mercoledì 18 dicembre 2013

Racconti di natale




Ricapitoliamo. Mentre leggi fai andare la canzone qui sotto.







Ogni giorno dove pranzo arrivava uno tarchiato che suonava la fisarmonica per strada. Sorrideva sempre. A volte gli offrivano un panino, a volte un bicchiere di vino che scalda. Lui sorrideva sempre. Un giorno Pasquale gli ha chiesto di venire al mio tavolo a suonarmi qualcosa. Ha accennato un Besame mucho senza convinzione. Ho offerto il pranzo. E sorrideva. Se ne stava nel tavolino vicino al frigo delle birre e anche vicino al motorino razza Ciao di Pasquale che è il titolare e nel suo locale ci tiene il motorino e poi dice che la gente si sceglie e non è un caso se vengo a mangiare qui da quindici anni. Quello della fisarmonica aveva raccolto a fatica venti euro, come li scasserei di schiaffi quelli che ti dicono “lo vedi quello in mezzo alla strada, è miliardario ma suona in giro”, e voleva mandarli a casa per natale. Al posto dove spediscono i soldi per il mondo gliene hanno chiesti cinque di commissione. Lui ne aveva promessi venti a casa. Allora ha deciso che doveva raggiungere la cifra di venticinque e s’è messo d’impegno. Suonava per le strade e la notte dormiva in una fabbrica abbandonata. Alla fine c’è arrivato a venticinque e quella stessa notte gli hanno sfondato la cassa toracica a calci e gli hanno rubato tutto. Non la troverete questa storia nelle statistiche. Nessuno denuncia nessuno qui. Trattenendo il fiato, che a respirare con le costole che ti inchiodano il passo c’è da farci attenzione, quello lì è partito per chissà dove. La mattina, scassato di botte, è passato per un saluto e un caffè e ha lasciato la fisarmonica in ricordo a Pasquale. Un cenno con la mano e ha sorriso e la bocca spaccata s’è aperta per una buona ragione. Ognuno ha le sue di buone ragioni. Nessuno di noi ha mai saputo come si chiamasse. Buon natale.



Ieri sera passavo per via Roma. Sotto quei portici abbaglianti e abbaianti alla crisi c’era uno che se ne stava accoccolato tra le coperte con un cane, un vecchio molossoide ansante, appallato di fianco. Un ragazzo con la bici, uno di questi ferri che si usano ora parecchio estetici e senza freni e che non mi sono molto simpatici, sfreccia sul marciapiede, che questi qui si fanno un punto d’onore di sfrecciare sempre, arriva all’altezza del tizio e frena di contropedale intraversando il ferro sul marmo  dei portici per bene. Sorride e dalla tasca tira fuori due tavolette di cioccolato. Le passa al tipo nell’angolo. L’altro le prende e nemmeno sorride. Torno due passi indietro e lascio i tre euro che mi galleggiano in tasca. Tutto quello che ho. Mi sono ricordato che i cani non mangiano cioccolata. Poi giro l’angolo e cerco il buio. Il freddo mi fa sempre venire voglia di pisciare. Buon natale.



Il natale del 1976 era il natale da terremotati. Mica solo per me e la mia famiglia, il sismo era stato il bel protagonista di quella stagione e s’era ficcato di prepotenza nelle vite di tutti  quelli che stavano in Friuli. Nelle vite e nelle morti a ben ricordare. Facciamo il natale tutti insieme, con quell’euforia che ti prende quando sei vivo e hai visto il tuo vicino morto per terra e pensi che avresti potuto esserci tu tra i calcinacci e il selciato. Tra la gente a messa, i miei in chiesa non ci andavano mai ma quella roba lì di essere scampati val bene una messa, c’è questa bambina, figlia di amici, che mi piace da morire. Mi fotto di timidezza oltre ogni ragione plausibile e poi sospetto di essere tutto quello che nessuno desidererà mai con i miei vestiti recuperati ai parenti e il mio raffreddore perenne e regali che non posso sognare. Hanno fatto le tavolate sotto un capannone e ci sono la cioccolata calda e il panettone. I miei mi siedono di fronte alla bimba bionda e io mi paralizzo. Mi giro di schiena. Mio padre prova a torcermi, a voltarmi, a convincermi con quei bei ragionamenti  che ti suonano in testa con la forza di una mano aperta e indisposta. Niente. Già allora ero piuttosto coriaceo. Passerò tutta la serata di spalle al mondo, che il mio mondo voleva stare tutto nel sorriso di quella bambina. Ma questa è una storia di natale e ci voglio aggiungere il lieto fine. Un giorno di primavera lei è arrivata al parco e mi ha visto accoccolato in un angolo che trafficavo. Si è avvicinata incuriosita e ho potuto, sempre senza dirle una parola, condividere il privilegio di stare con quei cuccioli nati in una crepa grossa del muro e che la madre nascondeva al mondo ma non a me. Stavo giocando in casa e ho alla fine vinto quei sorrisi e quelle parole. A modo mio però. Buon natale.



Mia nonna faceva gli struffoli a natale. Una macchina scenica che ingombrava la casa di odori e fiamme e fumo e meraviglia. Ne faceva montagne. Con mio fratello passavamo i pomeriggi a fingere di studiare e a mangiare gli struffoli. Li rubavamo alle porzioni che erano destinate in dono a altri. I nostri erano un tesoro da guardare a vista. Tutto quello che avevamo da guardare a vista. Buon natale.



Quando Dani aveva quattro o cinque anni siamo andati a fare il natale dai nonni a Perugia, che i miei vivono lì da un pezzo ma è un pezzo che non mi riguarda direttamente perchè quando sono andati a vivere in Umbria nell' ottantasette io stavo già per conto mio. A casa dei nonni si mangia oltre ogni misura plausibile e durante le feste di più. All'epoca mio padre aveva deciso di vestirsi da babbo natale per il nipotino. La corporatura lo rendeva decisamente credibile. La notte del ventiquattro andiamo nell'uliveto davanti a casa e facciamo correre i cani. A un tratto sul balcone vediamo questo omone vestito di rosso che ci saluta. Con mio fratello ci eravamo accordati e avevamo fatto lasciare al bambino un budino per babbo natale. Mio padre odia il budino. Dani continuava a dire "nonno, speriamo che babbo natale mangia tutto il budino" e lui ci guardava con odio vero. Appena Dani vede il signor babbo natale in atto di penetrare con effrazione all'interno delle nostre mura domestiche, si lancia verso casa. Gridando. A quel punto partiamo tutti, persone e cani. Gridando. Abbiamo detto a Dani che se riusciamo a catturare babbo natale lo scassiamo di botte e gli rubiamo tutti i regali. Fa parte dei criteri educativi che ho selezionato nel tempo. Spalanchiamo la porta e mio padre natale che sta ancora piazzando i regali sotto l'albero, si alza e cerca di scappare verso il balcone ma cade e urla "vaffanculo". Dani si blocca e sbarra gli occhi. "Ha la stessa voce del nonno e dice le stesse cose". Tutti ridono e mio padre sfugge miracolosamente alla cattura. Ritorna zoppicando e ci guarda con l'aria di volerci far arrestare per oltraggio alla tradizione. Di colpo Dani smette di scartare il regalo e guarda il nonno "Il budino, avrà mangiato il budino babbo natale" "andiamo a vedere" dice il nonno. Vanno in balcone e il piattino è vuoto. Dani è felicissimo. La mattina i cani si sono accaniti, è la natura loro, sul budino spiaccicato sul selciato. Proprio sotto il balcone. Buon natale.




martedì 10 dicembre 2013

Sempre in equilibrio precario

Il primo incontro è stato di sabato. Arrivo qui da Udine e prima da Siena e prima da Perugia e prima da Salerno e prima ancora Udine e i mille posti che ho chiamato casa, strofinando il mio fianco fino ai tufi del sasso materano. A introdurmi nel ristretto circolo, così mi dicevano, è un amico di parenti. Raccomandato dunque. Tranquilli, in seguito scoprirò che queste selezioni erano pura forma, col turn over che c’è lì dentro non possono permettersi il lusso di rinunciare a nessuno. Però tengono alla figura e imbastiscono la scena del colloquio e magari ti fanno credere di caparti in una rosa scelta di pretendenti che anelano a lavorare lì, dalle nove alle venti con pausa pranzo, mezza giornata il sabato e domenica libera. Quasi sempre libera. Ovviamente il contratto è da prepararsi, che poi scopri che non c’è e non ci sarà mai e quelli assunti quasi sempre si sono fatti sei mesi, dico sei mesi, di stage gratuito per imparare il mestiere, comprendendo nell’apprendistato lo scendere il cane a pisciare, e l’annaffiare le piante e fare l’autista, il fattorino e il cameriere. Non mi perderò in quello che veicolano le incontrollate fonti, nel mormorio sulle bislacche abitudini del capo che forse ho intuito ma che non ho costatato. Mi limiterò a ciò che mi ha visto testimone, che di complicità proprio non si può parlare. Cerco lavoro, a fronte di libri pubblicati e foto scattate a migliaia e quintali di pagine riempite con parole mie, a volte col nome d’altri. Cerco lavoro con la libreria andata a puttane per colpa del padrone che andava a puttane. Cerco lavoro con un mio libro in classifica tra i più venduti d’Italia, secondo il quotidiano torinese per quattro settimane in dondolo tra secondo e terzo posto, superato solo dalla maga Altea. Cerco lavoro con un figlio già scelto nel catalogo e previsto per l’estate. Cerco lavoro con un libretto di lavoro che è una storia sociale da pubblicare già nei mille lire, per raccontarvi un mucchio di storie di quelli della mia età. In copia anastatica. Cerco lavoro e comincio da quella città che aveva inchiodato sul nascere il timido tentativo letterario d’esordio, però con la dovuta cortesia e non senza avermi accordato udienza, concesso significativa opportunità. Ma non era ancora il momento mio. Cerco lavoro per l’affitto e la benzina e il pane, vale a dire per alcuni tra i validi motivi che ti fanno uscire pazzo se non hai lavoro. Aggiungi poi che col tempo avevano preso tutti a dirmi che con il mio curriculum non gli sembrava giusto offrirmi una così povera possibilità e quindi mi rimandavano in mezzo alla strada, a guadagnare da bodyguard alle pornostar e come sicurezza ai megaconcerti rock, guardando a ringhio pure la chitarra di Bruce per un intero pomeriggio milanese. Cerco lavoro perché sono un coglione.

