mercoledì 18 marzo 2015

Tango figurato del disdoro: figura 7

-->








Settembre 1976. Ho undici anni. Sto seduto nello scompartimento di un treno. Seconda classe. Quelle poltrone imbottite che scorrevano a formare un approssimativo giaciglio con la complicità di chi ti stava di fronte. Quel conforto di tappezzeria e polvere su cui s’erano masticati il sonno amaro del viaggio quelli prima di te, lasciando sul panno tracce di bava, volendo restare su una visione ottimistica dell’umano genere. Sei poltrone disposte a fronteggiarsi e chiuse nell’intimità di un confine dettato dalla porta scorrevole. E sincronizzare il tuo mezzo sonno sullo scorrere di quella porta fragoroso, che indicava l’irruzione del gendarme obliteratore. “Biglietti prego”. Prego cosa. Prega piuttosto che sono ancora troppo piccolo, che se quando mi sarò fatto uomo piomberai sul privilegio mio da biglietto di seconda con codesta tracotanza me ne batterò del divieto e ti lancerò come oggetto dal finestrino. E intanto quel treno attraversa la pianura padana e mi riporta a casa dopo mesi di assenza. In un tintinnio di posacenere grossi come urne e tavolini piegati al destino. E su tutto il monito dei moniti che recita “tirare in caso di emergenza”. A rendermi più lieve il disgusto di quell’andare che, l’avrete provato di certo, ti lascia in bocca e sui vestiti e nelle mani quel sentore che dici “di treno”, certe riproduzioni monocrome delle meglio meraviglie della penisola nostra. La piazza di Mazara, il palazzo comunale di Vimodrone. Sulle teste dei viaggiatori le bagagliere, la rilettura di quell’altro accessorio dell’epoca che erano i pesanti portapacchi montati sui tetti delle auto. Ora si dicono barre e sono cose sottili e in odore di ergonomia ma al tempo li chiamavano imperiali e a montarli c’era la sensazione di incoronare la propria auto, come si sarebbe fatto con il miglior Carlomagno della mobilità cittadina. Oggidì nei treni i bagagli sono riposti in angusti fornetti plasticosi ma allora s’immaginava che le partenze fossero spesso esodi domestici che obbligavano le famiglie al ciclopico sforzo di traslare pesanti salmerie e gli scompartimenti erano soppalcati da pesanti grate su cui, alla necessità, si poteva anche dormire.

Tutte le età sono buone per viaggiare ma a undici anni mi stavo misurando con il mio primo percorso ferroviario da solo, senza il supporto di familiari e affini. Certo non una cosa da scherzarci troppo sopra. Da Torino a Udine. A maggio in Friuli c’era stato il terremoto e mi avevano mandato dal parente torinese, ignari del destino che mi avrebbe portato a vivere stabilmente nella capitale sabauda alla mezza età e a vestirmi come il Gianduia della nota iconografia carnascialesca. Avevo in quei giorni vissuto acquisendo ampie zone di libertà che da lì non avrei più inteso restituire al nemico. M’era stata data una chiave di casa e l’obbligo di ripresentarmi prima del buio. M’avevano segnalato per buono il buffet della stazione se avessi avuto fame e m’avevano ficcato in tasca dei soldi per badare a me medesimo. A undici anni a San Salvario. Provenendo da un posto dove non succedeva mai nulla a parte i terremoti devastanti di tanto in tanto. Sta di fatto che la mattina mi svegliavo, non mi lavavo affatto tanto nessuno mi controllava e uscivo in strada a leggere il libro del mondo. Sotto casa c’era un tosatore di cani e rimanevo davanti alle vetrine a guardare i barboncini cotonati e le padrone dei suddetti cotonate anch’esse. In quei giorni mi stava scoppiando qualcosa dentro che non sapevo gestire. Mi guardavo attorno con un istinto di caccia e un desiderio che non trovava forma concreta ma che mi si è ficcato nella pancia allora e non mi ha più abbandonato. Le femmine erano passate al centro del mio universo e camminavo per la città, in quella zona di suburra che m’era toccata della città, come il peggiore dei topi di campagna arrazzati. C’erano anche le puttane a tutte le ore in giro per il quartiere ma erano a prova di desiderio e fantasia e piuttosto me la giravo per il mercato, ubriaco del frusciare delle vesti delle femmine domestiche.

