lunedì 29 agosto 2011

terramossa

"terramossa" diventa un racconto di piazza.
sabato 3 settembre ore 21 in corte morpurgo a udine giorgio olmoti e loris vescovo, che solo per sentire le canzoni di loris la serata vale la pena d'essere affrontata, in bilico tra storia immagini e narrazione.


Terramossa


Quella sera lì avevo dieci anni ma mi scappava di farne undici alla fine del mese. Quella sera lì alla tele davano la seconda parte di uno sceneggiato in due puntate intitolato “Le dodici sedie” e anni dopo imparerò pure che era roba pescata nel paniere della letteratura russa. Quella sera volevo sapere come andava a finire la ricerca di queste dodici seggiole rivoluzionarie. Quella sera ero arrivato a casa da poco. Proprio la prima volta che facevo tardi fuori, guarda certe volte, perché ero andato alla festa dei ragazzi al Bearzi, l’oratorio dei salesiani. Ben lontano da via Codroipo dove abitavo. A festa finita avevamo aspettato la mamma di un mio compagno di classe con la macchina e io ero stato scaricato davanti al mio portone giusto una mezz’ora prima di quello che accadde quella sera lì. Per tutto il pomeriggio ci avevano impegnato in giochi e gimcane e ancora mi ricordo la mela nel catino che la dovevi prendere con la bocca e le mani te le legavano dietro la schiena. A mezzo tra disneyland e “fuga di mezzanotte”. A casa mia aria di chiesa se ne respirava minima e quel loro divertirsi rinforzava la distanza che solo io percepivo. L’entusiasmo di certi animatori non m’aveva contagiato ma facevo la faccia di quello che s’era spassato, che altrimenti mi dicevano che ero uno che non partecipava. Quella sera lì avrei partecipato eccome ma ancora non lo immaginavo. Quella sera lì la bocca mi sapeva di uovo fritto e pane della Supercoop, comprato da mia madre che era inizio mese e solo dal venti in poi gli approvvigionamenti erano affidati a me. Arrivavo alla cassa e recitavo a fine conto il “paga la mamma” di rito. E quelli segnavano sul quaderno con incolonnate tutte le mamme impegnate a fine mese in faccende più importanti della spesa. Quella sera lì mio padre stava nudo sul lettone a leggere qualche suo strano libro di matematica o forse era la stagione di Voltaire o forse erano i giorni di Marquez o ancora Borges. Lui leggeva sempre e aveva i periodi come certi pittori, poi gli passava e cambiava argomento. Fumava e leggeva e soffriva il caldo. Quella sera lì c’era una temperatura che non era normale. Nella stanzetta della televisione c’ero io e mio fratello Andrea, anni quattro, ognuno padrone di una poltrona. Di solito ci toccava il divanetto con le doghe fatte col legno delle cassette di arance, che appena ti muovevi gemeva come la zattera del Medusa. Mia madre era in bagno, lei dice che era in vasca e ora se mio fratello e mio padre leggono gli viene da ridere. Quella sera lì erano appena passati i titoli di testa e un’altra testa, una capoccia micidiale d’ariete, pareva essersi piantata di colpo sulle colonne del nostro condominio. Uno scrollone al palazzo. Forse l’edificio stesso che prendeva vita. Mia madre gridò “il terremoto”. Questo è il terremoto pensai, cercando di classificarlo nella casella delle nuove esperienze. Suonarono alla porta. Erano i vicini, gente anziana simpatica, lui era un veterinario in pensione. Spaventati. Mia madre era andata ad aprire coprendosi alla meglio. Attraversai il lungo corridoio e li raggiunsi. In tempo per il ballo di quella sera lì. Si spensero tutte le luci e pareva che attorno si stessero tirando centinaia di piatti e bicchieri, rumore prevalente di cocci, almeno mi pareva, e buio e polvere a inchiodarti il respiro. Non finiva mai. Mio padre era corso da Andrea e gridava “state sotto l’architrave” e in elementi architettonici non ero ferratissimo e se mi avesse detto “addossatevi al peristilio” o “raggiungete i matronei” era uguale. Mia madre m’afferrò