mercoledì 20 giugno 2012

per la stessa ragione del viaggio




Se non ti fidi di nessun dio, se fai il mago da tutta la vita e ancora non ti spieghi come fa quel fottuto coniglio a uscire dal tuo cilindro, se hai parlato con gente guarita dall’imposizione delle mani e con gente quasi ammazzata a mani nude in una cella allora devi dar conto a te stesso dei tuoi passi e delle tue parole come di tutto quello che puoi spendere senza mai aspettarti il resto indietro.

Jejo è mio amico da mille anni. Ce ne siamo andati in giro per il mondo e il mondo eravamo noi e abbiamo riempito i locali più improbabili dei nostri racconti e delle nostre canzoni sbregate. Jejo un giorno ha preso la sua vecchissima moto che già segnava trecentomila chilometri senza esagerare ed è partito per il viaggio di tutta la vita. Se n’è andato in Mongolia passando dalla Siberia e questa storia l’abbiamo raccontata mille volte e c’è anche “giorni nomadi” un diario sconclusionato che mi sono affannato a fargli pubblicare che testimonia. Per cui fa fede la bibliografia. In Mongolia ha conosciuto una ragazza del posto pazza come lui che è salita sulla sua moto e se n’è andata in giro per il deserto. La vecchissima Guzzi arrivava dove le ipertecnologiche moto col navigatore satellitare non osavano nemmeno puntare il muso. Poi è tornato e in Siberia quasi lo ammazzano in una foresta ma Jejo è di quella pasta che un po’ conosco a ragione di quel fatto condiviso tra noi di non averci dio e magie e quindi di poter contare solo sulla faccia nostra e quindi i briganti siberiani sono ancora lì che si domandano con quale oscura forza hanno dovuto fare di conto.
Tornato a casa si scrive con la ragazza mongola e si telefonano ed è uno spettacolo perché lui parla solo friulano e lei mongolo e russo mischiati. Inglese a briciole. Ma si capiscono, giuro che si capiscono. Jejo sostiene che il mongolo è una variante gutturale del friulano.
In primavera la ragazza che si chiama Soghi viene a trovare una parte della sua famiglia che vive in Polonia, salgono su una macchina e vengono in Friuli. Jejo è lì da Andrea e stiamo cazzeggiando quando lo chiamano dal bar di Pagnacco e gli dicono “vieni qui che è pieno di mongoli che ti cercano”. Andiamo a recuperarli e c’è questa specie di capo famiglia che noi attacchiamo a chiamare “piciul” per far capire che ci è simpatico, che sembra detestarci da subito. Si tratta del nanissimo cognato di Soghi che fa il medico in Polonia dopo aver studiato in Russia. Aggiungi che tutto questo succede a Pagnacco e hai fatto bingo. Li portiamo a casa di Andrea e le donne gli fanno gli spaghetti all’amatriciana mentre noi andiamo a comprare le pizze e sono le quattro del pomeriggio. Hai voglia a fare quello che odia i luoghi comuni, in un baleno siamo diventati la più agghiacciante cartolina vivente dell’amata penisola. Con tanto di chitarra suonata da me mentre mangiano imbarazzati pizza e spaghetti. Il capo chiede il tè e Andrea gli porta un bicchierone di estatè alla pesca ghiacciato. E grazie che ce l’avevamo. Il simpatico ospite nano e cattivo senza assaggiare dice che lo vuole caldo. Andrea va di là, versa l’estatè nel bricco e lo porta a ebollizione. Torna e il tizio si incazza nevrile che non ci voleva lo zucchero dentro. Come è noto noi abbiamo la pazienza che scade come il biglietto del parcheggio sulle strisce blu e l’abbiamo mandato a fare in culo sbriciolando il tentativo iniziale di mostrarci ospitali e affabili. A quel punto Soghi cerca di mettere pace, si ricordi che parliamo sempre lingue che nessuno condivide. Nemmeno tra noi condividiamo quasi la stessa lingua. Io e Jejo parliamo in friulano con le parole chiave in italiano e i verbi all’infinito come nei film western quando si incontrano gli indiani e i cavalleggeri. Andrea grida senza fermarsi “siete tutti pazzi”. Ste e Giovanna si sono rotte i coglioni di fare le donne italiane e li hanno lasciati dvanti a un mucchio infame di cornicioni di pizza e piatti carichi di pasta. Soghi dice che vogliono vedere l’Italia e hanno solo quattro giorni. Jejo mi guarda e dice “non c’è problema, vi portiamo a piazza San Marco e all’acquario di Trieste”. Mi sono sempre chiesto perché all’acquario di Trieste ma non ne abbiamo mai parlato. Soghi è perentoria. Vogliono vedere Venezia, Firenze e Roma. Io ho quattro giorni di ferie e poi devo tornare a Torino. Sono arrivato in Friuli da poche ore. Jejo mi guarda e ringhia “mi hanno ospitato in Mongolia, mi hanno portato nel deserto”. Andrea mette sul tavolo le chiavi, che siamo quella razza che dicevo prima e dice “andate con la mia che consuma poco”. Partiamo senza preavviso minimo . Decidiamo di andare in Toscana e poi a Roma e al ritorno a Venezia. Allerto i miei amici distribuiti sul percorso. Lungo la strada decidiamo di non complicarci la vita e puntiamo su Sienia che conosco come le mie tasche. Ancora rido a pensare alla faccia dello Zak quando gli piombiamo in negozio con la schiera mongola. Sbarra gli occhi e grida “Oh dove l’ hai presi tutti ‘sti peruviani”. Gli facciamo visitare Siena spiegandogli che è Firenze che è troppo lungo dirgli che il parcheggio a Siena è meno complicato che a Firenze. A Piazza del Campo piciul sembra trovarci simpatici e si fa scattare una foto con noi. La riguarda ridendo nel display e dice ai suoi “!foto mafia italia”. Da lì in poi gli rendo la vita difficilissima.
Andiamo a dormire sul Trasimeno in un posto dove vado sempre a mangiare la porchetta e mi conoscono e la fortuna dei mongoli è che io ho vissuto in mezza penisola e ho amici in ogni dove. La mattina partiamo per Roma e Franco e Enrica ci fanno da guida. Andiamo a mangiare in una formidabile trattoria ma piciul non si fida e costringe i suoi a rimanere seduti sul marciappiede di fronte. Intanto faccio amico con Soghi e mi insegna a dire luna e stelle in mongolo. Inguaribile romantico. Soghi è bellissima e ha tre sorelle. Hai visto mai. Insomma torniamo a Udine e io cambio auto, carico la tribù mia e torno a Torino. Riposatissimo.