Mangiare si mangiava quando capitava, che il parente era spesso distratto da altro e mi lasciava a casa a rincorrere mille pagine di fantascienza e orrore e dischi e quella tentazione di prendere il fucile subacqueo dall’armadio e sparare ai piccioni del cortile. Però certe volte andavamo a cena alla Pace e ordinavo per la famiglia numerosa che cominciava ad albergarmi il corpo. E ridevo e mi divertivo e mi dimenticavo la paura dei mesi prima a sentire il palazzo che rumbava sotto i miei piedi e il buio e le grida.

Poi venne il tempo di tornare. Mio padre mi aveva dato dei soldi ed era la prima volta che ne avevo di miei in tasca. In terra straniera poi. Non li avevo spesi che non si può mai sapere e me li ero portati arrotolati stretti nella tasca davanti dei pantaloni, che se li metti in quella dietro sei un gaggio e poi non ti buttare nelle lacrime se ti fanno la somma sul tram. Uno dei miei passatempi preferiti era stare a guardare quelli che giocavano alle tre carte nel sottopassaggio della stazione di Porta Nuova ma pregavo che non mi sgamassero la cifra che mi portavo addosso anche se a dire il vero ci si sarebbero pagati forse una colazione. Insomma l’ultima mattina a San Salvario vado al mercato di Piazza Madama e me la giro con l’intenzione di recuperare qualcosa da portare a casa a mio fratello. Con me c’era mio zio. Vediamo un monopattino di legno bellissimo e lui decide di comprarlo senza pensare che viaggerò da solo. Poi però deve andare via e mi lascia da solo con l’accordo che ci si rivede per andare a prendere il treno. Ed è in quel momento che le vedo. Un ambulante vende canarini e criceti e pesci rossi e in una cassetta ha, accatastate una sull’altra, alcune tartarughe di terra. Mi avvicino. Mi abbasso a guardarle e con l’altezza che mi portavo addosso non è un grosso sforzo. “E comprati una tartaruga” dice il tipo, portatore di una sorta di tara genetica che getta l’ombra del sospetto incrocio della sua stirpe con le testuggini che propone. Quasi si stesse vendendo i cugini. “Quanto costano?”. Gorgoglia un prezzo e io devo aver fatto una faccia costernata perché scoppia a ridere con quella sua bocca da rettile storta. “E quanto volevi spendere?” “Ho solo questo” e pesco dal segreto della tasca anteriore. Guarda le banconote ciancicate e le monete e ride ancora. “Sceglitene una” “No, ne dovrei comprare due, perché una diventa triste da sola ma non ce li ho proprio”. Ride ancora e ha un alito che ammazzerebbe le zanzare del vercellese tutto con un paio di fiatate. “E tieni ragione, da sole si fanno tristi. Scegline due” “Ma ho solo questi soldi” “E vabbè, tu scegli e non ti preoccupare”. Del resto già una vota alla fiera di Santa Caterina ero andato con mio padre e avevamo rotto il salvadanaio per scoprire che c’erano pochi spiccioli e un dollaro regalato chissà da chi. Non ci avevo neppure pensato alla possibilità che i soldi dei parenti che mettevo nel porcello di terracotta venissero ripescati dai miei alla bisogna. Con la banconota che per me era tutta l’America possibile ero andato da quello degli animali e ero riuscito con mio padre a convincerlo a cedermi una tartarughina d’acqua. Quella volta non potevo andare sulle giostre che eravamo in tempo di magra ma mia madre aveva fatto le castagne e le tenevamo calde nella tasca del cappotto e ci sembrava che eravamo molto più fortunati di quegli altri che andavano al freddo sulle giostre. Diciamo che il mio rapporto con i venditori ambulanti di tartarughe è sempre stato bizzarro ma la cosa è in sincrono con la mia vita tutta.

