mercoledì 7 febbraio 2024

zundapp cuore e acciaio

 




Alle elementari quelli come me, nati nel picco di incremento demografico scatenato dal Miracolo economico, facevano i doppi turni e a me toccava andare a scuola il pomeriggio. Fottuto dal freddo percorrevo tutta via Caccia fino alla Ippolito Nievo trascinando i piedi tra i mucchi di foglie secche degli enormi bagolai che bordavano la strada. Mi avviavo con l’entusiasmo del condannato a morte che percorre il miglio verde verso la classe e la maestra. E in via Caccia c’era e c’è ancora un negozio che vende biciclette, proprio a pochi passi dal campetto dove giocavamo a pallone e dove poi hanno costruito un palazzo con il progetto di un architetto prestigioso e con i materiali con cui si fanno i castelli di sabbia al mare e dopo pochi anni la struttura si è sbriciolata come il pane carasau. Prima di arrivare al negozio di biciclette, se spuntavi da via Passariano dovevi guardare bene se il cancello della vecchia era aperto perché in quel caso il cane merda si sarebbe lanciato contro di te cercando di strapparti un polpaccio a morsi. Il botolo in oggetto era un bastardino bianco e nero che noi chiamavamo Mordeo e che aveva quella attitudine nevrile tipica dei cani troppo assillati dalle vecchie. Bene o male si arrivava davanti a Burra il biciclettaio e in vetrina c’era sempre lei, la maledetta moto da cross in scala ridotta uso bambino. Con motore e carburatore e miscela al due e ruote artigliate. Un sogno vero e proprio. Restavo fermo a guardarla per lunghissimi minuti e immaginavo che sarei arrivato prima o poi alle collinette con quella moto piccola e avrei sfidato quelli grandi con il Caballero truccato e Elisabetta 2, la chiamavamo così perché in classe c’erano tre Elisabette, mi avrebbe baciato. A ben vedere ero brutto anche da piccolo e difficilmente arrivando con la motoretta del nano del circo avrei avuto una possibilità minima di successo ma sognare è sempre lecito. Poi è venuto il tempo della prima e ultima comunione e andavo alla San Quirino a fare catechismo e mi preparavo a quella cosa della confessione dei peccati e alla particola, che è come la buccia del torrone ma più sacra A dire il vero mi preparavo ai regali, soprattutto ai regali. E mio padre a un certo punto mi dice che per la comunione mi regalerà quella moto lì. Ci credeva davvero, mio padre non era un caciaballe, e ci credevo anche io. Siamo andati anche sul Torre a immaginare un circuito da cross che avremmo fatto per imparare a andare sulla moto. Mio padre all’epoca girava con un Guzzi Superalce e ci andava nei posti più assurdi. Insomma io a quel punto passavo davanti alla vetrina e quasi non guardavo perché non volevo rovinarmi la sorpresa. Poi s’avvicinò maggio e la comunione e arrivavano un sacco di parenti e c’erano spese e soprattutto il vecchio televisore aveva fatto un ultimo lamento di morte e s’era spento per sempre. Mio padre una sera si siede con me in cucina e mi inizia a fare un discorso dopo aver fatto i suoi conti nel quadernetto. E mi dice che lui le promesse le mantiene e se voglio la moto la compriamo però ci sarebbe quella storia del televisore nuovo e forse si potrebbe comprare quello al posto della moto ma dovevo decidere io. La moto era solo per me, il televisore era per tutta la famiglia. Costavano più o meno la stessa cifra. Rimasi pietrificato alla luce del neon della cucina a fissare mio padre. Un privilegio personale o un bene comunitario. Lì si stava facendo un uomo. Scelsi il televisore e simulai anche entusiasmo e il sabato andammo alla Mofert a comprarlo. Con il nostro budget portammo a casa un apparecchietto bianco con l’antenna, un comodo portatile diceva mio padre, che prese il posto dell’altro e che occasionalmente mi camallavo nella mia stanza per sentire tutto il privilegio di essere il principale azionista del sistema mediatico di casa mia. Per tantissimi anni quello rimase il nostro televisore e intanto c’era stata l’esplosione delle televisioni private e dovevi avere l’antenna sul tetto del palazzo, ognuno la sua mica la centralizzata come adesso, per vederle. Noi l’antenna non ce l’avevamo e ci arrangiavamo muovendo le antennette, una a cerchio e una telescopica, del nostro apparecchio dei puffi. Ogni sera si doveva trovare la posizione migliore e spesso aggiungvamo oggetti metallici e altro per migliorare la sintonia. A volte mio padre dava dei ceffoni alla tele per regolarla meglio, allora si usava così. Sta di fatto che nelle televisioni private facevano vedere i cartoni dei robot spaziali e io e mio fratello non riuscivamo mai a partecipare alle discussioni robotiche in cortile. Era un mondo complesso e affascinante ma noi eravamo tagliati fuori. Già vedere il porno dell’epoca la notte su Tele Capodistria era faticosissimo perché vedevamo solo il disturbo e sentivamo vaghi mugolii interrotti da scariche e fulmini ma i robot, quelli proprio non si vedevano. Così a un certo punto io e Andrea, mio fratello, ci siamo inventati Zundapp. Era un robot potentissimo chs i vedeva su un canale della Lombardia ma noi riuscivamo a prenderlo. Ne faceva di cotte e di crude e io e mio fratello ogni pomeriggio incantavamo gli altri in cortile raccontando di Zundapp. A un certo punto anche altri hanno cominciato a dire che vedevano Zundapp, è lo stesso meccanismo di Mediugorje, e alla fine Zundapp era il preferito di tutti e non ce n’era per nessuno. Il nostro palazzo, pieno di quelli del boom demografico, tutti con quell’odore di piedi e Big Babol addosso, vedeva ogni pomeriggio Zundapp e poi ce lo raccontavamo.

Ah già, Zundapp esiste ma non è un robot, è il nome di una marca di moto e se passi davanti alla vetrina lo leggi bello chiaro sul serbatoio metallizzato. Forse ancora oggi.