Italia, il paese del blocco occidentale con il più forte partito comunista,
che si era giovata di speciali attenzioni da parte dei paesi membri
dell’alleanza occidentale. In contropartita il nostro paese doveva garantire
lealtà all’alleanza e l’accettazione di una condizione di particolare tutela da
parte degli Stati Uniti, in relazione ai rapporti tra i governi della
repubblica e il Partito comunista.
Con la fine della guerra fredda e il crollo del comunismo,
veniva meno quella rete di protezione che era stata stesa per rafforzare la
democrazia italiana. Ne rimanevano indeboliti i partiti di governo che se ne
servivano per consolidare il loro sistema di potere e che dai rapporti speciali
con gli Stati Uniti derivavano una particolare legittimazione, mentre sul
versante dell’opposizione il crollo del comunismo internazionale provocava la
profonda crisi di quello italiano. (15)
Sarà a
partire da questa crisi di baluardi ideologici ma anche dalla paralisi della
politica tradizionale di fronte all’assalto della magistratura di Mani pulite che si costruirà la parabola politica del trionfatore della
Seconda Repubblica, Silvio Berlusconi. Proprietario di un gruppo considerevole
che poggia le sue fondamenta nell’edilizia e nell’editoria, il futuro
presidente del consiglio, si incorona salvatore della patria, che considera
scempiamente governata per quarant’anni per colpa dei comunisti. E chi meglio
di lui, proprietario delle televisioni più viste e dei giornali più letti e
della pubblicità più efficace e dei comici più salaci e dei tragici più
commoventi può rapire le coscienze che trovano sollievo in quel già citato gas
esilarante.
Ora, dentro una situazione di questo tipo, pericolosamente
vicina allo sfascio dell’Impero, mi sembrava giusto intervenire: con la satira,
con l’ironia, con la “denuncia sociale”. Un po’ come avevano fatto, certo
meglio di me, Apuleio con L’asino d’oro e Petronio col Satyricon. (16)
Mentre
nelle strade si celebra il funerale di Utopia e l’atmosfera richiama certe
pellicole da sopravvissuti al dopobomba, De Andrè non risparmia le sferzate
agli stessi cantautori
voi che avete cantato sui trampoli e in
ginocchio
con i pianoforti a tracolla vestiti da
Pinocchio
voi che avete cantato per i longobardi e per i
centralisti
per l'Amazzonia e per la pecunia
nei palastilisti
e dai padri Maristi
voi avevate voci potenti
lingue allenate a battere il tamburo
voi avevate voci potenti
adatte per il vaffanculo
La Domenica delle Salme, la canzone, che ha attraversato la
memoria del Novecento, per riferimenti precisi e per atmosfere accennate, si
chiude con un frinire di cicale, inutile vibrante protesta senza seguito,
ultima voce di dissenso assenso.
(1)
Creuza de
mä riceve moltissimi riconoscimenti anche
internazionali. Tra i più significativi ricordiamo il premio assegnato all’undicesima
edizione del Club Tenco, come miglior album e migliore canzone in dialetto
dell’anno. La rivista “Musica e dischi” alla fine del 1984 interpella cento
critici musicali per un referendum che elegge miglior disco della categoria
leggera e della categoria rock. A coronamento di questi successi, arriva la
dichiarazione di David Byrne, già leader dei Talking Heads e grande esploratore
delle contaminazioni sonore, dichiara che Creuza de mä è uno dei suoi dischi preferiti in assoluto.
(2)
Versi tratti dal
brano Le nuvole, contenuto nell’omonimo
album.
(3)
L’ateniese
Aristofane, (445 ca. –385 ca. a.C.) è il
più celebre commediografo dell’antichità. La sua produzione è particolarmente
testimoniata perché ci sono pervenute ben undici commedie intere della sua
produzione che ne doveva comprendere circa una quarantina. Le sue commedie, in
cui si mischiano l’osservazione finissima della realtà, la buffoneria
caricaturale e un delicato lirismo, sono dominate da una conduzione letteraria
brillante e da un’inesauribile vis comica,
che a volte può apparire grossolana ma che sa utilizzare anche un’ironia
sottile e allusiva.