L’anno dopo Jejo riparte per l’Iran e al ritorno viene steso di brutto da un ragazzino neopatentato a pochi chilometri da casa. Rischia la pelle sul serio, rimane sei mesi inchiodato al letto e io quasi tutti i fine settimana parto da Torino e vado a stare in ospedale con lui a Udine. La stanza d’ospedale diventa l’ennesima appendice del nostro circo permanente.
La gamba di Jejo non recupererà mai e rivederlo in moto dice che sarà impossibile. Jejo di mestiere fa il muratore e non potrà più salire sui tetti. Bei cazzi insomma. L’estate torna Soghi. Da solo, Jejo compra un camper scassatissimo e con una tecnica di guida che a oggi mi risulta assurda la porta in giro per tutta l’Italia. E noi che siamo nomadi a nostra volta li incontriamo alle Cinque Terre e a Matera. Nella fattispecie Jejo a Matera denuncia un fastidioso problema all’attrezzo d’amore che si è palloncinizzato. Ste lo accompagna in farmacia e il tizio al bancone non riesce a capire cosa abbia Jejo che continua a dire “mi è venuto una specie di bombo lì”. A un certo punto Jejo si spazientisce e si cala le braghe in mezzo all’esercizio pubblico. Con gran successo.

Insomma la storia nostra riparte sempre.