Nello scompartimento mi ci sistemo grazie allo zio che m’ha caricato tutto sulla bagagliera. Compreso il monopattino. E comprese pure le due tartarughe. Da sempre porto a casa animali e da sempre mia madre si incazza. Stavolta l’ho fatta grossa. Non abbiamo un giardino e viviamo nei palazzoni della periferia. Ma non è questo ora il problema. Ho il mio biglietto ma le tartarughe viaggiano da clandestine perché il parente per scherzo mi ha detto che dovrebbero fare il biglietto ma costa troppo. Sono terrorizzato e soverchiato da quella maledetta timidezza che allora mi rendeva muto e che adesso non mi azzittisce mai. Ho messo le tartarughe in una scatola di cartone e sul fondo ci ho messo tre dita di sabbia per gatti e due foglie di lattuga. Ho fatto posizionare la scatola proprio sulla mia testa per tenerla sotto controllo. Non ho idea di quando arriveremo e per i cinquecento chilometri che mi dividono da casa e dai miei guardo continuamente fuori per scoprire indizi che mi segnalino che sono arrivato. Leggo i cartelli azzurri delle stazioni e non ho che vaghe idee rubate alle copertine dei quaderni “Regioni d’Italia Maxi Pigna” dei posti che attraverso. Ogni tanto mi perdo un cartello e mi si serra la gola, che magari è la stazione mia e devo scendere. Gli altri nello scompartimento forse si interrogano su di me e tentano anche qualche approccio ma io sono un osso duro e non rispondo. A un certo punto per mettere distanza tiro fuori un albo di Jacovitti con le avventure di Zorrykid che mio zio mi ha comprato alla stazione e che conservo gelosamente da allora. E mentre sto concentrato sulle pagine e sulle frenate del treno che indicano il probabile transito in una stazione succede. Dalla scatola in alto si sentono dei rumori ma sono coperti dallo sferraglio dei binari e degli scambi. Io però li sento e sono in tensione. A un certo punto da una fessura comincia a cadere sabbia di gatto. Sulla mia testa. Io resto immobile. Minuti pesanti di silenzio. Tutti hanno notato. Un signore mi dice “Sta cadendo qualcosa” ma io guardo dritto davanti a me e non rispondo. La sabbia continua a cadere sulla mia testa, sorta di clessidra maledetta del tempo di tutta la mia vergogna. Non mi devono scoprire. Non devono scoprire le mie tartarughe clandestine. Quanto costa il biglietto ridotto tartaruga? Quando arriva casa mia e mia madre e mio padre e mio fratello, che io non mi sono fatto scoprire ma la notte a volte mi veniva un po’ da piangere a pensare a loro quando stavo a Torino. Passa il controllore e i miei infami vicini di poltrona gli dicono “Viaggia da solo”. Per fortuna quell’altro è al corrente perché gli sono stato affidato ed è lui che mi farà scendere. Tranquillizza tutti. Gli spiegano della sabbia e lui guarda la scatola e va via. Presumo sia andato a prendere un moschetto per sparare a me e alle tartarughe in nome di una speciale legge marziale che vige nei vagoni in transito tra Torino e Udine. Torna con un vecchio quotidiano e lo piazza sotto la scatola. Rimango immobile e silenzioso per tutto il resto del viaggio. La sera, sul balcone, diamo un nome alle nostre tartarughe. Delle due una, Bonni, vive ancora sulla terrazza dei miei e quando l’estate la ritrovo mi scappa un sorriso e io e lei ci siamo già capiti, che da quella volta non ho smesso più di andare e di fare certe figure da scemo.