domenica 17 novembre 2013

Al santuario di Oropa per una santa ragione



E sono rimasto tre giorni nel santuario di Oropa, un'enorme fortilizio della fede a far da bastione ai sentieri partigiani che corrono alle sue spalle. a milleseicento metri di quota. il secondo santuario d'Europa a dominare la valle biellese, teatro di guerre di resistenza e industrie tessili del miracolo, ancora il miracolo e quindi il santuario è pertinente, economico con l'ombra della sua miracolosa madonna nera. Guai a chiederglielo alla chiesa ufficiale il senso compiuto di quelle madonne nere sparse dal sasso materano alla costa zingara della Camargue, giusto per citare due luoghi della mia storia e della mia vita a cui tengo particolarmente. Se gliene chiederai ragione di queste madonne nere, in ombra di pagani riti fertili sopravissuti, in sospetto di complesse articolazioni antropologiche del dialogo tra uomo e natura, ti diranno che le madonne si scurivano per il fumo delle candele o al massimo borbotteranno vaghi riferimenti all'oriente bizantino iconoclasta. Non è così importante ora. Per me almeno non lo è. Siamo rimasti questi giorni in montagna, mentre il freddo della stanzetta che m'era stata assegnata batteva il tempo sui miei denti la notte e mi dava misura del corpo ideale della monaca e del pellegrino, così distanti dal mio a giudicare dall'ergonomia del lettuccio stretto che non sapeva contenere l'oltraggio adiposo del mio peccare militante. Siamo rimasti lì, un pugno di folli a raccontarci di didatica e storia e io a giocare il numero mio di foto e canzoni e parole a filo di memoria e a ridosso della metodologia della ricerca. Sempre coi modi miei, con quell'attitudine a dirti che quello che ho da condividere è roba seria e che quindi è d'obbligo il sorriso. Siamo rimasti lì e c'ero io e altri come me, parecchi di più di quanti ne avrei immaginati, a inventarci il modo di insegnare la storia, di cercarla negli indizi minimi, e a dirlo ficcati nelle sale di un enorme santuario già ti mancava il fiato. La sera poi ci sono state canzoni, anche eretiche direi, e ancora una volta non erano solo tempo riempito di tempo battuto ma ennesima prova per la storia e le storie, per quella cosa lì che passa dall'accademia e dal saggio ma che per quanto mi riguarda è soprattutto incardinata sull'esigenza della narrazione sempre, come forma militante di respiro, di pulsazione coronarica. La notte io e Marco Peroni, mio fratello di sempre, dopo aver dato ancora bella prova del nostro mestiere di vivere, che se eravamo lì era anche in ragione del soldo e non ci può essere vergogna a dirlo che questo è il mio lavoro e questa è la mia dignità leale, ci siamo girati tutti i corridoi infiniti di quel luogo enorme e deserto, abbiamo letto il libro del mondo da un ex voto all'altro e camminavamo scansando i radi fiocchi di neve che cadevano quasi a rispettare un contratto con i luoghi comuni più triti lì. Sulla montagna dei pellegrini, di notte e tra le colonne infinite del santuario. Piantati nel bel mezzo del bosco, con quell'architettura che dominava la valle e raccontava duemila anni d'esercizio del potere, mentre una volpe arrivava sul piazzale dal nulla del buio a dirmi che questo bosco era anche come il bosco mio, quello in cui mi ficco quando voglio riguadagnarmi alla mia considerazione, quel bosco e quella casa che pochissimi di voi qui hanno davvero visto. Un'altra storia mia da raccontare, e altre ne ho rubate a tavola, tra i corridoi e pure spiando le facce di quegli altri mentre stavo lì, col filtro imbarazzante di una cattedra a dividerci fisicamente, a raccontare la mia storia, che proprio di storia si trattava.
Poi son tornato a casa e Ste m'ha guardato in faccia e ha letto quanto avevo dovuto lavorare col piede di porco per sollevare la maledetta pietra che grava su una timidezza che pochi sanni riconoscermi. M'ha baciato, non m'ha chiesto nulla e m'ha ficcato nella macchina. Mi ha portato da Zichella a Sansalvario, la mia pasticceria bar preferita, un posto che non troverete nelle guide perchè le guide son per i boccaloni che camminano guardando il mondo dall' ipad che gioca con la realtà aumentata e io, dopo quell'assenza astinente, sapevo riconoscermi un'unica possibilità d'aumento del reale in certe dimensioni mie basse e intime che forse non lo so ma son pure queste amore. E mentre ci mangiavamo la nostra torta al cioccolato e ridevamo guardandoci, un tizio grosso è entrato nel bar ha guardato sotto il tavolo e mi ha detto "ma quello, il cane, tiene un occhio marrò e un occhio azzurro". Ho fatto la faccia stupita "come scusi?" "Il cane, ho detto, tiene un occhio e un occhio (sic). lo vedi... ha un occhio marrono e uno azzurro". ho guardato a mia volta sotto il tavolo "oddio, è vero, ha un occhio e un occhio (sic)... non me n'ero mai accorto... pazzesco" l'ho detto gridando. La gente attorno guardava, quelli che mi conoscono scuotevano la testa, Ste rideva e voleva ficcarmi con la faccia nella torta al cioccolato, una tipica reazione a bivio delle donne. "io me ne ho accorto subbito... appena entrato... io mi intendo di cani" ci siamo sorrisi e ha ordinato un Campari. Finalmente riguadagnato alla mia quotidianità. Ho cominciato a canticchiarmi "nella prossima vita" di Federico Sirianni, che sta diventando la colonna sonora di tutte le stagioni mie. Con immutato affetto, sempre vostro.

martedì 5 novembre 2013

La fatica







Dire che aveva perso il lavoro era ancora addolcire la pillola. L'avevano mandato via. Cacciato con il marchio della colpa infamante. La motivazione diceva, in soldoni, che passava le ore a scaricare immagini porno da Internet. E lo spiegavano con certi giri di parole e un uso di sinonimi nauseante. Annusava file di sesso esplicito. Così chiamavano la documentazione scopereccia che infarciva le maglie lasche della rete. Invece di fare il suo dovere, per il quale era pure pagato e a loro, ai capi, sembrava già di fargli un gran favore a dargli lo spettante tutti i ventisette. E ogni mese, con la busta, si beveva la loro faccia da "devi solo ringraziare che". In realtà le cose erano andate diversamente e la sua propensione pornofila non era mai esistita. Tutto era partito dalla moto. La sua. Aveva l'alternatore che caricava male e la batteria se n'era andata al bar a prendere qualcosa di caldo, che in strada pioveva a secchiate. Il motorino d'avviamento, dopo un paio di singulti partecipi, roba di cui non s'era mai fidato, aveva cominciato ad affannarsi e arrancare. Poi il collasso. Dallo scarico destro partì un botto da capodanno. Cazzo. E pure la puttana pioggia a metterci il suo. Guardò verso il discesone del garage. Riservato ai dirigenti. Una spinta con la seconda inserita, mollando la frizione. E sperare. Occhio solo al bagnato e alla ripidezza che enfatizza la potenza dell'auto dei capi ma uccide i tentativi di messa in moto dei sottoposti. Qualora, arrivato giù, la fottuta moto non si fosse accesa, sarebbe stato un casino riportare alla luce il cadavere rugginoso. Ma era l'unica possibilità. Spinse la moto fino all'imbocco della discesa. Si sistemò, con il culo a cercare il comodo sulla sella bagnata. Le palle presero subito la punta di freddo e reagirono a riccio. La sua natura maschia si adeguò e il potenziale di successo con le femmine in quel momento toccò il fondo. Si spinse coi piedi e poi, a frizione tirata, giù verso il buio e l'incognito. I dischi davanti sibilavano. Sempre più giù. Più veloce. Ora. Aspetta ancora. Adesso. Aspetta ti dico. Vai che c'è la curva. Motore che tossisce. Il cardano si punta e la ruota di dietro accenna a intraversare la moto. Boia. Altra tosse dallo scarico. Attacca ed è lei. Viva e roca. Tira la frizione e tiene i giri alti. A corpo morto, giù in fondo. La curva, il buio e il volpino. Cazzo. Cosa ci fa un volpino.



La moglie dell'amministratore delegato aveva un volpino. E ci teneva pure. Lo portava in giro con uno di quei guinzagli che schiacci un bottone e il cane se ne va a zonzo a corda lunga, ripremi un altro bottone e il cane viene richiamato come col mulinello da pesca. Se poi il cagnolo è piccino, in un lampo te lo riporta alla mano e se non ci stai attento te lo avvolge attorno al polso. Insomma lui sbucò dalla discesa in bomba e rombo e fischio di freni, tutto quel casino che fa una Guzzi quando parte. La ruota anteriore passò tra testa e coda della bestiola e, a seguire, il pneumatico posteriore e tutto il carico di ferro e cromo. Nemmeno un lamento flebile. Lo sfiato dell'olio sbrodolò l'eccesso di qualche sera di bagordi. Sul volpino. "Brummel vieni" disse lei pigiando il tasto e un brandello di cane e sangue gli si avventò sul vestito costoso. Costoso, costoso, costoso. La dama svenne. Juri si voltò e li vide. Illuminati dalla luce dello stop. La padrona del cane, volendo anche la sua padrona, scomposta in terra con una pizza di volpino sulla faccia.

Poi si sono inventati quella storia delle foto porno su Internet e l’hanno cacciato via.


martedì 15 ottobre 2013

Se non si va non si vede

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Da dove è cominciata. Me lo sono chiesto la mattina all’alba del 21 giugno, bussando alle porte del giorno più lungo dell’anno e facendomi trovare pronto al viaggio. Me lo sono chiesto mentre Ste filmava la mia partenza scossa dalle risate, io e lei da soli come è successo spesso nelle cose della nostra vita, a guardarci e a sospettare che non c’è altro modo di condividere. Me lo sono chiesto mentre sollevavo la saracinesca del garage, lo stesso di un inverno speso con Orso a ridare vita a quell’incredibile Frankenstein che ci ostiniamo a chiamare motorino razza Ciao anche se l’approssimazione dei nostri interventi ha finito per allontanarlo significativamente dal bel progetto originario della Piaggio. Sostanzialmente invariato dal 1967, il Ciao è stato ritirato dal mercato nel 2006. Ne hanno costruiti circa tre milioni e mezzo di esemplari, invincibili e inarrestabili.  Il segreto del suo successo sta tutto imperniato sul tempo in cui fu originariamente concepito. Gli anni del Miracolo economico in cui l’Italia si presentava sui mercati internazionali con l’eccellenza di un’offerta che coniugava bassissimi costi di produzione e qualche idea. Già, quelle belle idee che pare siano state vendute in saldo e esaurite definitivamente al presente. Quaranta chili circa pesa un Ciao e si permette di fare una bella cinquantina di chilometri con un litro di benzina. Numeri che fanno pensare e che a guardarli con l’occhio della crisi di questo nostro tempo fanno davvero impressione e quasi propongono una soluzione. Contro la storia e le storie.  Un motorino razza Ciao di stato concesso in uso a ogni famiglia, questo ci vorrebbe. Addavenì Piaggione.