al buio, che le madri ti beccano sempre, e mi strinse forte. Passò una manciata infinita di secondi, mica una roba rapida. La scossa cessò e mio padre ci raggiunse all’ingresso. Chiese se c’eravamo messi sotto l’architrave come aveva detto lui. Io e Andrea eravamo ancora troppo piccoli per potergli dire vaffanculo tu e ‘sto cazzo di architrave che diccelo prima cos’è. Se ne rese però conto da solo di non averci adeguatamente preparato, perché da allora facemmo le prove anticatastrofe di tutti i tipi e a Eraclea l’estate facevamo le esercitazioni in pineta in caso di uragano, lo giuro, e ci legavamo ai pini marittimi. Mio padre è pazzo sul serio e nemmeno noi altri siamo tanto in bolla. Però è una follia domestica che non fa danno all’esterno. E fuori, all’esterno appunto, quella sera lì toccava proprio andarci, che l’ultimo a poterci cadere sulla testa, alla faccia di tutti i villaggi gallici dei fumetti, era il cielo. Raggiungemmo una panchina al centro di Piazzale Osoppo, a uno sputo dal portone nostro ma già con lo spazio attorno a garantirci dall’eventuale rovina di tutto l’edificato lì attorno. C’era la birreria Moretti che faceva certe pizze che erano un insulto all’idea prima che mi portavo dentro dal sud di quella pietanza. Però la birreria mi piaceva perché aveva il portico e d’inverno, la sera, senza una lira che fosse una, ce ne stavamo io, mio padre e mio fratello a giocare a calcio col pacchetto vuoto delle Emmesse dure. E pure con certi barattoli acciaccati alla bisogna. I portici della pizzeria erano anche le mie colonne d’Ercole, che arrivavo in punta e poi c’era da attraversare sulla curva che porta in viale Volontari, che sarebbero della libertà ma si taglia corto che quella parola non smette di gettare inquietudine. In pizzo a quella curva le macchine arrivavano col rombo e la tracotanza di quegli anni lì, col progresso che spingeva sull’acceleratore e per i pedoni non c’era pietà. Almeno adesso non è più questione di progresso che avanza ma piuttosto di controllo demografico e a fare la cernita sono rimasti il cancro e gli attraversamenti nel traffico e dice che di fame non si può morire e io glielo ripeto sempre a certi barboni d’inverno che si coprono di giornali e s’impegnano a incasinare il senso ultimo di questi nostri tempi. A cancellarci le certezze calde calde della televisione. Insomma quella sera lì erano le dieci e qualcosa e la mia famiglia se ne stava stranita con le altre, tutti avanzi di quel miracolo economico che avremmo voluto gustarci meglio ma che in quelle zone era solo arrivato per odori e fumi densi d’altre regioni, d’altri settentrioni. E i friulani, razza tenace davvero, s’erano dannati a partire ancora e quelli rimasti ora guardavano con apprensione le case, i condomini, il palazzone sopra il cinema Capitol con la galleria e le vetrine dei mobili di case che non avrò mai, il giornalaio con quel libro, “Le meraviglie della natura” che invece conservo ancora e che mi sono comprato coi risparmi di mille lire al mese per cinque mesi e parlo di una signora cifra per i tempi. Nella galleria c’era pure il bar, a oggi ancora esiste a differenza del cinema ingoiato dalle multisale e dall’affittafilm ventiquattro su ventiquattr’ore. In codesto bar ci andavo rarissime volte e si faceva cena con il toast e un bicchiere di menta con acqua naturale. Sul flipper c’era scritto “il gioco è severamente vietato ai minori” e nessuno sapeva spiegarmi perché e ora che son fatto uomo di lettere e ho rintracciato nelle carte d’archivio l’aspro dibattito parlamentare a cavallo tra Cinquanta e Sessanta per contrastare i juke box e i flipper, sovvertitori dell’italica gioventù sempre più attratta da quelli che il reazionario di turno, roba che con quattro partigiani e un sorriso alla willys carica di militi americani c’eravamo illusi di spazzar via, indicava come “calzoni d’oltreoceano”.