Domenica la vecchia Guzzi di Jejo è planata sulla mia casa torinese. Tutta rabberciata e con alla guida il solito pazzesco Jejo da viaggio. Soghi l’ha raggiunto a Vienna e a quel punto se sei a Vienna vuoi non andare a trovare Giorgio e Ste a Torino. Per strada decidono di andare in Africa. Come nel mio romanzo prossimo ma ne riparleremo. Lunedì mattina colazione e il solito lasciarsi senza saluto che è così che facciamo da sempre.

mercoledì 13 giugno 2012

son tornato sempre vivo




Forse l’ho già detto ma piuttosto che andare a rileggermi tutto mi ripeto. Quando c’è stato il terremoto in Friuli, sei maggio del millenovecentosettantasei, non avevamo più una casa perché la proprietaria, una che da piccolo mi faceva paura, aveva approfittato del casino e diceva che lei era in stato di necessità e non aveva più dove andare e le serviva la casa e noi in strada. Due mesi dopo il nostro appartamento è stato venduto alla regione e dentro ci hanno piazzato degli uffici. Bastardi. In ogni caso per mesi la gente ha vissuto per strada e noi, senza casa, non davamo tanto nell’occhio. Però i miei per farmi vivere meno il disagio di quel campeggio infinito, che a me piaceva molto, mi hanno mandato a Torino da Antonio che viveva in Corso Marconi in una casa che era davvero un campeggio perenne. Mi sono divertito parecchio e Antonio che non sapeva esattamente come si gestisse un bambino di undici anni mi ha dato le chiavi di casa appena arrivato e i soldi per un panino, consigliandomi vivamente il buffet della stazione di Porta Nuova e raccomandandomi di portargli un qualche cibo pure a lui. In quegli anni stava incasinato con le donne, il lavoro e tutto. La sua casa era piena di libri di fantascienza, piena di libri in generale ma in quello già casa mia marcava bene. Lui aveva tutti quegli economici favolosi e ciancicati e io me ne andavo in balcone a leggere e a tenermi dentro una fame eterna. La mattina uscivo e giravo per Sassalvario e c’erano le puttane a tutte le ore e io proprio in quei mesi cominciavo a pentirmi di non aver prestato grande attenzione a quella bambina che d’estate insisteva per mostrarmi il culo in cambio di una sbirciata al mio pisello e io l’accontentavo e me ne restavo lì a fissare quelle chiappe come un televisore spento. Però quelle puttane lì più che proiettarmi nella nuova dimensione erotica prepuberale mi sbalzavano indietro all’infanzia più buia, quella delle megere delle favole che chiudono i bambini nelle gabbie per ingrassarli e venderli ai comunisti. Antonio stava in uno degli ultimi condomini di Corso Marconi, dalla parte del Valentino e sullo stesso marciapiede c’era un canaro, a dire il vero c’è ancora ma forse non è la stessa persona, che vendeva pure gli animali e io passavo e guardavo dalla vetrina questo tizio che cotonava i barboncini e pensavo al buon soldato Sc’vèik che avevo letto nell’edizione Feltrinelli con la copertina gialla. Trovato a casa di mio padre. Ad Anzio. I canguri, era il nome della collana ma era anche il nome che gli davo io per capirmi con mio padre e credevo fosse una cosa del nostro lessico familiare e quando anche oggi vedo un Feltrinelli col marsupiale a simbolo penso che ci hanno copiato l’idea. In quella serie ho letto anche il compendio del capitale di Cafiero ma solo per ritrovare le atmosfere dei racconti di mio padre che mi descriveva questo nobile pugliese rovinato dall’idea. Avevo dieci anni e se vi dico che tutto mi era chiaro mi cresce il naso. Senza contare che sospetto che mio padre quel libro lì non l'abbia mai letto e tutta la storia che ci montava sopra deve averla rubata al Bacchelli del diavolo al pontelungo. Questo però l'ho sospettato solo da grande e mio padre è uno che racconta un sacco di storie e a volte cade in contraddizione ma io me lo imparo a memoria pure ora che sono cresciuto e a tavola gli rifaccio il verso e ridiamo. Come al solito esco dal tema. Dicevamo che bighellonavo davanti alle vetrine della toelettatura per cani e avevo questa fissa per gli animali e per i libri di animali e per i negozi di animali e volevo fare il veterinario e quando mia mamma m’ha detto che dovevo laurearmi ho pensato che era meglio fare il guardiano dello zoo. M’avessi ascoltato da piccolo. A questo punto mi gioco l’asso nella manica che