Settembre 1976. Ho undici anni.
Sto seduto nello scompartimento di un treno. Seconda classe. Quelle poltrone
imbottite che scorrevano a formare un approssimativo giaciglio con la
complicità di chi ti stava di fronte. Quel conforto di tappezzeria e polvere su
cui s’erano masticati il sonno amaro del viaggio quelli prima di te, lasciando
sul panno tracce di bava, volendo restare su una visione ottimistica dell’umano
genere. Sei poltrone disposte a fronteggiarsi e chiuse nell’intimità di un
confine dettato dalla porta scorrevole. E sincronizzare il tuo mezzo sonno
sullo scorrere di quella porta fragoroso, che indicava l’irruzione del gendarme
obliteratore. “Biglietti prego”. Prego cosa. Prega piuttosto che sono ancora
troppo piccolo, che se quando mi sarò fatto uomo piomberai sul privilegio mio
da biglietto di seconda con codesta tracotanza me ne batterò del divieto e ti
lancerò come oggetto dal finestrino. E intanto quel treno attraversa la pianura
padana e mi riporta a casa dopo mesi di assenza. In un tintinnio di posacenere
grossi come urne e tavolini piegati al destino. E su tutto il monito dei moniti
che recita “tirare in caso di emergenza”. A rendermi più lieve il disgusto di
quell’andare che, l’avrete provato di certo, ti lascia in bocca e sui vestiti e
nelle mani quel sentore che dici “di treno”, certe riproduzioni monocrome delle
meglio meraviglie della penisola nostra. La piazza di Mazara, il palazzo
comunale di Vimodrone. Sulle teste dei viaggiatori le bagagliere, la rilettura
di quell’altro accessorio dell’epoca che erano i pesanti portapacchi montati
sui tetti delle auto. Ora si dicono barre e sono cose sottili e in odore di
ergonomia ma al tempo li chiamavano imperiali e a montarli c’era la sensazione
di incoronare la propria auto, come si sarebbe fatto con il miglior Carlomagno
della mobilità cittadina. Oggidì nei treni i bagagli sono riposti in angusti
fornetti plasticosi ma allora s’immaginava che le partenze fossero spesso esodi
domestici che obbligavano le famiglie al ciclopico sforzo di traslare pesanti
salmerie e gli scompartimenti erano soppalcati da pesanti grate su cui, alla
necessità, si poteva anche dormire.
Tutte le età sono buone per
viaggiare ma a undici anni mi stavo misurando con il mio primo percorso
ferroviario da solo, senza il supporto di familiari e affini. Certo non una
cosa da scherzarci troppo sopra. Da Torino a Udine. A maggio in Friuli c’era
stato il terremoto e mi avevano mandato dal parente torinese, ignari del
destino che mi avrebbe portato a vivere stabilmente nella capitale sabauda alla
mezza età e a vestirmi come il Gianduia della nota iconografia carnascialesca.
Avevo in quei giorni vissuto acquisendo ampie zone di libertà che da lì non
avrei più inteso restituire al nemico. M’era stata data una chiave di casa e
l’obbligo di ripresentarmi prima del buio. M’avevano segnalato per buono il
buffet della stazione se avessi avuto fame e m’avevano ficcato in tasca dei
soldi per badare a me medesimo. A undici anni a San Salvario. Provenendo da un
posto dove non succedeva mai nulla a parte i terremoti devastanti di tanto in
tanto. Sta di fatto che la mattina mi svegliavo, non mi lavavo affatto tanto
nessuno mi controllava e uscivo in strada a leggere il libro del mondo. Sotto
casa c’era un tosatore di cani e rimanevo davanti alle vetrine a guardare i
barboncini cotonati e le padrone dei suddetti cotonate anch’esse. In quei
giorni mi stava scoppiando qualcosa dentro che non sapevo gestire. Mi guardavo
attorno con un istinto di caccia e un desiderio che non trovava forma concreta
ma che mi si è ficcato nella pancia allora e non mi ha più abbandonato. Le
femmine erano passate al centro del mio universo e camminavo per la città, in
quella zona di suburra che m’era toccata della città, come il peggiore dei topi
di campagna arrazzati. C’erano anche le puttane a tutte le ore in giro per il
quartiere ma erano a prova di desiderio e fantasia e piuttosto me la giravo per
il mercato, ubriaco del frusciare delle vesti delle femmine domestiche.