Quella sera lì di andare al bar non ne avevo voglia. Non ci pensavo proprio. Tutta la gente era pazzamente euforica, si giocava a scampata morte con gli uomini che facevano ironia a voce grossa da un capannello all’altro, da una panchina all’altra. E ancora non sapevamo che sarebbe bastato infilarsi in macchina e prendere viale Tricesimo e poi la Pontebbana per avere immediata certezza della tragedia. A qualche chilometro e passa da noi qualcuno masticava polvere e lacrime sotto le macerie e a qualcun altro già da masticare non gli restava nemmeno un’ultima bestemmia. Quella sera lì non me l’avevano ancora raccontato come si dice la morte a un bambino di dieci anni ma a tiro di qualche giorno mi sarebbe bastato sfogliare un giornale lasciato chissà come e chissà dove per vedere la foto di un amico mio di frequentazioni domenicali, che sporgeva dal calcinaccio col braccio dimenticato chissà come e chissà dove e il bianco dell’osso che s’era fatto bello del flash del reporter e riluceva oltre ogni ragionevole possibilità.
Quella sera lì se si rideva era roba d’isteria e il veterinario anziano che ho già raccontato che era il nostro vicino, fu preso da un guizzo a vedere mia madre che era scappata vestita di poco e si mise a gridare “anche col terremoto lei è sempre bellissima” e noi si temeva che all’anziano gli venisse un botto. Al veterinario gli volevo bene perché da grande mi sarebbe piaciuto fare lo stesso suo mestiere e lui mi raccontava del suo tentativo di introduzione in Carnia della pecora razza “gentile di Puglia” e conservo ancora la pubblicazione relativa. Quella sera lì a un certo punto salimmo sulle scale fino al nostro appartamento che era al primo piano. La luce era tornata e si voleva capire. Il corridoio era attraversato per lungo da una crepa che ci rendeva più confidenziale la coabitazione con i vicini che ora potevamo vedere dalle ferite del muro. Calcinacci dappertutto ma ricordo che dei piatti rotti non c’era traccia. Eppure ci avrei giurato al buio, durante i secondi infiniti della scossa, che tutto il nostro stovigliame stava finendo in terra. Invece era proprio il rumore del terremoto e dei mattoni che stridono uno sull’altro. Corsi in camera mia e nella veranda, che era lo spazio che mi si concedeva al gioco, constatai che danni ai soldatini e al pallone e al tirassegno colle freccette non ce n’erano. Tirai un respiro di sollievo vero. Tutto è relativo e a timbrare dieci anni quasi undici quella sera lì non significava prendere coscienza tutto insieme del senso della vita. Per fortuna. In quegli stessi secondi qualcuno aveva preso il crocefisso dall’altare della chiesa di un paese ormai cancellato e ringhiando bestemmie aveva trascinato il cristo a vedere quella rovina, che a tutto c’è un limite. E allora vorrei davvero spiegarlo il senso intimo della bestemmia friulana che se fossi dio la chiamata d’insulto di quella razza lì la sentirei un onore. Ma non voglio insegnare il mestiere a nessuno. Quella sera lì però me lo immagino che ai porci e ai cani e alle troie ma anche con maggiore fantasia al latte, al cantante e alla generica bestia gli fischiassero le orecchie dal tanto essere pensati e invocati.