(4)
Paul Ginsborg, L’Italia
del tempo presente, Einaudi, Torino, 1998, pag.
478.
(5)
Alla fine del
1992 si calcola che il numero dei parlamentari inquisiti aveva superato il 15%
del totale.
(6)
Nel febbraio del
’93 il ministro della Giustizia Claudio Martelli, raggiunto da un avviso di
garanzia, per concorso in bancarotta del Banco Ambrosiano, è costretto a
dimettersi. A distanza di pochi giorni tocca anche al segretario del PSI,
Bettino Craxi, che abbandona la segreteria del partito, dopo diciassette anni
in cui ha mantenuto incontrastato il vertice. In marzo e aprile dello stesso
anno i democristiani Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani sono raggiunti da
comunicazioni giudiziarie. Il processo ad Andreotti, accusato di associazione
mafiosa, si protrae per anni e rappresenta, in un certo senso, il processo alla
Prima Repubblica di cui questo politico era, nel bene e nel male, figura iconica.
Alla fine Andreotti viene prosciolto da ogni accusa.
(7)
Giuseppe
Mammarella, L’Italia contemporanea 1943-1998, Il Mulino, Bologna, 1998, pag. 570.
(8)
Dal 27 agosto al
22 dicembre del 1979 De Andrè e la moglie Dori Ghezzi rimangono nelle mani dei
sequestratori che li prelevano dalla loro azienda agricola in Sardegna e li
costringono a rimanere incatenati nei boschi fino al pagamento del riscatto,
che ammonta a seicento milioni di lire e che fu versato dal padre del
cantautore. Da questa esperienza De Andrè trasse ulteriori conferme alla sua
tesi sulle persone costrette ai margini della storia e l’album che compose con
Massimo Bubola e con il quale si ripresentò al suo pubblico dopo la brutta
esperienza sarda (il disco, senza titolo, viene anche detto L’indiano, a ragione di un pellerossa a cavallo disegnato sulla
copertina) è un parallelo tra gli indiani d’america e i pastori sardi, due
realtà schiacciate sotto il peso del nuovo che avanza e trita identità. Siamo
nel 1981 e ancora sono in pochi a parlare dei pericoli di un sistema
globalizzante.
(9)
Nel 1968 a
Trento la facoltà di sociologia che aveva fatto arrivare nella cittadina
ragazzi da tutte le parti d’Italia, vede nascere uno dei focolai della protesta
più accesi, che successivamente da stimolo alla formazione delle Brigate Rosse,
il gruppo eversivo di sinistra più noto e agguerrito. Da Trento parte
l’esperienza politica e umana di Renato Curcio e Margherita Cagol. Il primo lo
ritroveremo ancora nel corso dell’analisi de La domenica delle salme, mentre per quanto riguarda la Cagol, compagna di
vita di Curcio, passata alla lotta armata, viene uccisa in un violento scontro
a fuoco in un cascinale, presso Acqui Terme.
(10)
Doriano Fasoli, Fabrizio
De Andrè. Passaggi di tempo, pagg. 68, 69.
(11)
Giuliano Naria, I
duri, Baldini & Castoldi, Milano, 1997,
pag. 37.
(12)
Solidarnosc era
un sindacato indipentdente sorto in Polonia nell’agosto del 1980, sull’onda
degli scioperi dei cantieri Lenin a Danzica. Il suo principale esponente Lech
Walesa fu incarcerato nel dicembre del 1981 e fino al 1989 l’organizzazione agì
in clandestinità. Nel 1989, con la caduta del regime comunista Solidarnosc
ottenne grandi consensi ma negli anni a venire la sua spinta propulsiva andò
esaurendosi fino quasi a fa scomparire l’intera organizzazione.