Mangiare si mangiava quando
capitava, che il parente era spesso distratto da altro e mi lasciava a casa a
rincorrere mille pagine di fantascienza e orrore e dischi e quella tentazione
di prendere il fucile subacqueo dall’armadio e sparare ai piccioni del cortile.
Però certe volte andavamo a cena alla Pace e ordinavo per la famiglia numerosa
che cominciava ad albergarmi il corpo. E ridevo e mi divertivo e mi dimenticavo
la paura dei mesi prima a sentire il palazzo che rumbava sotto i miei piedi e
il buio e le grida.
Poi venne il tempo di tornare.
Mio padre mi aveva dato dei soldi ed era la prima volta che ne avevo di miei in
tasca. In terra straniera poi. Non li avevo spesi che non si può mai sapere e
me li ero portati arrotolati stretti nella tasca davanti dei pantaloni, che se
li metti in quella dietro sei un gaggio e poi non ti buttare nelle lacrime se
ti fanno la somma sul tram. Uno dei miei passatempi preferiti era stare a
guardare quelli che giocavano alle tre carte nel sottopassaggio della stazione
di Porta Nuova ma pregavo che non mi sgamassero la cifra che mi portavo addosso
anche se a dire il vero ci si sarebbero pagati forse una colazione. Insomma
l’ultima mattina a San Salvario vado al mercato di Piazza Madama e me la giro
con l’intenzione di recuperare qualcosa da portare a casa a mio fratello. Con me
c’era mio zio. Vediamo un monopattino di legno bellissimo e lui decide di
comprarlo senza pensare che viaggerò da solo. Poi però deve andare via e mi
lascia da solo con l’accordo che ci si rivede per andare a prendere il treno.
Ed è in quel momento che le vedo. Un ambulante vende canarini e criceti e pesci
rossi e in una cassetta ha, accatastate una sull’altra, alcune tartarughe di
terra. Mi avvicino. Mi abbasso a guardarle e con l’altezza che mi portavo
addosso non è un grosso sforzo. “E comprati una tartaruga” dice il tipo, portatore
di una sorta di tara genetica che getta l’ombra del sospetto incrocio della sua
stirpe con le testuggini che propone. Quasi si stesse vendendo i cugini.
“Quanto costano?”. Gorgoglia un prezzo e io devo aver fatto una faccia costernata
perché scoppia a ridere con quella sua bocca da rettile storta. “E quanto
volevi spendere?” “Ho solo questo” e pesco dal segreto della tasca anteriore. Guarda
le banconote ciancicate e le monete e ride ancora. “Sceglitene una” “No, ne
dovrei comprare due, perché una diventa triste da sola ma non ce li ho
proprio”. Ride ancora e ha un alito che ammazzerebbe le zanzare del vercellese
tutto con un paio di fiatate. “E tieni ragione, da sole si fanno tristi.
Scegline due” “Ma ho solo questi soldi” “E vabbè, tu scegli e non ti
preoccupare”. Del resto già una vota alla fiera di Santa Caterina ero andato
con mio padre e avevamo rotto il salvadanaio per scoprire che c’erano pochi
spiccioli e un dollaro regalato chissà da chi. Non ci avevo neppure pensato alla
possibilità che i soldi dei parenti che mettevo nel porcello di terracotta
venissero ripescati dai miei alla bisogna. Con la banconota che per me era
tutta l’America possibile ero andato da quello degli animali e ero riuscito con
mio padre a convincerlo a cedermi una tartarughina d’acqua. Quella volta non
potevo andare sulle giostre che eravamo in tempo di magra ma mia madre aveva
fatto le castagne e le tenevamo calde nella tasca del cappotto e ci sembrava
che eravamo molto più fortunati di quegli altri che andavano al freddo sulle
giostre. Diciamo che il mio rapporto con i venditori ambulanti di tartarughe è
sempre stato bizzarro ma la cosa è in sincrono con la mia vita tutta.