Quella sera lì mio padre scese in garage, che si trovava sotto il condominio e solo a pensarlo che s’avventurava là, vicino al nucleo terrestre generatore del disastro sismico, mi si fermava il cuore. Invece riemersero sia lui che la 124 bianca, perfetta succursale mobile della nostra domesticità, adibita a tutte le funzioni del vivere nel corso di interminabili viaggi in cui io e mio fratello si dormiva a castello uno sul sedile e l’altro nel lunotto. Se ora vedessi mio figlio nello specchietto che mi sorride sdraiato nel lunotto mentre corro in autostrada mi verrebbe un colpo autentico. A quei tempi erano altri tempi e non c’erano caschi e non c’erano cinture e non c’erano le frecce d’emergenza e non c’era il catalizzatore e noi che non avevamo nemmeno l’autoradio si cantava a strappagola tutto il viaggio. A me m’è rimasto il vizio e devo alle nostre lunghe trasferte tutto un repertorio che va da “A sud di Quaccuavello” a “Borgo antico”. Nello specifico “A sud di Quaccuavello” è una delle innumerevoli canzoni da auto inventate da mio padre e dice circa “a sud di Quacuavello ruà de spagn farà la fest, a compr le sciolin, montar e seppellì” a ritmo di taranta indiavolata. Su “Borgo antico” trovate notizie pure in “Ragazzi di vita” di Pasolini e quindi non m’allargo troppo. Con questo fatto delle canzoni da viaggio mio padre mise in musica dei classici della poesia e noi strillavamo un twist sbarazzino su questo Valentino vestito di nuovo che era nella necessità di acquistare un paio di scarpe nuove e faceva una cordata di investitori con tutto il pollaio per un paio di mocassini ultimo grido. Così ho svelato il segreto di tutte le poesie che conosco a memoria e che fanno la meraviglia della redazione umanistica della casa editrice in cui lavoro. Con lo stesso trucco il genitore provò a trasferirci i rudimenti del latino e “morettina con che cuore tu mi lasci” divenne “parva nigra quocum corde te me reliqui” e solo anni dopo, leggendo non so come certe pagine lise di Pitigrilli scoprii che quelle strofe mio padre le aveva rubate bellamente. Ma, su tutte, grande successo ottennero i versi dell’”Ifigonia in Culide”, intenso poema epicogoliardico, che pure il genitore seppe dispensarci vincendo le proteste di mia madre. Quando molti anni dopo il reoccio del karaoke si cimentò nel gorgheggio di una canzoncina sui versi della nebbia che, come tutti sanno, agli irti colli piovigginando sale, mi venne il sorriso di quello che l’aveva sempre saputo. Per inciso, se vi salta in mente di cantare un sonetto del Foscolo tipo “A Zacinto” o “In morte del fratello Giovanni” piazzatelo sulle note della “Canzone di Marinella” e scorrerà semplicemente perfetto. Miracolo metrico.
Quella sera lì ci ficcammo nella macchina e già si benediceva i soldi versati al colosso torinese dell’auto di quattro anni prima, che avevamo fatto i sacrifici delle rate mangiando polpette di pane e traccia di carne ma ora avevamo un tetto di lamiera sulla testa che già era un bel vantaggio rispetto alla scarsa affidabilità che ispiravano le murature. Quella sera lì. E mio padre prese quell’unica strada che sapeva come un cavallino storno, maledetta reminescenza poetica, e ci trovammo davanti al cancello della caserma in via Brigata Re. La beffa stava tutta già nel fatto che la caserma si chiamava Osoppo e quel paese stava facendo i conti colla maledizione. Ma noi ancora non lo sapevamo. Non sapevamo un cazzo di niente di quello che era successo e stava succedendo. Mia mamma aveva portato le coperte e qualche genere di conforto, che quella donna lì se gli dai una zolla di terra pure ti tira fuori una cosa che la mangi e ti sembra la più buona del mondo. Entrammo nel piazzale enorme della caserma, luogo d’abitudine che la domenica spesso, visto che proprio a mio padre gli scappava di stare lì sempre e se affrontava il mondo esterno era solo per perdersi tra boschi e sentieri, portava anche noi e nel parco c’è un albero che è stato piantato il giorno che è nato mio fratello.