convincerà anche i più dubbiosi che a me devono darmi le chiavi della città di Torino, che da sempre sono stato attento a tutto quello che accadeva, pur senza viverci, e svelo che da piccolo frequentavo molto il giardino zoologico e rimanevo un sacco di tempo a guardare l’ippopotamo con la bocca spalancata. Un giorno Antonio mi ha telefonato, anzi l’abbiamo chiamato noi dalla cabina, che credo che siamo stati l’ultima famiglia italiana a mettere il telefono in casa e io chiamavo sempre dal telefono del pronto soccorso del Policlinico che era vicino. Insomma Antonio mi dice questa storia che l’ippopotamo è morto perché una bambina gli aveva scagliato il Cicciobello nelle fauci spalancate e quello si era sentito male che, a dispetto della mole, sono bestie delicate e, siccome io non mi ero laureato veterinario, non s’è potuto fare niente. Ci sono rimasto male e approfitto per dire che mi piacerebbe conoscere quella bambina che sarà a spanna mia coetanea e la guardo in faccia e dico ma perché gli hai lanciato il Cicciobello e già me l’immagino che quella dice che si era spaventata e io le credo. A quell’epoca una bambina col cavolo che si liberava così dell’ambito bambolotto. Magari era Cicciobello Angelonegro che aveva avuto meno successo e allora è un altro paio di maniche. Ora, con la cosa del razzismo, non lo possono produrre, che dovrebbero dire Angelonero e sembra una roba da film horror che evoca morte e devastazione. Per capirci andate a leggervi l’Apocalisse e i cavalieri della medesima che ne combinano di tutti i colori. Con questo però non voglio millantare dimestichezza con le sacre scritture che per quello che mi riguarda sono qui a cimentarmi con l’ennesimo vangelo apocrifo. Anzi vi confesso che non credo in dio così ci togliamo l'ennesimo dubbio. Spesso non credo nemmeno a Ste, che è bugiarda matricolata, ma sul fatto che esiste non ho molti dubbi visto che io porto i soldi a casa e lei li spende in belletti, profumi e gorgonzola di Novara. Soprattutto quest’ultimo.
Le mie passeggiate da piccolo per Sassalvario mi piacevano molto e guardavo dentro al panettiere e pensavo che i grissini dovevano essere proprio buoni ma non avevo il becco d’un quattrino e passavo oltre. Una volta Antonio, che mi appioppava assurde commissioni per un bimbino di dieci anni, mi ha mandato alla farmacia di via Gaetano Bresci a comprare del carbone vegetale e una siringa da insulina. La tipa col camice bianco mi ha guardato come si guarda un bambino drogato e pure scorreggione. Mi è andata di culo che quella volta lì a Antonio gli erano avanzati dei preservativi sennò li aggiungeva alla lista e facevo bingo.
Certe volte mi spingevo fino in via Po, tutto a piedi, e guardavo le vetrine e tutte le pasticcerie e insomma mi divertivo proprio. Un giorno, l’ultimo prima di tornare dai miei, ho visto una bancarella al mercato che vendeva ovviamente animali e mi sono comprato due tartarughe di terra che sono ancora in ottima salute a distanza di quasi trent’anni. Nel viaggio le avevo sistemate in una scatola di cartone con la sabbia del gatto e stavo con l’angoscia che il bigliettaio mi scopriva e mi faceva pagare il biglietto tariffa tartaruga. A un certo punto queste bestie hanno preso ad agitarsi e scavavano e da un buco della scatola ha cominciato a cadere sabbia di gatto. Sulla mia testa. Le persone dello scompartimento mi hanno fatto notare la cosa e io rimanevo lì, a guardarli con gli occhi sbarrati e senza proferire parola. Metteteci che viaggiavo da solo sulla tratta Torino Mestre e che mi trascinavo dietro un monopattino di legno che era il regalo per mio fratello e va già bene che non mi hanno consegnato alla Polfer di Desenzano.
Poi qualche anno dopo alla trasmissione che si chiamava Sherazade si vede Sassalvario e io quasi mi commuovo a vedere quelle strade note. Mi sentivo nel cuore della notizia e quelli a dire che era tutto una merda e non lo voglio mettere in dubbio ma a me sembrava che ci doveva essere stata una qualche epidemia di cattiveria e tutti quei ceffi quando passavo io dovevano essere in pausa pranzo. Invece mi confermano che erano cazzi anche allora ma a me non m’era parso. E allora Antonio era proprio fuori a mandarmi in giro senza pensiero o forse già davo l’impressione di quello che sopravvive.