(13)
Dei paesi
europei del blocco comunista, solo la Romania ebbe un passaggio al sistema
democratico violento, che culminò con la condanna a morte del dittatore
Ceausescu.
(14)
Nel 1961, ad
opera della RDT, fu eretto un muro che impediva il passaggio e quasi il
contatto visivo tra il settore Est e quello Ovest della città. Il 9 novembre
una folla festante assaliva il muro con arnesi più o meno improvvisati. In
pochi giorni il muro veniva demolito e i suoi resti diventavano merce da
vendere ai turisti, con tanto di certificato che ne attestava l’originalità.
(15)
Giuseppe
Mammarella, L’Italia contemporanea 1943-1998, Il Mulino, Bologna, 1998, pag. 543.
mercoledì 10 ottobre 2018
l'ultimo treno
Sono su Italo, direzione Torino. Quella sensazione d'essere Garabombo che si impossessa di me nelle giornate romane gradualmente svanisce e già a Settebagni riprendo nozione dei miei contorni, per quanto imprecisi all'origine. Viaggio in prima grazie alle offerte e aspetto con ansia le ragazze di "qualcosa da bere? Da mangiare dolce o salato?". A pranzo ero felice per aver trovato una data a Venezia, ora mi hanno comunicato che s'erano sbagliati. Vabbè, sarà per la prossima e quando dico cosí guardo a questo vetro appannato che da decenni chiamo pomposamente futuro. Che cazzo di fatica e chilometri e misurarsi con l'estinzione dell'umano necessario Ho cambiato case e lavori e letti e passi e a sentirmi addosso i loro "beato te" ho cercato di vendere in saldo la bella immagine d'arte e passione che tanto piace in cambio di una cena per me e i miei. Mi capita di incontrare gente che dice che mi legge e ride tantissimo e tutte le volte sorrido e quello che sta dentro ficcato tra l'aorta e l'intenzione ringhia "Ridi in faccia a questo e paga un giro".
Davanti a me c'è una carina, sui quaranta Le scappa la vita dalle mani e conosco amici che campano di carne frodata a quell'urgenza che prende le femmine e i maschi nella stagione di mezzo. Come farsi chiamare chef quando distribuiscono l'ultima zuppa ai condannati a morte.
L'agro romano sfila dal finestrino in un tramonto che non fotograferò perché l'egoismo può essere una possibilità che mi mette in pari con le risate.
sabato 18 agosto 2018
Di me e di Claudio Lolli e delle strade vuote
Un sogno di tutta la vita. Una grammatica nuova da inventare a martellate, verbi da coniugare come fossero sposi e sostantivi da declinare come fossero le generalità davanti alla sbirraglia e il verbo essere che guizza nei lombi e diventa copula. Ancora, preposizioni come fossero la teoria di una raffinatissima arte amatoria, accenti come se ognuno fosse portatore di un dialetto da far insistere sulla lingua di stato e poi una madre da chiamare sasso e gli amici da chiamare piedi. Il mio sogno di tutta una vita, e lo sanno bene quelli che mi frequentano, è parlare con parole impastate di suono ma senza un senso recuperabile da un dizionario e gli spigoli sono Takete e le curve Maluma. Cammino per strada e parlo lingue aliene, mai esistite, rubate a un bestiario medievale scritto in un carattere perduto. Le regole sovvertite del linguaggio sono la mia ossessione. E io lo so bene da dove arriva questo vizio dell'alfabeto fantastico. Dentro ci sono Borges, e i diari scritti da Darwin sul Beagle e i graffiti per strada e nei cessi degli autogrill e tutte le lingue minime, i codici dei contrabbandieri e le grammatiche di confine, i tatuaggi veri e i commenti nei social. E la tua analfabetizzazione come pratica della rivolta.