Quella sera lì dormimmo nel piazzale della caserma, lo stesso che in certe notti di guerra fredda si colmava di gente in armi e mezzi cingolati che tenevano i motori in temperatura, pronti a reagire all’attacco imminente del pericolo rosso confinante. Mio padre disse che andava a vedere come stavano le cose lì attorno e lo rivedemmo quattro giorni dopo, coperto di polvere e meraviglia, che a volte l’orrore ce l’ha il vizio di stupire. Le macerie. I primi a gridare disperazione erano stati i radioamatori e i musi dei camion s’erano puntati verso quelle onde sonore disperate. A fatica s’erano fatti strada fino a Venzone, Gemona, Majano. Li avevano trovati ancora seduti sulle poltrone, attorno alla tavola, a letto a far l’amore, con il sussurro sospeso in un piccolo pettegolezzo di paese, con le labbra ancora bagnate dal vino della sera che stava solo cominciando. Tutti morti, che quando si crepa così non c’è tempo di darsi un contegno e il solaio ti precipita in testa mentre stai cagando e mentre stai traducendo poesie arabe d’amore. Per questo conviene sempre tradurre poesie mentre si caga. Hai visto mai.
In quei giorni lì tutti perdemmo l’orizzonte dei nostri pensieri immediati, non c’era più scuola, non c’era più fabbrica, non c’era più bar, non c’era più incrocio per inchiodare e urlarsi dal finestrino. Di mio scoprii il Mars. La mattina certi soldati stranieri che non capivo e che erano lì per aiutare, iniziavano la giornata allungandomi una barra di cioccolato e mou, sostanza della quale ignoro a tutt’oggi la composizione. Volutamente, che certe volte è meglio non sapere. Resta il fatto che ogni volta che la vita m’ha presentato il conto e mi sono trovato a certe secche esistenziali e a certi scogli della pratica del campare, mi sono sempre aggrappato con disperazione a una di quelle barrette. E per lo stesso motivo quando cerco gentilezza bevo il cordiale. Mi basta davvero poco.
Il ricordo più vivo di quei giorni è la promozione in prima media senza fare gli esami di quinta elementare. Una sorta di indulto didattico che non finiva di riempirci di felicità. Ci ritrovammo a scuola e tutti saltavamo e gridavamo, sventolando la nostra licenza elementare, conquistata senza colpo ferire.
A Udine per i mesi successivi pareva di vivere in uno sgangherato campeggio. C’erano roulotte e camper e tende dappertutto e se uno comprava una macchina nuova la comprava buona per dormirci dentro.
La casa in cui vivo adesso, persa nei boschi sopra Attimis, in quei giorni lì venne giù completamente. A volte, mentre m’addormento, guardo il soffitto e ci penso.