Nello scompartimento mi ci sistemo
grazie allo zio che m’ha caricato tutto sulla bagagliera. Compreso il
monopattino. E comprese pure le due tartarughe. Da sempre porto a casa animali
e da sempre mia madre si incazza. Stavolta l’ho fatta grossa. Non abbiamo un
giardino e viviamo nei palazzoni della periferia. Ma non è questo ora il
problema. Ho il mio biglietto ma le tartarughe viaggiano da clandestine perché
il parente per scherzo mi ha detto che dovrebbero fare il biglietto ma costa
troppo. Sono terrorizzato e soverchiato da quella maledetta timidezza che
allora mi rendeva muto e che adesso non mi azzittisce mai. Ho messo le
tartarughe in una scatola di cartone e sul fondo ci ho messo tre dita di sabbia
per gatti e due foglie di lattuga. Ho fatto posizionare la scatola proprio
sulla mia testa per tenerla sotto controllo. Non ho idea di quando arriveremo e
per i cinquecento chilometri che mi dividono da casa e dai miei guardo
continuamente fuori per scoprire indizi che mi segnalino che sono arrivato.
Leggo i cartelli azzurri delle stazioni e non ho che vaghe idee rubate alle
copertine dei quaderni “Regioni d’Italia Maxi Pigna” dei posti che attraverso.
Ogni tanto mi perdo un cartello e mi si serra la gola, che magari è la stazione
mia e devo scendere. Gli altri nello scompartimento forse si interrogano su di
me e tentano anche qualche approccio ma io sono un osso duro e non rispondo. A
un certo punto per mettere distanza tiro fuori un albo di Jacovitti con le
avventure di Zorrykid che mio zio mi ha comprato alla stazione e che conservo
gelosamente da allora. E mentre sto concentrato sulle pagine e sulle frenate
del treno che indicano il probabile transito in una stazione succede. Dalla
scatola in alto si sentono dei rumori ma sono coperti dallo sferraglio dei
binari e degli scambi. Io però li sento e sono in tensione. A un certo punto da
una fessura comincia a cadere sabbia di gatto. Sulla mia testa. Io resto
immobile. Minuti pesanti di silenzio. Tutti hanno notato. Un signore mi dice “Sta
cadendo qualcosa” ma io guardo dritto davanti a me e non rispondo. La sabbia
continua a cadere sulla mia testa, sorta di clessidra maledetta del tempo di
tutta la mia vergogna. Non mi devono scoprire. Non devono scoprire le mie
tartarughe clandestine. Quanto costa il biglietto ridotto tartaruga? Quando
arriva casa mia e mia madre e mio padre e mio fratello, che io non mi sono
fatto scoprire ma la notte a volte mi veniva un po’ da piangere a pensare a
loro quando stavo a Torino. Passa il controllore e i miei infami vicini di
poltrona gli dicono “Viaggia da solo”. Per fortuna quell’altro è al corrente
perché gli sono stato affidato ed è lui che mi farà scendere. Tranquillizza
tutti. Gli spiegano della sabbia e lui guarda la scatola e va via. Presumo sia
andato a prendere un moschetto per sparare a me e alle tartarughe in nome di
una speciale legge marziale che vige nei vagoni in transito tra Torino e Udine.
Torna con un vecchio quotidiano e lo piazza sotto la scatola. Rimango immobile
e silenzioso per tutto il resto del viaggio. La sera, sul balcone, diamo un
nome alle nostre tartarughe. Delle due una, Bonni, vive ancora sulla terrazza
dei miei e quando l’estate la ritrovo mi scappa un sorriso e io e lei ci siamo
già capiti, che da quella volta non ho smesso più di andare e di fare certe
figure da scemo.