Ho quarantotto anni, me l’ha chiesto il poliziotto quando mi ha fermato nella notte alla guida del mio possente mezzo quanti anni avessi e rideva e non ha voluto nemmeno vedere i documenti e ridevo anche io ma senza farmi vedere che nemmeno quella soddisfazione voglio dare. Me lo ricordo che aspettavo i quattordici per poter guidare un maledetto sogno da quaranta chili e con un rumore nasale che a sentirlo arrivare già mi metteva in emozione. Lo volevo il motorino razza Ciao perché era la prima possibilità che offrivo a quella maledizione nomade che s’è impossessata da subito dei miei gesti, di guadagnare spazio e strada oltre la licenza del passo. Quanto l’ho desiderato e quanto lo desideravamo. Vivevamo al bordo estremo della città e non c’era nulla oltre il campetto da basket asfittico e i prati sfibrati in respiro di fabbrica e l’autostrada che ci sfrecciava di lato e che ci ricordava continuamente che c’era da andare e vedere. Sono cresciuto sul bordo dell’autostrada con quel pugno di amici che, con le significative defezioni di quelli che, la statistica di quella stagione lì è implacabile, si sono fatti trascinare via dalla piena della roba o dalla percezione di un tempo che non si poteva coniugare se non al presente: Sono cresciuto con quelli che sono ancora i miei fratelli adesso che la vita ci ha frullato per il mondo. E il motorino razza Ciao era una possibilità, era la possibilità. Ci potevi andare a vedere le cose in giro, ci potevi portare le ragazze e… come dici?... certo è vietato andare in due sul motorino… certo certo, la multa, i vigili… lo sapevamo bene… ma ce l’hai un’idea di cosa voglia dire dividere la sella del Ciao con una ragazza a quindici anni… altro che multa… nemmeno la pena di morte ci poteva fermare, che ci fosse stata saremmo crepati tutti col sorriso. E quella mattina del 21 giugno, mentre il Ciao partiva con mezza pedalata, segno che in fondo s’era fatto un buon lavoro sulla meccanica, me lo sono detto che se dovevo pensare da dove era cominciato tutto dovevo andare indietro proprio a quella stagione lì, in bilico tra l’odore di femmina e quello della miscela al due per cento. E per il maledetto sogno di andare sono partito.

Ci ho pensato per tutto l’inverno, un lunghissimo inverno passato a respirare corto l’aria di una Torino resa asfittica dalla crisi e dalla disperazione che aleggia nei palazzi delle periferie dove ti domandi di cosa cazzo vivano ora che la fabbrica è un maledetto leviatano spiaggiato. Ci ho pensato per tutto l’inverno mentre vent’anni di mestiere mio tra le pagine dovevano adattarsi facendosi posto tra quegli altri poveracci della razza mia ficcati nelle pieghe della tecnologia e della multimedialità.  Ci ho pensato per tutto l’inverno rimanendo in garage per ore con mio figlio che alla fine s’è fatto una ragione di certo mio ringhiare ai dadi e ai bulloni e ha imparato a ringhiare a sua volta al metallo per farsi rispettare. Ci ho pensato per tutto l’inverno, leggendo resoconti di altri viaggiatori supportati da mezzi d’appoggio e incredibili tecnologie, i messi peggio si portavano almeno un motore di ricambio, e con la consapevolezza che io avrei scelto ancora una volta il bagaglio del nulla per avere tutto da guadagnare comunque vada. Intanto andavo avanti a raccontarla che mi sarei fato da Torino a Udine con il motorino razza Ciao, con la consapevolezza che più lo dicevo e più dovevo tener fede all’impegno. Cercando un vincolo alle mie stesse parole e ai miei stessi gesti. Poi una mattina mi son svegliato e proprio come nella canzone m’è rimasto solo da dire bella ciao, che quell’altra non m’ha fermato mai da tutta una vita, forse è un bene forse non saprei ma tant’è, e rideva a vedermi partire vestito come il reduce di tutte le guerre. Un’attrezzatura specifica non ce l’avevo. Ho fatto innumerevoli chilometri in moto per il mondo e ho dormito in posti assurdi sdraiato sul cassone del mio vecchissimo pick up ma non ho mai avuto quello che passa alla cronaca come abbigliamento tecnico. Questa volta meno che meno, se si esclude il casco integrale scelto per la comodità di calzata che avrebbe agevolato nella lunga percorrenza. E via andare. Il Ciao ha viaggiato per ventitre ore con la modalità, due ore in viaggio mezz'ora fermo. Cinquanta chilometri con un litro circa e una spesa complessiva di circa sedici euro di benza. Il circa è la mia unità di misura preferita. Altro che viaggi sostenibili, questo mio stava in piedi con lo sputo. Tutto in bilico sulla manopola del gas e sulla minima variazione che faceva la differenza e poteva portare al naufragio. Tutto sospeso, tutto in ascolto del rumore, del respiro, della strada, delle cose attorno. Tutto con attenzione e abbandono, una cosa difficile da spiegare. Come far l'amore per capirci. Una cosa fantastica, un'adrenalina oltre ogni ragione plausibile. Ancora come far l'amore, per capirci sempre. Con la moto vera o con il mio fidato camioncino ti sembra pure che la strada la sappiano da soli e invece lì era scoprire il mondo da un respiro all'altro. A volte mi sono fermato di più, a volte di meno. Sono stato blindato tre volte dalle forze dell'ordine perchè è tutta la vita che va così. La terza volta, alle due di notte, ho chiesto se per caso c'era un bandito rapinatore e killer che imperversava per la pianura padana elusivo in sella al suo Ciao maledetto, perchè in quel caso mi sarei potuto dire vittima di errore giudiziario. Invece erano solo curiosi. Anche la gente nei bar era curiosa ma non avevano mitragliette al collo. Fa la differenza. Il viaggio, la guida, tutto è stato oltre ogni plausibile retorica occasione di confronto non solo con un mondo alla moviola, mi superavano anche i bambini con il triciclo, ma anche l'occasione per parlarmi da solo a solo dentro il casco e sciogliere qualche nodo con me stesso e ritrovarmi finanche simpatico. L'ho sempre sospettato ma nella notte me lo sono detto, non ho mai il tempo per farlo, che mi voglio bene e che la vita che mi sono regalato era proprio quella che volevo. Un topo, un grosso topone di canale, dopo Treviso e in piena notte ha attraversato la strada e ci siamo guardati negli occhi, il tempo c'era e di slancio è saltato oltre me e il motorino razza Ciao passandomi sui piedi. Privilegi della lentezza. 
E ancora in una statale al buio, mentre i camion scassi della notte, quelli che non si fermano mai e vanno in impossibili territori dell'est estremo dal lombardoveneto estremo, cercavano di farmi letteralmente la pelle, ho finito la benzina. Il motore stava morendo e tossiva e ero su un cazzo di curvone buio e dall'altra parte, nel nulla, un distributore di una nota multinazionale dei petroli con l'automatico e il furgone dei panini con le salsicce. C'erano pure due vistosissime signorine che lavoravano alla luce del self. Panino, birra e mezz' ora di riposo sdraiato nell'erba a guardare il viavai. Quando sono ripartito le ragazze mi hanno salutato ridendo molto. Una s'era avvicinata quasi a tentare commercio ma le avevo fatto notare che il sedile del ciao non è reclinabile e quella non la finiva più di ridere. Dice che ho la faccia da tante cose ma non ho quella del puttaniere e uno alla faccia deve portare rispetto.




E ancora sono finito in un’osteria a pranzo con dei vecchi che gli mancava il quarto per le carte e lo sai come vanno queste cose e a me non mi aspettava nessuno e c’era il vino e il salame e quando hanno saputo dell’impresa mi hanno riaccompagnato fuori, ficcati nel cuore di una Lomellina che nemmeno sospettavo prima, e mentre andavo via m’hanno battuto le mani anche se avevo perso a tresette.

E ancora a cena mi sono fermato in una specie di compound in mezzo al nulla e c’erano una decina di Harley parcheggiate a pettine e a pettine ho messo anche il mio Ciao e quelli facevano le facce cattive ma con me caschi troppo male che io mica accendo la moto per andare al bar di fronte e ci metto un attimo con l’accenno di due parole a lavorare sul tuo senso di colpa di essere un avventuroso da salotto e poi giù birre e alette di pollo che c’erano solo e soltanto alette di pollo e il karaoke, con due ciccioni lui e lei che cantavano a strappa gola le canzoni di Baglioni. Anche lì partendo m’hanno battuto le mani e non ho pagato nulla. Ma con quelli lì so trattare da sempre, è con i consulenti globali, i cravattuti e lampadati che mi trovo in disagio e rischio la rissa.


Però una cosa la voglio raccontare per bene. Ci tengo. Ho attraversato tutta la pianura padana passando dalle strade secondarie, saltando le città  e rimanendo sempre nella provincia. Cercavo le tracce di quel cuore pulsante produttivo che aveva generato il miraggio del miracolo economico e invece, per dirla con Ermanno Rea, ho attraversato la polpa maleodorante della dismissione. Le osterie sono state cancellate dall’agghiaccio dei centri commerciali e poi cartelli VENDESI sulle case, sulle auto, sulle facce delle persone. Fabbriche morte e cancelli dilaniati a dare misura di un paesaggio postbellico senza soluzione di continuità. Una nozione del dolore che non mi ha abbandonato per seicento chilometri e che non ho smesso di percepire in antitesi a quella mia gioia dell’andare che se non sai viaggiare leggero non puoi capire.



Sono arrivato all’alba e mi sono fermato all’inizio di Viale Venezia, la periferia estrema della città dove sono cresciuto. Ho fatto la foto al Ciao sotto il cartello UDIN e l’ho fatta per me che me ne fotto se non ci credi a ‘sto viaggio. Ho maledetto la sorte che m’ha privato del baffone intermittente che per mille anni campeggiava sul viale dalla fabbrica della birra Moretti ma va bene così in fondo. Una volta arrivato, nel bosco dove sta nascosta casa mia, ho dormito tre ore e poi una doccia e via a festeggiare a quaranta chilometri da lì, sempre in Ciao, e bere e ridere e bere e ridere e bere e ridere e poi altri quaranta chilometri che erano arrivati Ste e Dani in auto da Torino e di nuovo a un'altra festa e altre facce e sempre le storie mie da pompare a flusso corposo nelle vene. Tutta la valle l'ha saputo in un baleno e mi fermavano per strada e mi sono fatto mille foto col motorino e il sorriso del nulla. Tutti avevano un Ciao nella cantina e nel fienile e tutti sono cresciuti col sospetto che si sarebbe potuto fare. Ora glielo posso dire che era un sospetto legittimo. Ma questa è un'altra storia e i più svegli anche tra voi pubblico da casa, l’avranno capito che il Ciao era una scusa bella e buona.

Ciao.







martedì 8 ottobre 2013

Cronaca di una giornata postindustriale



Dunque, dovresti averlo capito come funziona ma a scanso di equivoci ti ricordo che conviene far partire la canzone e poi leggere.