l'oracolo di delfino


Al largo della spiaggia di Grado c'è una sorta di monumento pelagico, che può essere spiegato solo come l'ennesimo tentativo da parte dei gradesi di assecondare l'estetica delle genti germaniche che d'estate riempiono gli alberghi, i ristoranti le spiagge e i portafogli, proponendosi come fonte di reddito significativa per lgli abitanti della laguna. Non c'è arte, non c'è ragione, non c'è suggestione e non ci sono i delfini a largo di Grado. Altro sarebbe stato fare due sardelle di ferro battuto, che saltano dal flutto alla padella ma i delfini son cosa rara da quelle parti. Se però guardate come si propongono le pizzerie per tedeschi e i negozi in genere, già vi fate una ragione di quell'apparecchiatura in cresta d'onda. In ogni caso i delfini fronteggiano la spiaggia libera, quel bordo di muraglione senza legge dove si raduna una scomposta umanità e quindi sono stati intesi come una punizione per chi non porta reddito o forse come una proposta democratica che suona come "non avete nulla ma potete godervi la vista di 'sti popò di delfini in metallo verniciato". Manco a dirlo che io Ste e Orso siamo bagnanti di quella sponda povera e, in questi giorni che il caldo ci squagliava anche nel nostro bosco, di primo pomeriggio calavamo sulla laguna e restavamo in acqua fino a sera. Un giorno, era già quasi il tramonto, guardo verso la rutilante proposta metallica dei delfini che non smette di ricordarmi il luna park di Coney Island nelle ultime scene de "I guerrieri della notte" e vedo un ragazzo sedutto sul delfino, memoria cinematografica e anche strascico di arte antica che mi si rinfaccia come il panino colla mortadella che avevo appena finito di ingurgitare per combattere il caldo da pari a pari. Accanto al ragazzo c'è un volatile ma a quella distanza non si capisce bene."Restate qui" dico agli altri e a bracciate rilassate mi avvicino per capire. A un centinaio di metri dal monumento mi metto a nuotare lento a rana per non disturbare la scena. Il ragazzo siede vicino a un grosso cormorano che non è per nulla infastidito e gli becchetta la spalla. Altri si avvicinano ma restano a debita distanza. Io arrivo ai delfini e il ragazzo mi sorride "Viene sempre qui al tramonto. Gli piace giocare in acqua" Si tuffa e il cormorano lo segue. salgo sul delfino. Pensavo che fosse un uccello allevato dal ragazzo e invece mi spiega che son solo tre gorni che succede. Se nuoti sotto un delfino di ferro alla cui cima sta appollaiato un cormorano, una perfetta macchina da guerra marina con un lungo becco a rostro e con il corpo che per aereodinamicità e ergonomia diventa in un lampo un vibrante arpione, a un certo punto pensi "ora salta e mi si pianta nell'occhio" nel mio caso pensi "... nell'occhio buono" e vieni travolto da tutte le immagini sedimentate in mille film di conigli, pesci e api assassine. Poi sali sul delfino e ti tuffi e risali e capisci che è magia, è privilegio. Lo tocchi, ti becca, non ha paura. A un certo punto un deltaplano a motore lo distrae e non si cura di te che gli gratti le zampe palmate munite di grossi artigli.Il giorno dopo siamo tornati e del cormorano nemmeno l'ombra. Comincio a sospettare sia stata una balla del ragazzo e invece al tramonto arriva. Dani si è portato le pinne, le mie pinne numero quarantacinue per la santa precisione, e fila in acqua come un piccolo impavido rimorchiatore. Si è rifiutato di mettersi il giubbotto salvagente della canoa. Ci vuole arrivare con le sue forze. E anche a lui il cormorano regala una mezz'ora indimenticabile. Quando torniamo a riva a quelli che ci chiedono non abbiamo niente da raccontare. Capita alle volte che lo stupore ti rubi tutte le parole.



giovedì 11 agosto 2011

Dio c'è


 E l'altro giorno camminando per la repubblica di Infradito, territorio inevitabile di questo mio agosto nomade ho trovato la scritta "Gesù sta arrivando". Una notte a Ivrea a vevo fotografato dei bigliettini appiccicati in giro con la medesima frase e poi a Torino, su via Nizza, tra la gelateria e il cavalcavia da fare col Guzzi di notte in quarta piena, che ognuno ha i riferimenti che si cerca, di nuovo. Stavolta a bomboletta. Ora a seicento chilometri di distanza la scritta mi si palesa a bordo lago e la leggo dalla canoa. Arrivo dai canneti e folaghe e germani e un paio di aironi mi si sono svelati come la conferma che il paradiso c'è già e ad aspettare si fredda che è poi il senso ultimo di questa mia ossessione per la vita, per il sesso e per il respiro. "Gesù sta arrivando" buttato tra un Juve merda e un "mirko e shilla tre mt. sopra il celo" non è un problema ma proposto con insistenza è strategia. con supporti diversi per giunta. ma chi sono e soprattutto perchè ritrattano. Qualche anno prima trovavi scritte perentorie che trasudavano certezza. "Dio c'è" a bomboletta sui viadotti e sui cartelli stradali. Niente di paragonabile col mistero vampirico di "Emoscambio" e neppure con la scritta "Valdazze" che per una ventina d'anni ha addobbato l'appennino tosco emiliano. Però c'era per tutta la penisola e io me ne intendo di tutta la penisola e addirittura una mia vecchia zia mi aveva spiegato che era un messaggio cifrato per i drogati che voleva dire "Qui c'è la droga". Come un toxicgrill. Come la macchina dei pompini che una notte si voleva brevettare. Però passare da "Dio c'è" a "Gesù sta arrivando" è ammettere la sconfitta. E chi sono questi che scrivono. Sarà il sole di oggi che picchiava sulla canoa, sulla testa e sul lago. 