Oggi sei morto e lo vengo a sapere mentre sto qui, seduto nel portico di una masseria alle porte di Matera, una città che mi ha accolto per trent'anni e che adesso non riesco quasi a guardare, che non è più alla portata del mio respiro. Chissà per te Bologna. Sono qui, con il cane sotto il tavolo e questo odore di terra maledetta e sudore e la salita su cui arrancano convogli di turisti da tutto l'universo, attratti dall'attrazione, dalla voglia di esserci come si vede in televisione. Sei morto e a leggerlo resto con il gesto fermato a mezzo di un bicchiere da portare alla bocca. Chissà tu ora e chissà il tuo bicchiere ultimo se è già stato lavato. Alla fine degli anni settanta son cresciuto nel lembo ultimo della città, con i palazzi appoggiati al bordo dell'autostrada. Conciavamo le nostre pelli giovani con quei suoni d'oltre manica duri e rabbiosi che stavano diventando il nostro fortilizio, la linea difensiva che mettevamo tra noi e il mondo tutto. Avevamo pesanti cappottoni neri e anfibi e capelli che ci tagliavamo tra noi come in un rito di socializzazione tra primati. E a casa avevo un giradischi mono che era servito per certi vinili con le favole che c'era una voce che ti raccontava Pinocchio e ti ricordava di girare la pagina del libro a ogni trillo di campanello. Dopo anni di abbandono quel giradischi lo avevo recuperato all'uso e ci avevo attaccato le casse che originariamente erano sul bauletto di una vespa px, al tempo le vespe avevano pure lo stereo se volevi e sognare era ancora un esercizio di ridefinizione cromatica del presente e una possibilità. Chissà se già si stavano disoccupando le strade dai sogni. A dire il vero appeso alla parete della mia stanza c'era tutto il bauletto della vespa, nemmeno lo sforzo di smontarlo, con le casse e lo stereo e due fili accroccati per alimentarlo con la presa ma i dischi dovevo sentirli con quel piatto di quando ero piccolo, regalo di qualche natale dai parenti, che era così povero che per anni ho pensato che l'espressione "il piatto piange" fosse riferito alla misera tecnologia che potevo permettermi per sentire i miei dischi. Chissà come sentivi i dischi tu. Poi con i soldi che mettevo via, in bilico sulle monete di resto quando mi mandavano a comprare il pane e il latte, che prima una famiglia poteva sentirsi immortale fino alla data di scadenza del cartone del latte, sono andato alla Discotex. Allora stavamo ore a darci ragione dell'utilità del pollice sovrapponibile, facendo scorrete rapidi i dischi e i dischi e ancora i dischi dentro lo scaffale e sapevamo tutte le copertine e tutti i titoli e chi suonava perchè tutto era compreso in quel linguaggio complesso e partecipato che era la musica. Chissà se ti piaceva davvero quella copertina che non mi ha mai convinto. E ho comprato "Aspettando Godot" e quel pugno di anni che avevo s'è lasciato cullare da quelle tue canzoni che erano diventate per me una cosa intima, personalissima e incondivisibile. Certo, alla fine gli altri avevano trovato conferma ai loro sospetti e quello che sembrava un peccato inconfessabile nell'era del suono duro e sporco e dei cappottoni e degli anfibi è diventato il mio segno distintivo. Ascoltavo Claudio Lolli e ero pronto a difendere la mia scelta contro tutti. E mi facevo fare le cassette e le mandavo avanti e indietro a riempire la mia stanza tutte le volte che mi capitava di stare in casa. C'erano mille altre canzoni ma le tue erano un privilegio, un' esclusiva irrinunciabile al mio mondo pesato sulle rinunce. Chissà a cosa hai rinunciato tu, che tutti abbiamo una quota di no da regalarci. Insomma, sei diventato parte della mia vita con le tue canzoni.