Sabato mattina a Torino. Esordio d’autunno che misuro sulle scarpe che si inzuppano d’acqua mentre me la cammino al parco con i cani. Oltre gli alberi intuisco la fabbrica ma è un mero indizio di nozione urbanistica, niente di comparabile con l’idea di fulcro del respiro cittadino che per tanti decenni qui si sono portati addosso. L’effetto è lungo da smaltire ma, dati alla mano, c’è poco da fare i gradassi, che da quei cancelli escono briciole e la memoria industriale sono piuttosto i palazzoni di periferia a raccontarla ancora. Ho davanti un altro fine settimana postindustriale e non ne sono quasi consapevole, tutto concentrato nell’idea che i miei piedi stiano subendo l’acqua diaccia che entra bellamente dalla tela delle scarpe e si aggrappa ai calzini che mi ero finalmente deciso a tirare fuori dal cassetto. Me la prendo con i piedi e con l’erba bagnata ma in realtà il mio livore è tutto riferito a questo autunno che arriva e che è il preludio alla maledizione dell’inverno che inchioderà il mio respiro e mi costringerà a lasciare la moto in garage nelle giornate più fredde. Se morirò sarà d’inverno mi ripeto da sempre, che non me lo posso permettere di morire nella stagione in cui le rondini sfrecciano in cielo e le femmine passano con i vestiti leggeri. Ogni volta che arrivano le rondini, prima avevo come segnale temporale anche le fragole al mercato ma pare che questi cazzo di frutti ormai ci siano tutto l'anno,  penso « anche quest’anno non morirò ». Poi vedo le gonnelle leggere e le magliette accennate e mi ripeto con insistenza « no, proprio non morirò quest’anno ». Invece arriva l’autunno, annunciato da questo grigio che domina, come una foto scattata male e stampata peggio, come un bianco e nero che cede al prevalere delle tinte intermedie senza mai trovare soluzione nella pienezza dei colori che porta nel nome. L’umido mi si ficca sotto la maglia, ancora mi sono ostinato a uscire con le maniche corte, e la sinusite pare svegliarsi dal suo letago contrario per farmi compagnia nella stagione che avanza. Non mi piace e cammino a testa bassa e i cani si tengono a distanza debita.
Saliamo tutti in macchina, uomini e cani, come in un’evoluzione di certo narrare dalla grande depressione di là dall’oceano. Ogni sabato, per rimettere in pari il conto con l’ingiustizia di vivere, vado a fare colazione da Zichella. Da sempre. Facciamo il cavalcavia di corso Dante che per il magico furgoncino è una bella sfida alla meccanica, al tempo e alle leggi della fisica e planando con bella noncuranza entriamo in via Nizza. Come una cavallina storna e storta la nostra vettura cassonata va da sola verso il bar pasticceria. In mezzo alla strada un fiotto di gente che si raggruma verso un lato e che forma un’organismo unico e, a giudicare per approssimazione, neanche troppo complesso. Da lontano sembra una roba corposa, si sente gridare e mi ricordo che per oggi c’è una manifestazione degli studenti in programma. Passo oltre. La gente ha le facce stravolte ma capita sempre, la gente è segnata da una furia maledetta ma capita sempre, molti però soggiacciono a un peso della rassegnazione che pure sai riconoscere senza incertezze. Che cazzo succede. Andiamo oltre e guadagnamo la sicurezza di un caffè e una meringa con panna. Chiedo. Dice che la catena dei polli arrosto che qui in città puoi trovare a ogni angolo e che porta il nome della piazza dove ieri hanno ammazzato uno a coltellate, vende i polli a 50 centesimi per festeggiare i cinquant’anni di attività. Pensa tu. A bocce ferme il lunedì sul giornale scopriremo che sono stati dati diecimila polli alla popolazione e che le persone si sono prese a calci e pugni per un boccone e che si facevano tre ore di fila e che i giornalisti hanno intervistato persone che dicevano di non mangiare un pollo da dieci anni. Infine dice pure che è intervenuto il servizio d’ordine dei pollarrostari, sorta di samurai armati di spiedo e con il giacchetto in pelle di pollo. A questo punto mi viene da pensare che se stai davanti alla rosticceria tre ore con la moneta in mano la crisi non è causa di nulla ma sei tu che sei stritolato in un meccanismo fatto di persuasori e nemmeno occulti e consumo e mercato. Tre ore, non ci posso pensare, tre ore con tuo figlio a tenerti la mano e le botte davanti alla saracinesca. Ma quante cose si possono fare in tre ore. I conti non tornano. La città è stata attraversata da questa smania di pollo degna delle più epiche pagine di Marcovaldo. E mai che si sia avuto sospetto di un profumo nell’aria.
Sempre dai giornali apprendiamo che la sera a Venaria, la reggia di Venaria, c’è stato un ballo in maschera e i millecinquecento posti disponibili a pagamento sono andati a ruba e il costume costava trecento euro a trovarlo in affitto ma molti hanno preferito farselo confezionare. L’altra bella faccia della città postindustriale. Hanno provato a raccontarglielo a quelli che ballavano che il popolo aveva finito i polli e una signora vestita da cortigiana, poi glielo spiegheremo cos’erano le cortigiane e la rima le darà ragione delle sue scelte, ha sorriso e ha detto : « che problema c’è, che mangino brioches ».
E mentre gli studenti marciavano per le vie del centro e la folla assaliva pagando le rosticcerie, che pure Manzoni ci faceva miglior figura rivoluzionaria coi suoi forni, e l’elite attendeva sera per ballare il minuetto col volto incipriato, un uomo vagava per le strade del centro. Un uomo per noi, ma lui dice di essere scrittore, soprattutto scrittore, fondamentalmente scrittore, scrittore e basta. Uno scrittore sfortunato che non riesce a trovare spazio e mercato per le sue pagine e magari toccherebbe dirglielo che quel mercato lì è ormai bella fiera della vanità. Arrivato qui a Torino dal centro Italia, dove le sue fortune narrative erano più che incerte, s’è arenato come un cetaceo davanti ai Murazzi. La famiglia è ritornata alla casa d’origine e lui è rimasto qui da solo a girare per le vie del capoluogo sabaudo che pure portano ancora addosso certa suggestione editoriale che pare d’intuire tra i portici attraversati dal fantasma di Pavese, dall’ectoplasma di Calvino. Sta di fatto che in quella mattina lo scrittore, chiamiamolo il nostro scrittore per dargli coraggio, si sente incollocabile. Non marcerà con gli studenti, non ballerà con la gente per bene. Peggio di tutto, non gli piace il pollo al nostro scrittore. Quindi disarmato entra in una banca e grida che è una rapina e vuole i soldi. Lo guardano increduli e nemmeno gli danno retta e lui mi immagino che insista e poi capisca che il naufragio letterario è solo un presagio per quella maledetta vita che si porta addosso e che pare portargli al tavolo in quel momento un conto impietoso. Esce in strada e comincia a correre, poi dirà che voleva essere ucciso dai proiettili della polizia, ma il fisico dei cinquant’anni appena passati è quello che è e deve presto fermarsi e sedersi a una panchina sopraffatto dall’affanno. Così lo trovano i poliziotti che lo portano via e nel pomeriggio lo affidano ai servizi sociali.

Così corre il tempo nell’era postindustriale, nella città postindustriale, raccontata da un uomo postindustrioso. Ora vado a mangiarmi il pollo che ho rapinato a un corteo di studenti. Non mi prenderanno perchè ero vestito da moschettiere. 

Ah già, qua sotto vi metto i link delle notizie, così ci mettiamo l'aniimo in pace con 'sta storia che non bisogna mai fare a gara con la realtà.




http://www.lastampa.it/2013/10/03/cronaca/notte-folle-alla-reggia-con-centinaia-di-maschere-sOPcQZNJL9UzxlAFG4vzkN/pagina.html


Ci sarebbe anche il link del nostro scrittore rapinatore ma ve lo cercate da soli che a metterlo mi sento un po' un delatore. Tanto è successo nello stesso giorno e non dovrebbe essere difficile ma se lo troverai non sarà in mio nome.





 



venerdì 27 settembre 2013

La fame è fama

Te le ricordi le modalità d'uso? fai partire la canzone qua sotto e poi leggi. Non è difficile. Niente è difficile ma di roba impossibile ne gira parecchia.