Certe strade bisognerebbe vederle. I tornanti che non finiscono mai, il caldo e il freddo, il freddo e il caldo e non sapere mai come vestirsi. Il riscaldamento della macchina lo evito, visto che dalle bocchette escono i fumi del motore.
Quelle altre poi, le strade lunghe le chiama lui,  larghe per correre, con i viadotti e i cartelli verdi, a volte blu. Sempre un lavoraccio.
La macchina gliela passano quelli del ministero e lui non ha che da presentarsi alla sede centrale alle ventunoetrenta, firmare il registro e uscire con gli altri. Con i colleghi poche parole, che a essere Servizi di Stato così Segreti ci si guarda sempre con sospetto. Basterebbe una parola di più e ciao lavoro.
La Uno Van e' diesel e dentro c'è tutto quello che può servirgli. di suo ha aggiunto una fiaschetta col cordiale, anche se non si potrebbe, e una macchinetta fotografica, che proprio non si può. In realtà da fotografare c’è ben poco, visto che tocca lavorare sempre al buio e quel flashetto incorporato serve a poco e niente. Giusto all’alba, mentre torna verso casa, gli scappa un paesaggio, sempre con quella dominante azzurrognola e il cielo rosso. Entrando a casa butta i rulli riavvolti nella borsa verde di cordura, senza svilupparli mai. Con gli anni molte strade ha imparato a conoscerle e ora il suo è, come si dice in gergo, un “lavoro di mantenimento”.
Stanotte però gli hanno dato una zona nuova. Segue alla lettera le istruzioni consegnate in segreteria. Mille e mille volte ai corsi di addestramento gli hanno ripetuto che tutto è frutto di attenti studi e l’approssimazione deve essere bandita.
La strada sale su tra i boschi e si perde nel buio. Guida piano per non schiacciare i ricci e ancora si ricorda di quella volta sulla Romea che c’era rimasto malissimo.
Arriva al punto prefissato. Il contachilometri parziale, azzerato come da istruzioni alla tripletta di Musanello, segna nove. La descrizione del posto corrisponde. Per non lasciare la macchina in curva supera il punto stabilito di qualche metro. Apre il portellone e cerca nella scatola delle bombolette. Il colore è sempre lo stesso da anni, per la gioia di chi è riuscito a piazzare una invendibile partita di vernice nitro. Meglio non chiedere. Sia come sia, questo colore di merda, questo blu depresso gli tocca ricordarselo ogni volta che si guarda le mani che, dai e dai, il pollice della destra non è più tornato all’originale. Agita la bomboletta. Tic tic tic.
Cammina a passi lenti verso il muro. Novanta centimetri dal cippo. Butta la cicca a terra, di lato. Scrive.
                                          

DIO C'E'

Due passi indietro per vedere, alla luce della torcia, com’è venuta. Al corso gli hanno insegnato a modificare sempre lo stile e lui sente di essere davvero bravo. Martedì avrà diritto a tre giorni di riposo.