Ora son questo qui, dice che faccio un lavoro che non si capisce, in bilico sulle parole scritte e dette ma un fatto è certo, i miei compagni di viaggio sono raramente storici dell'arte e esperti di linguaggi mediatici e didattica, come ci si aspetterebbe dal mio mestiere, ma piuttosto negli anni ho imparato a farmela con i musicisti e i cantastorie e a calcare con loro palchi portandomi addosso le parole mie inventate e non e pure quelle che ti ho rubato e ho copiato alle pagine degli appunti del mondo. Tiro a Campari insomma. Con te ci siamo incrociati un paio di volte. Il circo premiante della canzone autoriale a marchio d'origine t'aveva a lungo ostracizzato e poi riguadagnato, nel comodo di un segnale da dare per il rinnovamento e per un disco che, perdonami, non era certo dei migliori, decretandoti recentemente cantautore dell'anno. Chissà da quanti anni speravi non capitasse. Ma io di queste cose me ne son sempre fregato e me ne son battuto le palle di quel turbine di vocine che oggi hanno diritto di esistere perchè la voce non conta nulla e tutti confondono l'opinione con la conoscenza e si sentono portatori di sacre verità. Chissà che ne pensavi tu. Qualsiasi cosa succederà giuro che, questo è il culto mio della morte, non mi permetterò mai di azzardare che tu avresti detto così e fatto colà. Da adesso a sempre. Non si parla mai e mai e mai per bocca dei morti. Ora troverai mille amici che non sospettavi da vivo ma l'amicizia oggi si misura su lunghi elenchi digitali di persone che non hai visto mai e quindi tutto ha il peso del nulla. Fottitene e fottiamocene. Di te mi resta una canzone scritta sul muro e parafrasando Mutis se ci sarà qualcosa d'altro ci rivedremo altrimenti non importa. Io credo che non importerà. Ne sono quasi certo ma la vita si pesa con le incertezze. E ti regalo il dispiacere di oggi, qui, davanti a questa terra invasa dal sole e con questo gesto del portare il bicchiere alle labbra che concludo come fosse un saluto. Io alla fine ho trovato la mia Anna di Francia. Questo solo da anni volevo dirti.
Grazie.
domenica 27 maggio 2018
Porta cavalleggeri, io porto il vino
ph. Giorgio Olmoti |
A Porta Cavalleggeri c'è uno su una sedia a
rotelle che presidia un lembo di strada davanti a un paio di pizzerie. Chiede
l'elemosina ma senza troppo strepito a quelli che passano per andare o tornare
dalla madre di tutte le chiese. Frotte di turisti di tutte le nazionalità e
preti vecchi e preti giovani e suore e guide sudate con il microfono sudato e
sandali e calzini e cappelli di paglia. Lui ha la faccia con la pelle di cuoio,
come mio nonno che s'era fatto tre vite in mare. Sta lì seduto e l'ho visto
combattere e vincere contro altri questuanti che si volevano fare la zona sua. Gli passo accanto mille volte, che ormai questa zona, senza volerlo davvero, è
diventata la mia e nei bar mi sorridono e la trattoria comincia a scoprire
cosa mangio e come mi chiamo. Da qui parto la notte per le mie lunghissime
camminate con le scarpe da bosco e il coltellino svizzero che mi ha regalato
Franchino quando eravamo ancora ragazzi e che a tenerlo in tasca mi sento
invincibile. Stanotte verso le due, tornando da strade buie e misteriose, sono
passato per quella strada e l'ho trovato infilato in un portone con una coperta
addosso che dormiva. sempre sulla sedia a rotelle, sorta di centauro della
modernità metà uomo e metà macchina. Dormiva con quella pelle di cuoio, che non
si stende mai, a coprirgli la faccia. Ha aperto mezzo occhio sentendomi passare.
mi sono chiesto come cazzo fa quando deve andare al bagno. Un pensiero stupido,
leggero, della notte, a piedi tra cani di strada. S'è aggiustato la coperta e
ha ripreso il respiro del sonno, del riposo è più difficile. e anche io ho
continuato a respirare, Vivo di abitudini.
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