Ho una fame ladra e sono le ventitre feriali in Corsosammaurizio, detto tutto tirato. Me la giro a piedi, che sono sgusciato da sotto al ventre della mole, dal lavoro, a un’ora da sfruttato e pagato meno e in giro non c’è niente. E’ inverno. Ho fame e l’ho già detto, ma lo ripeto così è chiaro che è proprio una roba consistente, concreta, fatta di fitte nello stomaco e nella memoria di passate tavole e tegami fumanti. D’angolo vedo una luce e ormai, in anni d’arrangio urbano, ho imparato a sintonizzare l’attenzione sulla frequenza particolare delle luci delle friggitorie, delle gastronomie da poco, dei pizzammetro insonni. La vetrina è piccola, meravigliosamente proporzionata alle mie finanze, e dentro gira un kebab. Edicola devozionale dei miei appetiti disperati. Il posto è poco più grande di una cabina del telefono e il tipo col grembiule è pure grosso. I clienti, tre clienti, completano la farcitura del buco a prova d’aria e di arie da darsi, che non ce n’è per nessuno. Mani rovinate e vestiti cazzolati a schizzi di calcina e rare lacrime d’emigrante delle canzoni che a tavola dice di mettere il piatto suo, presumibilmente vuoto sennò col cazzo che partiva abbandonando la natia terra, gli amici del bar, il suo gallo da battaglia. Poi tocca dividere anche il fumo, ma nel mio caso, alla faccia di Pablo e di De Gregori, il padrone non è quel che si dice una pasta d'uomo. La vita è una quotidiana merdaviglia. Siamo arrivati a quando entro, unico di lingua italiana, che due, lo scoprirò dopo, sono rumeni e un altro è egiziano. Come il titolare dell’attività. Quello che ha un’ambiente in centro direbbero in altri orienti. Sull’entrata, lo noto subito, c’è appeso il solito fagottino con dentro il corano e, sul piano di marmo degli ingredienti, c’è la bacinella del prosciutto cotto e quella del salamino piccante. Allà è grande penso io e chiedo una birra per conferma. Dal forno a legna arriva un caldo di conforto. Alì, che è a un pizzo dall'essere un mio nuovo amico ma né io né lui ne siamo consapevoli, passa dall’altra parte del bancone e letteralmente a spallate apre un varco per me sulla mensolina dove i clienti appoggiano. Manda uno dei due rumeni a spalmarsi sul frigo e l’altro non protesta. Mi vergogno del privilegio che mi sono guadagnato per la stupida faccia italiana che mi porto in giro. Stupida come quella del rumeno se fossimo a Bucarest. Vorrei dirglielo che anche casa mia è lontanissima ma poi mi potrebbero chiedere dov’è e a me mancherebbe certezza, come in tutta questa vita passata a cambiare regioni, accenti e dialetti. Così abbozzo. Il kebab è cosa straordinaria, impastata con le mani velocissime, ficcata nel forno, buttando a sostegno anche un paio di tocchi di legna e a giro di pochi minuti risorte fuori una meraviglia povera, profumata, gonfia, fumante. Imposto, inconscio, la faccia da fedele al miracolo replicato di San Gennaro. Roba che mi porto nel bagaglio genetico. Lui sorride e mi chiede se lo voglio piccante. Certamente, dico io, che mi sono parcheggiato a spina di pesce coi due rumeni mentre l’altro cliente, l’egiziano, rimane aggrappato alla vetrinetta frigorifero con l’insalata di polpo e le alici marinate. Mi danno da parlare e dicono che lavorano sulle impalcature e io vado sicuro, che ho passato due anni della mia vita in alto a fotografare affreschi e restauri toscani, abituando le gambe al dondolio della struttura e la testa all’idea del vuoto sotto. Concordiamo che a seguire tutte le prescrizioni e le norme di sicurezza non si lavora più e poi uno caccia il passaporto e me lo mostra con tutti i timbri e non mi ricordo a che scopo e vuole vedere il mio che non ho e a lui sembra impossibile. Forse sospetta che sono un finto italiano. Ha sgamato l’uomo mimetico. Intanto il mio kebab si va riempiendo di carne e carne, mica come quelle miserie che te le stipano di lattuga per far volume e poi ci mettono un cicinin d’odore di ciccia. A un tratto Alì solleva lo sguardo, guarda fuori, ringhia, afferra un enorme coltello e salta di nuovo fuori dal banco, che poi imparerò che sono cazzi quando succede, e esce in strada, mollando il mio vitto a mezza farcitura. Sul marciapiede c’è uno, non l’avevo manco notato. Altro ghigno nordafricano ma più tunisino, mi spiegheranno poi. Alla faccia dei tutori dell’ordine e della disciplina, Alì, nella pubblica via, inchioda il pusher al muro e lo correda di lama alla gola. Non qui, davanti al mio ristorante, presumo gli dica. Penso che si sta mettendo contro il narcotraffico internazionale e che quello sarà l’ultima possibilità d’assaggiare il suo kebab. Invece il minacciato abbassa la recchia e cambia lato e tutto torna in norma. L’altro rientra e si scusa, solo con me, per la deplorevole scena. Vive da venti anni in Italia, ha il buon gusto di non dire anche lui come tutti di essere laureato in architettura, e questi bastardi di stracomunitari che vendono cosse brute proprio non sopporto. A dirla così pare quasi veneto. Diventerò cliente fisso e avrò l’onore d’essere a mia volta scostato, ma dopo tempo, all’entrare di un cliente più attendibile di me come italiano perbene. Il kebab è stato per mesi la mia dieta base. Ogni tanto ci portavo altri poveracci, sfruttati come me, che uscivano a pezzi e dicevano come fai. M’ha sparito pure la sinusite, insistevo io, ma avevo un bel dire che con me Alì ha guadagnato poco ma i miei amici a causa sua hanno rimpinguato le casse ai venditori di dentifrici e caramelline. Per inciso, Alì gli italiani lo chiamano Paolo e lui sorride, che dentro pensa povero stronzo. Ma il cliente ha sempre regione.

martedì 24 settembre 2013

La figura del cioccolataro


E noi non ci sappiamo vestire e noi non ci sappiamo spogliare e noi non ci sappiamo raccontare, quando è il momento raccontare, nei bar davanti al mare.




Sono passati abbondanti venti anni da quella casa, da quel sottotetto con il pavimento interamente in stuoia di cocco, che quando facevi l’amore per terra, capitava, ti veniva la sindrome del parmigiano sulla grattugia. Non c’era una lira che fosse una. I pochi soldi che guadagnavamo li reinvestivamo in pellicole e obiettivi e la botta di culo dei contratti grossi e la moto nuova e la casa in affitto col giardino immenso e le cene in giro dovevano ancora arrivare e sarebbero pure sparite presto.  C’era questo posto che vendeva tutto all’ingrosso e che esiste ancora in tutta Italia e io ci andavo e impazzivo a guardare enormi pile di biscotti, barattoli di maionese da trenta chili, interi quarti di bue provenienti dall’Argentina. Per entrare ci voleva la tessera e non mi ricordo come c’era questa tessera che girava tra tutti e quando serviva te la facevi dare, che allora era tutto uno scambio senza che nulla fosse davvero di qualcuno. Io ogni volta che avevo la possibilità di entrare in quel posto venivo preso da una vertigine e una volta m’ero speso la cassa comune per un sacco enorme di fondenti alla menta. Un giorno, tessera in mano, andiamo a fare la spesa. Si viveva in case riempite da gente che andava e veniva e il frigo era terra di nessuno. Avevamo i soldi incassati da un lavoro recente. Pericolosissima situazione per me averci dei soldi in mano. Vedo una latta di crema cioccolato nocciola uso pasticceria. Credo fossero una decina di chili di succedaneo della Nutella. Già ve lo state immaginando. La compro. Torniamo a casa e, in quell’estate lì di caldo da schiantarsi, decidiamo di mettere la latta di Fintella nel frigo, che tanto con l’aria che tirava spazio ce n’era in abbondanza. Per mesi mangiamo i panini rubati a mensa e guarniti con la Nutriella. Un pomeriggio siamo lì accampati e non mi ricordo nemmeno bene chi ci fosse. Qualcuno studia, qualcuno cucina, probabilmente tutti dormono buttati in giro. Vatti a ricordare. Giro in mutande e anfibi perché il pavimento in stuoia di cocco vecchio di cento anni ti fresava il plantare come in quella pubblicità recente che c’è uno che usa una spazzola per le piante dei piedi e poi la apre e ti fa vedere tutto il cozzo estratto dalle sue estremità con bella soddisfazione. Ste è in bagno. Apro il frigo per prendere una birra e vedo la Micidiella che sta lì, ora odiata da tutti. Con un dito ne saggio la consistenza. A stare nel frigo è diventata come la plastilina. Lampo di genio puro. Vado davanti alla porta del bagno e comincio a urlare “Ste ti prego, devo andare in bagno, apri ti prego…”. Dopo qualche secondo Ste apre uno spiraglio e mi chiede cosa cazzo voglio. Balbetto “Fammi entrare, ho bisogno del ba….”. Sbarro gli occhi e resto pietrificato a guardarla. “Cosa c’è?” “Cazzo no” “No cosa” “Te l’avevo detto di sbrigarti”. Comincio ad arretrare senza darle le spalle. “Ma che cazzo hai fatto”. “Niente, niente, lasciami il bagno”. “Ma… ti sei cagato addosso?” “No no… lasciami il bagno per favore”. Stanno arrivando anche gli altri sparsi in giro. Mi guardano inorriditi. Ste mi afferra un braccio e mi volta. Sul fondo dei miei boxer si percepisce nettamente un grosso bolo marrone. “Che schifo, ma sei impazzito”. Mi rigiro spalle al muro “Ma insomma, che sarà mai… in fondo…” mi infilo le mani nella parte posteriore delle mutande “è solo cacca” estraggo uno stronzolone confezionato con la Falsella e lo tengo in mano davanti a tutti gli sguardi allibiti “e poi mi son sempre chiesto che sapore ha” e mi pappo lo stronzolone di buon appetito. Ste grida fisso, senza una gamma tonale variata, un lunghissimo grido monocorde. Qualcuno si sente male. Tutti gridano.Il cane ulula con il muso rivolto al soppalco, che il cielo a noi non ci spettava.

Il fatto che tutti ci avessero creduto la dice lunga sull’idea che il mondo ha di me.
Dolcetto scherzetto.
 
 
 
 

domenica 28 luglio 2013

Masso che cola.





Gressoney, ore 15. 
Scarichiamo la bici di Dani e lui salta sull'impianto di risalita, direzione piste di downhill che è quanto di più vicino al suicidio si possa praticare usando una bici. lo vediamo salire verso il cielo come fosse Remedios e io resto giù che non è detto che debba spaccarmi un osso ogni mese che arriva. Ce ne andiamo al bar e prendo una fetta di torta di mirtilli con la panna. L'assaggia anche il cane che sta sotto il tavolo al fresco e non mi spaccate i coglioni con la dieta del cane che qui si muore di piacere ogni giorno e con impegno. Ste si lascia sfiorare dal sole anche se qua non fa per niente caldo. Siamo nel cuore della montagna. Non ci sono altri avventori se si esclude una coppia tuttosport, uno di quegli organismi complessi che si sviluppano in città, generate a partire dall'avvento dei megastore sportivi ai margini delle metropoli. Sono attrezzati per affrontare almeno sei discipline olimpioniche e anche un paio di attività in attesa di riconoscimento internazionale. Restano tutto il giorno seduti, impegnati nella sollecitazione clitoridea dei loro tablet che sfiorano con l'indice frenetico. Quando parlano tra loro si respira un velo d'astio a fior di sorrisi dipinti come in faccia alle bambole. Al tramonto li rivedremo caricare la pancia del cargo Subaru e ripartire alla volta della città. Torneranno a essere magifici animali da dehor, avendo belle storie d'avventura da spendere. Farà fede l'abbronzatura stesa a più mani nella lampaderia gestita dai cinesi proprio in corso qualcosa, angolo corso qualche altra cosa. Di solito ci vanno in pausa pranzo. Ottimizzano.
Ci alziamo insieme al vento che si fa teso sul filo dell'acqua portata giù d'impeto dal ghiacciaio. Prendiamo la via dei boschi, che è sempre un bel segno di resistenza.

ore 19.45
Nella piazzetta di Gressoney c'è una festa western e tutti sono vestiti come fossimo sul seti di Hazzard, in un territorio riferibile all'immaginario condiviso, nutrito da film e fumetti. Forse per riuscire a immaginare come può essere una festa western a Gressoney facciamo prima a immaginare una festa napoletana in un paesotto del Kansas. C'è l'rchestra dal vivo e sono bravi sul serio. Gente di mestiere che mi ricorda la scena dei fratelli Blues quando arrivano al locale country. Suonano anche Johnny Cash, grazie a dio, e la gente si muove all'unisono in una sorta di danza macabra di bella derivazione medievale. Anziani e affini ballano con i cappelli da cowboy. La torta di mirtilli è molto più buona di quella del pomeriggio e la salsiccia con i fagioli costa davvero poco e fa la parte sua mentre il freddo comincia a farsi sentire. Da un megafono qualcuno invita la gente alle finali di toro meccanico. Lombardi e piemontesi con i vestiti elegantini si muovono per quelle strade in nome dell'aria frizzantina che fa tanto bene. Professionisti e mogli verniciate e lucidate passano portando con stile scarponcini e giacchette tecniche. Hanno la faccia da squali ma qui respirano corto sulla salita e sudano tutta la coca che si sono pippati. Emuli di quell'avvocato che tanto ci ha segnati tutti.
Il cane fa ii conti con la recente cicatrice, con quella bella indifferenza che ostentiamo tutti in famiglia per le cicatrici. Buona estate a tutti.