"Al mondo sono andato
dal mondo son tornato sempre vivo"

martedì 5 giugno 2012

moto perpetua

 


Il casco l’aveva lasciato attaccato al portapacchi, e s’era calcato il basco sulla testa per non farlo volare via. Del resto si stava concedendo un piccolo trotto sulla strada di montagna mentre cominciava a calare la sera, in quell’ora d’azzurro dominante che per i poeti professionisti è già color di lontananza. E se la polizia lo fermava avrebbe pagato la multa. Senza la calotta per attutire suoni e minaccia di morte incombente, poteva sentire l’aria fischiargli nelle orecchie, gettare ennesimo scompiglio nei capelli mai pettinati e ora persi in parte. Per distrazione. Anche il motore pareva averci tutta un’altra voce, pieno di intermezzi e strumenti gregari che suonavano a dare un contributo affannato a quel corpo orchestrale dominato dalla possanza di certi fiati in nota bassa che prendevano allo stomaco. Come quella volta al centro commerciale, che era rimasto ipnotizzato davanti a un televisore gigante a schermo piatto che mostrava le immagini di un film di fantascienza e le astronavi s’incrociavano e sparavano e sembrava di averle lì, a schizzare impazzite tra gli scaffali e il suono faceva vibrare tutto e la truffa della realtà irreale s’era sforzata di raggiungerlo con frequenze allo stomaco che dal vero non provava mai davvero. Tenuto conto che di astronavi ne bazzicava ben poche. Fosse stato un film porno c’era da giurare che mentre l’attore si dannava a venire sulla faccia della collega in molti si sarebbero scostati. E lo sperma sarebbe schizzato fuori con un rumore di diga che salta. Perché nei porno vengono sempre fuori? Si negano il più bello per giurarci che è tutto vero. Ma dopo tre ore che ti vedo sudare, in posizioni che assecondano più le luci e l’obiettivo che il piacere, te lo voglio concedere. Fatti la tua bella sborrata dentro la femmina che ha avuto la pazienza di stare lì a gemere e singhiozzare, senza smettere di pensare alla rata della Renault, parcheggiata per giunta sulle strisce. Bada bene di non trovare la multa in fine di giornata e attenta, che quest’altro poveraccio del tuo collega, mago anche lui, vive l’ansia della cantina che ora che piove si starà allagando come l’altra volta e intanto zum zum zum, ah ecco ora le vengo sulla faccia. L’ha tirato fuori, mi viene sulla faccia e speriamo non mi abbiano messo la multa. Vai così. Pensavo che stavolta non gliel’avrei fatta. Porca puttana, mi va a finire sempre negli occhi e poi mi si arrossano come a un apneista o a un saldatore. Il cantante dei Freaks faceva il saldatore e cantava. Ovviamente essendo un cantante cantava. Ma la cosa più bella erano le occhiaie, che tutti attribuivano a una vita spesa di notte e agli stravizi e invece erano le dieci ore di fabbrica a lasciare un marchio sulle sue note. Peccato che ascoltando il disco, roba ancora in vinile, le occhiaie di Marco non si riescano a intuire. Forse certi orecchi fini potrebbero pure ma lui era uno allenato al gracchio grezzo delle chitarre chiuse in un garage. In moto è sempre così, un pensiero ne chiama un altro e poi un altro e poi ancora e a un certo punto non capisci come eri partito da un basco per finire su una sborrata in multa sulle strisce, passando per le astronavi del centro commerciale. Ma intanto non c’è da rendere conto a nessuno e ci si può permettere la libertà totale dei pensieri e delle associazioni. In moto va così. E lo zen è solo un pretesto per stringere la manopola e dargli un senso. Ma, si sa, la manopola stessa, per sua intrinseca natura, di senso ne ha uno solo e preciso.