mercoledì 24 luglio 2013

Passarlo liscio







Ieri sera al parco. Ci andiamo spesso a cena, è davanti casa e quando verso le dieci di sera riusciamo a radunare i pezzi della nostra tribù sganghera non è più tempo di fornelli e per un pugno di euro ci sediamo davanti a un piatto di porco abbrustolito e a quell'ora il vecchio al bancone ci carica i piatti di plastica di porzioni mica da ridere. E ci piazziamo lì, su quei tavoli lunghi di legno e attorno a noi gente di tutte le parti del mondo che fa i conti con il tempo libero che è pur sempre il tempo che resta. I cani sotto il tavolo se la giocano con le ossa e i pezzi di pane. E c'è l'orchestra del palco grande che sarebbero due computer e un vecchio bavoso con i radi capelli tinti che costruiscono sul cranio scivoloso una struttura che dovrebbe essere un succedaneo seduttivo della capigliatura ma che più propriamente ricorda un'opera di Tatlin. Nella pista, con le basi registrate si agita una budrigona cotonatissima che negli anni sessanta s'era sognata d'essere una cantante e ora gorgheggia in un improbabile spagnolo canzoni d'amore e porta la pelle sblusata sui pantaloni a vita alta e il suo sudore si mischia al fumo della griglia e le collane le si appiccicano alla generosità dello scollo. In alternativa alla garrula brodosa c'è un bel tenebroso con un accento calabro che togliti ma che si gioca il vantaggio di averci trent'anni, che è un bel vantaggio in quella bolgia di vecchi, tutti vecchi, quasi tutti con una vita spesa nella fabbrica e pochi spiccioli d'esistenza da lasciare ancora sul bancone unto. Ieri sera stavamo lì e levavo la carne dall'osso delle coste con la lama fidata del mio Laguiole, un vecchio Maki per chi se ne intende, vedo che all'altro palco, quello dove di solito fanno danza western, stasera si balla occitano. Finiamo di mangiare e ce li andiamo a gardare quelli che si misurano col rigadon e davvero c'è una galleria lombrosiana che mi ricorda che un giorno o l'altro dovrò decidermi a controllare la data di scadenza all'umanità. E ballano e come nel palco del liscio ci son coppie di donne che danzano tra loro e non è traccia di emancipazione e negazione dell'omofobia ma piuttosto il retaggio di tutte le guerre possibili e maschi che dalla battaglia non sono mai tornati. Fateci caso, tutte le volte che c'è un'orchestrina, ci son sempre donne che ballano tra loro. è un indice meramente statistico, un dato biologico, nulla di antropologicamente significativo. Fanno con quello che hanno come in prigione. perchè questo parco li ha imprigionati all'aria aperta, a un passo dai cancelli di una fabbrica che è misura di tutte quelle vite. E l'orchestra suona e vanno fuori tempo. Un oltraggio al tempo è quello che ci vuole. Bravi
Un'altra birra e poi me ne torno a casa.


giovedì 11 luglio 2013

come una tigre a Pinerolo

A Pinerolo c'è una specie di zoo. Chiuso da tempo ma dentro ci sono ancora degli animali, avanzi di circhi orfei minori di cui s'è persa la memoria. Misteri orfeici. E ci sono tre tigri, forse originariamente in lizza contro altre tre, messe lì per sciogliere le lingue dei visitatori, messe lì perchè lo sa solo dio, che una tigre sta a Pinerolo come la dignità sta all'ufficiale giudiziario. Le tigri in realtà sono nove ma per questa storia mia già tre sono troppe. Sono anni che le tigri stanno lì, dietro le sbarre e la rete grossa, in un pollaio anabolizzato dove possono guardare il niente che ogni mattina gli compare quando aprono gli occhi e riescono a fuggire i maledetti sogni di foreste e prede e acqua fresca da lappare direttamente dal fiume e trappole e lotta e dolore e amore e morte e cazzo ne so io, che mica sono tigre. Tutte le mattine arriva il vecchio, anche lui avanzo di altri fasti, che è rimasto lì a guardia di quella fortezza Bastiani che fu eretta per vegliare sulla pericolosa prepotenza dell'esotico che insiste sull'immaginario dei bambini di Pinerolo e zone limitrofe. S'è ben rotto la ciola pure lui, il guardatigre, di portargli da mangiare la mattina senza soddisfazione alle belve e son mesi che non le degna di un sorriso, che ogni loro brontolio, parlare di ruggiti non me la sento, gli ricorda che lui nella vita porta da mangiare carne marcia alle tigri di Pinerolo tutti i giorni. per nessuno. Il vecchio vive con la moglie in una baracca lì allo zoo fantasma. Ieri le tigri lo hanno sbranato. Dopo anni di convivenza. Ora faranno una brutta fine ma se ne vanno con i conti in pari. E voi? Come ve ne andrete voi? E io? Io sono il vecchio che vi porta le storie tutte le mattine. sono già morto e senza il brivido della zanna. Grazie davvero.

martedì 18 giugno 2013

La vita a calcinculo









Ieri sera, nel parco a un passo da Fiat Mirafiori, la madre di tutte le fabbriche, e a uno sputo da casa mia. Ieri sera nel parco dove stavano accampati da giorni i fan di Vasco a pettinare la loro vita spericolata e a far le cure per un fegato spappolato che non sapranno portarsi addosso con lo stile che richiede, impegnati a mangiare le penne fredde che la mamma gli ha messo nel contenitore di plastica ermetico. Ieri sera su quello spiazzo di ghiaia al buio e i camper dei punk con i cani e la musica che da sempre stanno qui e sono la possibilità di far due parole la notte quando porto i cani e mi sdraio sulla panchina del parco a respirare il fresco. Ieri sera con quell’odore di griglia che già arriva dal baraccone che montano ogni estate per ballare il liscio e mangiare le costine e i vecchi si mettono la cravatta e escono dai palazzoni e si accendono dispute e risse vere per le donne e per il vino. Ieri sera in quello slargo lì, vicino al paradiso delle gattare e a un passo dal campo da bocce e i tavoli in cemento con la dama pitturata sopra. Ieri sera con le quattro giostre quattro che stanno lì, gestite da un’unica famiglia di zingari e c’è il calcinculo, catenelle lo chiamano quelli che serbano pudore nelle parole, e l’autoscontro, macchina da scontri lo chiama Ste che nelle parole serba invenzione e anche per questo mi stordisce di meraviglia, l’ottovolante, che mi costringe a dire tutte le volte a voce di megafono “volante otto, recatevi sull’ottovolante”, e la macchina del pugno che se ho qualche problema all’articolazione del polso sospetto sia per gli strapazzi di una gioventù in cui il testosterone si misurava a caracche secche sul pallonazzo di pelle sgualcita di quell’oggetto infernale. Ieri sera con mio figlio e i suoi amici e con altra gente ci siamo dati appuntamento alle giostre, che già era buio e l’occhio doveva trovare misura della luce possibile, adattando la pupilla al pulsare delle intermittenze dei baracconi. Ieri sera c’erano i punk che mangiavano lo zucchero filato e i cani che son corsi incontro ai miei, che tra vecchi amici si è più felici di trovarsi quando c’è da far cagnara, la chiamiamo così a ragione, e non fa freddo. Ieri sera i romeni erano vestiti a festa e ridevano a sentire le grida delle femmine loro sul calcinculo e le gonne che svolazzavano a graffiare l’esordio di quest’estate minchiona promettevano voglie. Ieri sera io e Ste ci baciavamo seduti sul bordo della pedana degli autoscontri e ridevamo, che quando ci siamo incontrati io non avevo nemmeno una casa ma solo un vecchio Ciao e a ritrovarci lì c’era da dargli un cinque al destino. Ieri sera sono piombato su quel mondo in bianco e nero, su quella memoria di un Italia perduta e di periferia, con il mio Ciao già pronto per il viaggio, che tra due giorni attraverserò la pianura padana da Torino a Udine sincronizzando il motore e il respiro su un tempo che non esiste più, evitando le grandi città, dormendo in mezzo ai campi e fermandomi nei paesini a chiedere ragione di una vita che hanno smesso di raccontarci o che forse non esiste più. Lo vedremo. Ieri sera mio figlio e i suoi amici ridevano sulla giostra e anche noi stavamo lì sospesi nel piacere assoluto di quel fresco e di quelle parole leggere. Per tornare a casa ho ripreso il Ciao e l’ho acceso in corsa, saltandoci sopra come facevo da ragazzino. Mi sono voltato solo un secondo con un sorriso a Ste, che era il rinnovo di un patto notturno che quella sera s’era giocato le sue carte migliori. Il miglior tributo a quel regalo della macchina del tempo.
Poi vi racconteranno del degrado e della violenza e della disperazione della città ma sarà anche il caso che la smettiate di farvi raccontare la vostra vita, che ne siete gli unici titolari e questo dovrebbe bastare a farvi scendere in strada in una sera così. Non è l’arcadia, non è un mondo ideale, i sorrisi erano in bilico sulla maledetta necessità di resistere, ognuno a modo suo, ma ieri sera il tempo s’è fermato e per un momento ho pensato che il mio Ciao è magico, è più di quello che sospetto.
All’ingresso del parco c’è la casermetta dei carabinieri ma tutto quello che ho raccontato succede alle loro spalle e hanno la bella delicatezza di non voltarsi mai.



martedì 11 giugno 2013

Fare la differenza

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 mentre leggi fai andare il pezzo qui sotto.





Una storia che passa dalla storia. Del resto c’è da aspettarselo da uno come me, che mischia vita e mestiere nel gioco della memoria e del tempo. Mi sono inventato un lavoro in bilico su fotografie che muoiono ogni giorno un po’ alla luce che volevano rubare, lettere chiuse per decenni nei cassetti e di cui non c’è risposta certa, canzoni incise anche solo su un muro, film girati e da girare con i fotogrammi che portano il tempo del muscolo cardiaco del mondo. Troppe volte queste tracce della memoria, la bestia imprendibile che mi ostino a inseguire da bella parte della vita, mi hanno fatto prendere le misure alla mia storia personale, generando a volte dolore e divertimento ma anche veli di un disagio che non so concretamente restituire sulla pagina. Un imbarazzo narrativo che va oltre la misura lecita di quello che per patto stabilito ho scelto di mettere in gioco di me nel racconto corale che cerco nelle storie e per la storia. Un bagaglio emotivo che ti si apre all’improvviso in mezzo alla strada, regalando al mondo la misera intimità delle tue poche cose che credevi di poter celare.
Questa volta è andata peggio. Credevo di essermi irrobustito e pure un po’ sterilizzato all’emozione e al dolore che si genera dalla frequentazione delle tracce della memoria, chiamateli documenti se volete riguadagnarmi a un briciolo di dignità accademica ma sappiate che non ci tengo per niente. Sto lavorando da anni, ho delle pagine mie che lo testimoniano, al racconto dell’Italia del Miracolo economico, che già a chiamarlo così è chiaro che non c’era volontà politica e istituzionale a generare quella bella disposizione italiana dell’epoca a proporsi sui mercati internazionali con successo ma piuttosto si riteneva che la cosa era capitata per intercessione divina. Altro che mano di dio tesa verso le sue creaturine che brulicavano per la penisola  come i vermi del formaggio in quei giorni, con la guerra che era alle spalle ma ne sentivi ancora l’alito maledetto. Alla base del successo di quell’Italia lì, che già bussava alle porte della voglia di rivoluzione, c’era una manodopera a basso costo pescata dalla bella vocazione agricola di un paese disteso in mezzo al Mediterraneo e privo di materie prime, deportata nel triangolo industriale del Nord in massa.
Lavorando all’analisi dei flussi migratori degli anni Sessanta a Torino mi sono imbattuto in una documentazione tutta riferita agli archivi scolastici. A partire dagli anni Trenta, un po’ prima a ben vedere, erano state istituite in Italia le classi differenziali. Vi si avviavano gli alunni cosiddetti “tardivi” che avrebbero fruito di un percorso personalizzato per essere poi reintrodotti nella scuola ordinaria. A queste classi accedevano originariamente bambini affetti da problemi che venivano valutati da commissioni mediche e che passavano dal ritardo mentale all’ handicap fisico. Queste strutture potevano rivelarsi drammaticamente come l’anticamera del manicomio. Sto procedendo grossolanamente ma giusto per darvi il quadro generale della mia storia di oggi. Teniamo comunque presente che le differenziali, che accoglievano quelli che venivano definiti “falsi anormali” verrano abolite nel 1975. Insomma quando a Torino arrivano migliaia di famiglie meridionali la città non è preparata ad accoglierle. Si costruiranno rapidamente dei quartieri di periferia dominati da palazzoni tremendi ma sostanzialmente si tratta di ridefinire antropologicamente il capoluogo piemontese sulla base del radicale cambiamento e la città, le istituzioni, sono assolutamente impreparate. Se negli anni Cinquanta le classi differenziali a Torino erano una sessantina, a metà degli anni Sessanta sono 490. Cosa sta succedendo? Capita che i ragazzini meridionali sono dialetti, abitudini e santi patroni diversi che cadono tutti nel calderone ribollente dell’Italia del Miracolo. Capita che le famiglie meridionali, inseguite dai cartelli che minacciano di non volergli affittare quelle soffitte che giusto loro e la loro disperazione potrebbero abitare, vivano in condizioni precarie, maledettamente precarie. Capita che non è che arrivando in città si venga automaticamente assorbiti dalla fabbrica e ci sono centinaia di persone che conducono vite in bilico, che fanno i conti con una quotidianità in cui non c’è garanzia di quel pane che pure nelle preghiere si invoca. Capita che i ragazzini crescano in quelle periferie, nel caso torinese anche il fatiscente centro storico viene colonizzato, lasciati in mezzo alla strada mentre i genitori si misurano con il tempo maledetto della macchina produttiva. Capita che a scuola ci si vada poco e male e i compiti non si riescono a fare in quelle stanze ingombre di odori e rumori e voci e parole che non sono mai le stesse del libro, alla faccia del fare gli italiani. Capita che le maestre e i maestri guardino con ripugnanza, tutta testimoniata dalle relazioni dell’epoca, a quei poveri cenci che ricoprono i ragazzi e alla pelle macchiata da regimi dietetici poco mirati. Capita che i ragazzi rispondano male, vedendo nell’istituzione scolastica il riverbero di quel potere oppressivo che costringeva i padri ad affrontare l’alba fredda ogni giorno. Capita insomma che le classi differenziali, ricordiamolo ancora anticamera di esistenze tragiche e segnate, siano riempite di questi ragazzini portatori di un disagio di cui sono solo la voce più debole. E sfogliando le note con cui si condanna un bambino a ripetere l’anno alle differenziali leggo che il piccolo, si sottolinea con grande enfasi che è figlio di genitori separati, sa fare di conto e legge ma si atteggia sconvenientemente con i suoi dieci anni, avendo come riferimento, cito testuale, Celentano e i Beatles. La cosa potrà anche far sorridere e chi ora immagina questo piccoletto che gira per i corridoi della scuola cantando Yellow Submarine fa un errore grossolano. Dietro quella relazione scolastica c’è tutto un racconto complesso.

Anche l'abito fa il monaco; la blusa nera e i calzoni d'oltreoceano costituiscono una specie di immunizzazione morale di quell'esercito di gaglioffi.

Con queste parole il ministro di Grazia e Giustizia Guido Gonella tuona dalle pagine della rivista Oggi del 17 settembre 1959. Promotore di una legge mai approvata contro il teppismo Gonella si fa portavoce di una diffusa inquietudine che trova conferme in alcune pellicole proiettate nelle sale cinematografiche e sulle pagine di volumi come Giovani al doppio gin. I titoli dei giornali frequentemente segnalano con allarme che la situazione sta tragicamente degenerando. Il Messaggero del 27 maggio 1959 ai lettori sgomenti propone il seguente titolo:

Aggredisce per strada una signora tentando di strapparle le vesti poi va a giocare a flipper.

Il bravo cittadino, padre di famiglia, legge queste cronache recandosi al lavoro con il tram. "Mi chiedo, di questo passo, dove andremo a finire" mormora mentre attorno a lui altri scuotono la testa. E, ancora, destano preoccupazione le canzoni diffuse dagli infernali juke-box, antenati commerciali degli store on line dei nostri giorni, che consentono l'ascolto di un brani grazie alla moneta che si inseriva nell'apposita fessura. Cantanti stranieri, presto imitati anche dalle nostre nuove leve canore, con i loro brani si contrappongono alla consolidata linea melodica della canzone tradizionale. I testi poi, almeno quelli in italiano, sembrano un oltraggio sistematico alla morale. Una provocazione continua proposta lì a bella posta agli adulti che passano davanti a quei juke box con la fretta che quei giorni di esplosione della produzione e del mercato impongono. Siamo in pieno Boom economico, a metà tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, e l'Italia è ai vertici dei mercati internazionali. La produzione di elettrodomestici, l'industria automobilistica, il settore del petrolchimico e delle materie plastiche sono alcuni dei settori che decretano il successo italiano nel mondo. Tra il 1959 e il 1963, mentre nell'aria suonano i juke box, si quintuplica la produzione di autoveicoli. Nello stesso periodo un milione e mezzo di frigoriferi prodotti e 634.000 televisori ci raccontano che oltre alla produzione sono di certo aumentati i consumi. Fino alla seconda guerra mondiale, dalle cui tragiche macerie si cercava di rinascere in quegli anni, l'individuo era destinato sostanzialmente a dividere la sua esistenza in due fasi: il mondo dell'infanzia e quello degli adulti. A partire dagli anni Cinquanta i consumi vengono pilotati su specifiche categorie che, fino a quel momento, si può dire non fossero riconoscibili nel tessuto sociale. Le casalinghe sono le destinatarie di elettrodomestici e alimentari di produzione industriale, ma anche di riviste e cataloghi a loro espressamente dedicati. Attorno ai bambini si costruisce un fiorente mercato di articoli per l'infanzia, giocattoli, alimenti e manualistica riferita ai temi dell'educazione e dello sviluppo. La vera novità sono però i giovani. Fino alla seconda guerra mondiale, dalle cui tragiche macerie si cercava di rinascere in quegli anni, l'individuo era destinato sostanzialmente a dividere la sua esistenza in due fasi: il mondo dell'infanzia e quello degli adulti. A volte la prima fase era decisamente e drammaticamente ridotta per lasciare subito spazio al mondo del lavoro. I giovani si collocano dunque in una sorta di terra di mezzo tra queste due fasi temporali dell'esistenza. A partire da questo momento, i giovani, in tutto il mondo occidentale, diventato una realtà fortemente connotata. Vogliono parlare in maniera diversa dai loro padri, vogliono vestirsi e pettinarsi diversamente dai loro padri, vogliono leggere libri e giornali e ascoltare musica diversa da quella che ascoltano i loro padri, vogliono mangiare cose diverse dai loro padri, vogliono avere una vita sentimentale diversa da quella dei loro padri. E il nostro ragazzino finito nelle spire tragiche delle scuole differenziali? Agli occhi della commissione giudicante non c’è sacmpo per quel suo atteggiarsi seguendo il modello proposto da Celentano e dai Beatles, e ricordiamo che il Celentano di allora si scatena a Sanremo, sul palco sacro della tradizione canora, e s’agita scosso da movimenti pelvici gridando di ventiquattromila baci mentre la Pizzi è ancora lì a ringraziare per i fiori ricevuti e ad avvincersi come l’edera. In fondo alla relazione leggiamo RESPINTO. Chissà dov’è ora, con quei pochi anni più dei miei.
E poi ho letto le schede di ragazzine in sospetto di prostituzione, ed era il sospetto a turbarmi, e ancora giudizi che erano evidentemente la traccia tragica di menti segnate e contorte, quelle di chi giudicava.
D’un tratto occuparmi di storia e storie ha cominciato a farmi male, a ficcarsi in una piega profonda del mio vivere che forse non sopportavo. Per giorni ho ripensato a quel timbro in fondo ai fogli. RESPINTO. Era una cosa che sapevo misurare con bella memoria personale ma in quel caso era un oltraggio tragico alla possibilità che tutti dobbiamo spendere per dirci uomini.E mi sono ricordato che avevano chiesto ai miei genitori, io sono nato nel 1965, visto che arrivavo così da lontano, se non volevano che in prima elementare fossi alleggerito dalla pressione didattica frequentando le belle e simpatiche differenziali, sospettandomi di un dialetto e di un accento che nemmeno avevo ma che gli piaceva immaginare visto che lì di gente che arrivava dal sud non ce n'era e non gli sembrava vero di fare come nelle grandi città. Nel nome delle circolari che arrivavano in bisbiglio. Strategia da campo di concentramento. I miei rifiutarono e da allora mi bastava chiedere di andare al bagno per sentire la maestra dire "avete sentito ragazzi, loro il gabinetto lo chiamano bagno". Giusto perchè la differenza la volevano vedere anche forzando la realtà al loro delirio didattico.
Dovrebbero andare a cercarli adesso quei ragazzi che a migliaia riempivano le classi differenziali in quei giorni. Per chiedergli scusa. Ma non avrebbero nessun presente decente da offrire in riscatto e allora restano le storie e l’unico desiderio mio di ritrovarci davanti al bar d'abitudine, che stando al faldone e con buona pace dei dati sensibili è a un passo dalla casa di quel ragazzo di allora, per una birra insieme. Alla faccia delle categorie storiografiche. E per ribadire che io preferivo i Rolling Stones. Ce lo diremo come due Baradel, seduti uno di fronte all'altro mentre il vento non gira ancora.

sabato 8 giugno 2013

un nemico qualsiasi

questa storia la vorremmo raccontare in giro appoggiandola alle canzoni di Loris Vescovo, facendola vivere su un palco dove si muovono danze e immagini. è la storia di una guerra e di tutte le guerre, senza spazio e tempo ma tutto quello che si racconta è accaduto davvero e l'abbiamo ritrovato tra i documenti che accompagnano con dovizia di particolari la fine di una guerra che non è mai la fine della guerra. stateci vicini.