sabato 2 giugno 2012

autogrill






In bagno c’erano le facce dei cessi dell’autogrill. La terra di mezzo tra i vivi in agonia e i morti viventi. All’ingresso una donna grassa e baffuta, scelta dal catalogo delle vecchie da tenere sedute a raccattare le monetine davanti ai servizi delle stazioni di servizio. Questa doveva essere un modello standard, di quelli omologati per ringhiare quando uno sbaglia e entra nel cesso delle donne. Programmata per fissare con insistenza quelli che escono dopo aver fatto uso degli impianti e non lasciano il fiorino di pedaggio nel sottovaso verde, messo a bella posta sul tavolino. In un autogrill sulla Piacenza-Torino, direzione nord, avevano piazzato una bionda sorridente davanti alla porta di certi cessi scassati. Niente di provocante, solo un sorriso e la pelle chiara. Quando ancora percorreva spesso quella strada, s’era costretto a mirabili equilibrismi di vescica per arrivare fino lì e approfittare del bagno. La biondina, piovesse o ci fosse un sole da sciogliere l’asfalto, era sempre al suo posto e il sorriso con lei. E lui ogni volta a dirsi che quella la vita la sfiorava appena e un giorno si sarebbe deciso e glielo avrebbe chiesto di montare su e scappare con lui. Giusto per cambiare cesso. Quel posto, l’autogrill, era lo stesso che vendeva di tutto e che lui non poteva evitare di visitare ogni volta con stupore. Le vetrine zeppe di oggetti erano sotto la tettoia del benzinaio e c’erano dai soprammobili a forma di teschio illuminato ai televisori a colori con parabola e digitale terrestre da poter montare sul camion. C’era poi una scelta incredibile di coltelli, spadoni, fionde, mazzeferrate e balestre, quasi che i gestori fossero stati avvertiti che da lì a poco il loro autogrill sarebbe stato scelto come punto di ristoro dagli ultimi crociati in marcia per liberare il santo sepolcro. A lui quasi scappava detto a questi gestori che il santo sepolcro lo stavano espugnando con i lanciafiamme e le ruspe ma poi l’attenzione veniva presa dalle vetrine degli accessori erotici e la sua matrice ideologica andava a farsi benedire. Trattavasi di vetrine che perdevano la loro funzione originaria di mostrare, per rivelarsi strumenti d’occultamento. Dietro quei vetri c’erano completini parecchio erotici e cazzi in lattice sussultanti e bambole da pompare d’aria e sentimenti. Ma questo si poteva solo intuirlo perché sulle lastre dell’espositore era stata applicata una carta adesiva. Tutto occultato alla vista non autorizzata. Ma in vetrina. Carta adesiva per giunta rossa. “PER VISIONARE LA MERCE CHIEDERE AL PERSONALE”. Scritto su un foglio a quadretti. Col pennarello. Per giunta rosso. Qualche disperato in crisi ormonale s’era pure provato a sollevare la carta adesiva con l’unghia, agli angoli, lasciando trapelare qualche indizio della terra di cuccagna. Orde di ragazzini in gita scolastica si affacciavano sbavando a quelle misere brecce. Gli stessi piccoletti che stringevano nelle mani tremanti la statuetta della torre di Pisa che cambia colore in accordo con la variazione climatica. Da portare alle famiglie come ricompensa d’aver cacciato la grana per mandarli tre giorni a istruirsi negli alberghi convenzionati e a certe tavole dove si può approfondire le nozioni di scienze cercando di capire che bestia è quella che lì chiamano pollo. Per colmo dei colmi la torre di Pisa l’avevano