Da piccole mia nonna ci ha insegnato a distinguere il bene dal male attraverso i suoi racconti, che erano un intreccio fitto di parole a fil di voce, con le sue dita mosse nell’aria come mantidi tese ad afferrare la nostra attenzione. Il bene era tutto concentrato nelle storie di solidarietà, di lealtà, di generosità, di dignità, tutte parole con un accento che scoppia in fondo per dare clamore a quello che devono evocare. Il male era una massa densa e scura di gesti che andavano dal sorriso negato alla morte inferta. Ci voleva poco a capire che il marcatore del male, una sorta di prova del nove quando ti afferrava qualche dubbio etico, passava tutto dal dolore degli altri che avrebbe potuto essere anche il tuo dolore.



Uccidere, assassinare, strappare alla vita, colpire, tagliare, smembrare. Il delitto orrendo, quello maledetto di cui non ci si deve macchiare mai. Assolutamente. Questa idea ce la portavamo dentro piantata a cuneo, qualcuno canterebbe, tra l’aorta e l’intenzione. Sembrava una certezza incancellabile. Fino a quando s’è cominciato a parlare del nemico. All’inizio erano vaghe allusioni, più un dirselo per bisbigli, guardandosi attorno per vedere se ad ascoltare c’erano i più piccoli. In ragione del fatto che i bambini non sanno dominare la paura. Così si diceva tra adulti. Nei giorni successivi però il nemico s’è imposto nei nostri gesti quotidiani come una presenza carica di angoscia ma sempre con quel sospeso che non sai afferrare. Dentro, in fondo alla pancia, dove va a frugare la bestia fottuta della paura, scattava un meccanismo di difesa piuttosto elementare che ti sussurrava “vedrai che non è vero”.



Un giorno vidi il cane dei vicini precipitarsi su un uccellino, un nidiaceo caduto dal tetto e rimasto sul piazzale stordito e incapace d’essere volo. Il cane lo afferrò e in quel morso e in quello scuotimento c’era già il senso di una fine ineluttabile. Eppure corsi a vedere, negando l’evidenza di quella violenza, sperando di non trovare quella morte che già sapevo. Già… sperando. Sempre per quella difesa minima che possiamo permetterci quando è già difficile darci definizione plausibile del male.



All’inizio il nemico aveva forma di nebbia nei nostri racconti. Mai concreto, era da subito maledettamente cattivo, maledettamente efficiente nella sua pratica dolorosa e nell’altra valle dice che li hanno portati sulla riva del torrente e poi uccisi lasciando i corpi ad avvelenare l’acqua. Ma prima hanno bruciato, violentato, mutilato, deriso, rubato. A ogni nuovo racconto della stessa storia s’aggiungeva un particolare ennesimo, qualcosa che fino a quel momento non s’era riusciti neppure a immaginare. A riprova che anche con la fantasia il nemico ci superava. Una fantasia esercitata con la morte assegnata d’ufficio, ancora, una fantasia che noi non sapevamo eccitare nei nostri pensieri. Perché, ve l’ho già detto, l’assassinio era per noi il peggiore di tutti i peccati.



Ora sono mesi che questa guerra continua e non servono più i racconti, perché il fumo che si alza nero dagli altri villaggi lo sappiamo vedere anche senza indicarcelo con il dito puntato. Del resto tutti i racconti hanno perso la foga dei primi tempi. Ora quello che c’è da sapere lo leggiamo sulla faccia dei nostri che tornano. Le ferite sono sangue vero che azzera tutti i bastioni difensivi dietro cui abbiamo asserragliato i nostri pensieri. La realtà non lascia nessuno scampo ai dubbi. Non c’è più “sarà vero?”, sostituito da un lacerante “vorrei non lo fosse”. A darci conferma che anche da adulti dominare la paura è un bell’azzardo. E uccidere non è più una colpa incancellabile e la nostra regola più rigida si piega ogni giorno alla convinzione che monta dentro gli uomini del nostro villaggio. Uccidere non è più una colpa maledetta e basta, adesso è chiaro che la misura della colpa sta tutta nel colore del sangue che ora, mentre torni al villaggio, t'ha sporcato le mani. Ci sono i morti giusti e quelli sbagliati. Ci sono i morti. Quest'evidenza lacerante ci ha rubato i giorni e il respiro del sonno. Abbiamo paura di morire e paura della maledizione che i nostri uomini si portano addosso con il sangue dei nemici. Ci hanno fatto a pezzi. Ci hanno sbranato la libertà di non voler ricevere e dare dolore. La libertà appunto.



Poi i nostri uomini sono spariti. Non sono più tornati al villaggio. Al tramonto partivano e tornavano a giorno fatto. Restavano lì, buttati in un angolo a dormire con un respiro di cui avevamo paura di riconoscere l’alito. Le armi in piedi, appoggiate alle pareti, e i più piccoli che le spiavano in bilico sul divieto assoluto di toccarle, di pensarle, di sfiorarle. Gli uomini di giorno parlavano solo tra loro, a bassa voce. Mangiavano quel poco che si riuscivano a procurare le donne e poi dormivano. La nonna ci diceva di non fare rumore per non svegliarli ma noi avevamo visto mille volte i nostri padri, gli zii, i fratelli, i cugini e i vicini di casa buttati lì per terra con gli occhi sbarrati nel vuoto. Lo sapevamo che quello non si poteva chiamare sonno. E poi erano partenze e ancora ritorni. Quando li vedevano risalire verso il villaggio le donne da lontano tenevano il conto e cercavano di leggere nel passo pesante di quell’ultimo tratto di sentiero l’esito di quella notte ancora maledetta. I feriti già da lontano venivano valutati ma erano tornati e già era qualcosa. Poi c’erano quelli che non ricomparivano sulla strada del ritorno e vecchi e donne che piangevano di un lamento silenzioso, chè tutto ormai andava misurato sulla paura d’essere solo intuiti in quel lembo di terra che pensavamo nostro da sempre. Poi gli uomini, tutti gli uomini, hanno smesso di tornare e qualche donna ha preso le armi rimaste ancora al villaggio ed è stata inghiottita dall’orrore oltre la collina. E il fumo c’era sempre ma ora ne sentivamo anche l’odore.




Sono arrivati al villaggio la prima volta. Sono scesi dai camion e gridavano. Polvere sollevata e le poche bestie che correvano terrorizzate e bambini che piangevano. Tutti correvano senza sapere dove. Il prezioso contenuto delle pentole magre restava abbandonato al fuoco o rovesciato in terra e nemmeno i cani a lappare. Gridavano quegli uomini, coperti di panni tutti uguali e armi, molte più armi di quante ne avessimo mai solo sospettate oltre la collina. Non capivamo ma c’erano altri uomini, vestiti come i nostri, con la faccia e le mani come quelle dei nostri che non erano tornati ma non era un buon motivo per dimenticare. E poi c’erano quegli altri, come e peggio di tutti i racconti. Ce li avevamo davanti. Esistevano sul serio se esistevano quelle grida e la polvere e i bambini che piangevano. Erano pochi e davano ordini a quegli altri, gente come noi ma qualcosa ci diceva di non fidarci. Ci hanno radunati e qualcuno ha parlato nella nostra lingua. Volevano sapere dov’erano gli uomini, volevano che s’ammucchiassero le nostre provviste sui loro camion. Poi sono arrivati due di quegli uomini cattivi con la pelle chiara. Trascinavano mio zio. Era vecchio mio zio. L’hanno portato al centro dello spiazzo e hanno iniziato con le botte e non ci potevo credere a sentire quel rumore. Non lo sospetti fino a quando non lo senti che le ossa che si rompono hanno il rumore dei rami spezzati, della legna che si spacca alla fiamma la sera. L’hanno lasciato morto lì.




A volte non li vedevamo per settimane. A volte arrivavano e si fermavano qualche notte al villaggio. Mangiavano tra loro. Noi non esistevamo. Di giorno non esistevamo. Una sera vennero da noi mentre dormivamo con quel sonno che era stato dei nostri uomini che tornavano al villaggio. Mi trascinarono via. Mi portarono in una capanna e c’erano altre ragazze del villaggio. Ci strapparono i vestiti e nessuna gridava. Per la maledetta vergogna che nelle altre capanne capissero quello che ci stava per accadere. Sei soldati mi hanno afferrato e ridevano e puzzavano e si sono ficcati dentro di me e mi facevano male e graffiavano e mordevano e mi scavavano. Poi uno mi ha girata a pancia sotto e, con la bocca che mordeva la terra e mentre gli altri ridevano mi ha scavata ancora più forte e m’ha fatto morire le urla in gola. Ci hanno riportato all’alba alle nostre capanne. Nessuno mi ha detto nulla ma le donne sapevano. Lo sapeva anche il sangue che si raggrumava sulla tela povera di quello che restava del mio abito. E poi per altre notti, fino a farci andare da sole a testa bassa alle capanne dei soldati. A volte erano come noi, a volte erano quegli altri con la pelle chiara. Cattivi.




Un giorno è arrivata una macchina e sono scesi alcuni uomini che, a giudicare da come si muovevano gli altri, dovevano essere dei capi importanti di quelli lì, degli italiani. Già, a un certo punto avevamo iniziato a chiamarli così, senza idea di dove potesse mai essere la loro terra, la loro madre. Gli italiani erano lì e non si sapeva da dove fossero venuti. Una punizione certamente. Ci radunarono ancora e uno reggeva una scatola di latta che originariamente, ma non potevamo sospettarlo, era destinata ai biscotti. C’era scritto “Lazzaroni” su quella scatola. L’uomo che la reggeva l’aprì. Dentro c’era la testa di mio padre.





Quando arrivò, il respiro degli italiani arrivò dal cielo e si rubò il nostro di respiro. I gas, i gas, gridavano tutti e quante parole nuove avevamo imparato in fretta. Ma la fretta non bastò a nulla. L’aria degli italiani uccise la nostra aria e al villaggio dopo non restò che fare i conti con la polvere. E una vecchia scatola di biscotti di latta incrostata di sangue.