appena acquistata lì, all’autogrill. Che è a Stradella. Avessero almeno comprato una fisarmonica, era filologicamente più pertinente. Ma alle vetrine negate  si aggrappavano anche certi rappresentanti, di quelli che d’estate girano con la monovolume carica di cappotti, il campionario lo chiamano, e corrono come disperati e si fanno un punto d’onore di essere vestiti a quel modo che la gente comune ama definire “da rappresentante”. E hanno il gel a quintali sui capelli, pure se sono calvi, e la cravatta sgargia, che vorrebbe sottolineare estro e invece fa tanta tristezza, che, se eri creativo davvero, al collo ti appendevi un cacciavite, fosse solo per mascherare il tuo enorme pomo d’Adamo. Insomma ‘sti rappresentanti fanno di tutto per apparire dei vincenti, dei ben piazzati e questo stona un poco con la loro presenza lì, davanti alla vetrina delle cassette porno e dei vibragodi a sei velocità. Del resto lui aveva sempre creduto che quelli con certi macchinoni ripieni di lustro e radica avessero le fighe a schiocco di dita. Eppure la sera, sui viali, la fila di quelle auto griffatissime era lunga come l’esodo dei Curdi. Dentro c’erano quelli con la camicia giustocollo e la cravatta laser. “Come un rappresentante” diceva di nuovo la gente comune. Onore al merito a quelli che vanno a puttane con la vespa cinquanta. A Siena aveva conosciuto uno che quando andava a puttane si metteva la cravatta. Per rispetto, diceva lui. Ma questi altri qui, campioni del campionario, perennemente arrancanti in terza corsia, pure dove ce ne sono solo due, rispettavano solo chi gli elargiva la gratifica alla fine del mese. Bravo rappresentante, hai corso per la penisola col tuo carico di cappotti lavorati in Romania a trenta centesimi al giorno e li hai piazzati tutti a belle signore di Palermo che ora non avranno più da patire il freddo siciliano. Meriti il tuo bel premio. Biscotto? Seduto!
Poi sentì lo sciacquone di quello accanto e si riscosse. Blu stava cagando a terra, come faceva sempre in quei cessi. Accovacciato su dei fogli di carta, di quelli per asciugarsi le mani. Si rialzò, raccolse il fagotto e abortì, come ogni giorno, nella bocca del cesso. Fiero di quel sistema escogitato mille anni prima per non dover costringere le sue chiappe al contatto con certe tavolette scabbiose.
Fuori, ai lavandini, c’era uno che si radeva, un altro che si soppesava l’effetto della barba di tre giorni sul volto segnato dal sonno rubato al disco segnatempo truccato e uno che con gli occhi chiusi lasciava che il getto dell’asciugatore puntato al viso gli restituisse vita. Aggrappata al muro c’era la macchina dei preservativi e delle salviette igienizzanti. Di queste ultime s’era sempre domandato cosa fossero ma non aveva mai la moneta giusta. Uscì senza degnare di uno sguardo la vecchia. Per rispetto all’altra dei suoi sogni, la biondina. Salendo le scale si ricordò di non aver prestato attenzione agli annunci sulla porta interna del cesso. Di solito c’era sempre uno che anelava a fare pompini e aveva un cellulare comprato apposta per farsi trovare subito e magari stava cenando con la nonna, tu gli telefonavi e lui lasciava lì tutto, anche se la vecchia s’era dannata per fargli il sartù di riso che a lui piaceva tanto, e correva all’autogrill a farti una pompa. Ma l’autogrill, per sua natura, è pieno di pompe. Decise di fare il pieno alla moto.