martedì 29 aprile 2014

Di me e della mia vita appoggiato ai banconi






Nella roulotte la luce del sole è già entrata da diverse ore. Zaff si rotola nella sua cuccetta e l'odore del caffè che gorgoglia nella macchinetta da quattro, non sembra di grosso stimolo per il suo risveglio. Ziff sta seduto sulla porta, con i piedi che poggiano sul gradino metallico che dovrebbe agevolare l'accesso a quella specie di casa ma che, visto lo stato d'usura e ruggine, funge da antifurto. Nessun ladro rischierebbe il tetano per due marumi.
La notte è trascorsa in un confuso intreccio di eventi e Ziff ha la fronte solcata da rughe recenti.
Mentre medita, smangiucchia il bordo di una piadina con l'alacco, l’unica cosa quasi commestibile che sia riuscito a trovare negli stipi sgangherati della roulotte.
Di fronte a lui la scena di sempre. Si replica.
Teddy Danubio, divo canoro sconosciuto al successo, esce sulla strada polverosa fasciato dal suo completo bianco con i pantaloni a zampa di triceratopo, gli stivaletti in plastica forellata e il mantello con le frange. Attraversa lento lo spiazzo fino all'entrata di quello che lì, pomposamente, chiamano bar e che altro non è se non un vecchio e malandato stand, reduce di antichissime feste dell'Unità.
Teddy si guarda attorno con gesti misurati dall'abitudine. Rimane sospeso una frazione di secondo, tutto calcolato, poi si decide e entra.
Al bancone, come tutte le mattine, c'è Valerio Mascella che asciuga bicchieri con una mano, versa Zabov con l'altra e regge un mozzicone di sigaro con l'altra. A guardarlo bene i conti non tornano ma da quelle parti la soglia dell’attenzione per certe cose non tocca mai quote particolarmente alte. Valerio ai lati della testa ha perso tutti i capelli e gli rimane un'unica, grossa treccia azzurra sulla fronte.
Tra le sedie, Ramolino spolvera senza grosso impegno, evitando di svegliare l'Operaio, che da sette anni dorme con la testa appoggiata al tavolo vicino al telefono a scatti. Nessuno sa chi sia e non c'è nulla che lo possa identificare, se si esclude la vecchia tuta sporca di grasso. All'inizio hanno provato con scossoni, fischi, rutti e imprecazioni, ma lui non ne voleva sapere e alla fine è diventato parte dell'arredo. Questa mattina il vento fa vibrare le pareti di lamiera e il bar è quasi vuoto, visto che quei pochi che nella zona lavorano se ne sono già andati da un pezzo e gli altri tanto vale che rimangano ancora a letto. Ci vorrebbe un sottofondo musicale almeno un tantino allegro ma l'autoradio trasformata in juke-box non funziona perché l'idrogeno si è esaurito.
Se ci fosse una porta, in questo momento sicuramente cigolerebbe, ma all’entrata ci sono soltanto delle striminzite fettucce di plastica, masticate ad altezza bambino.
Teddy Danubio entra, lento come un pistolero o come il treno Matera Bari e viceversa. Quando Ramolino lo vede, smette di far finta di spolverare e corre nel retro. Valerio Mascella cerca di non tradire l'emozione e versa disinvolto dello Zabov sul sigaro che ha in una mano, mentre con l'altra regge un bicchiere sporco che cerca di fumare a grosse boccate. La treccia gli balla sugli occhi e una sudarella gelata gli inchioda la schiena più veloce di quelle potenti colle che non fai a tempo ad aprire il tappo e già il tubetto fa corpo unico con le tue dita. Per sempre.
Teddy Danubio si accosta al bancone, mette la mano alla tasca, sfila un pettine tartarugato che con la forfora e i resti di brillantina sguscia tra le dita come un'anguilla. Guardandosi nello specchio tra una bottiglia e l'altra, si pettina, bagna le sopracciglia con abbondante saliva, fa un paio di facce da duro, ravviva, sbarazzini, i peli che si intravedono nell'ampia sbottonatura della camicia. Da ultimo, alza il colletto e si volta per andarsene. È allora che, come del resto tutte le mattine di quegli ultimi venti anni, Valerio Mascella, che fino a quel momento è rimasto a guardare con tutte le mani tremanti, esplode.
"Stronzo di un morto di fame pappone di tua madre, pezzo di merda catarroso e nero di un boia ladro infame e doppiopettoblu, rottinculo fattinbocca da quattro soldi che a sputarti addosso c'è da schifarsi! Quando cazzo ti deciderai a fregare uno specchio come tutti. Bello lui, entra, si pettina, fa i suoi porci comodi e mai una volta che faccia un'ordinazione. Se ricapiti domani ti stacco quel ciuffo e..."
"Calmati Valerio, lo sai com'è fatto, non vale la pena avvelenarsi il sangue per queste cazzate" interviene Ziff che è entrato, non tanto per godersi lo spettacolo in replica, quanto piuttosto per bere un Taffer che lo aiuti a digerire la piadina con l'alacco.
"Sarà meglio che da queste parti non ci ricapiti più, stronzo" continua Valerio "certo, lui è un divo del microfono, il genio della chitarra. Sai dove te lo metto il microfono..."
Valerio non finisce la frase e si volta verso l'entrata. Riflesso nello specchio ha inquadrato uno strano tipo. Perlomeno curioso. È rara cosa, in questa sconsolata periferia, riuscire a vedere un personaggio come quello. Si tratta di un ometto vestito con un completo grigio di cattiva fattura e che abbottona male, con un cravattone pesantissimo verde smeraldo cangiante e, a completare l'opera, un paio di occhiali della mutua. Le maniche della giacca e della camicia penzolano ben oltre il polso e il risvolto dei pantaloni finisce sotto il tacco dei mocassini con la frangia e i carciofini. Non è comunque l'abbigliamento ad attirare l'attenzione dei presenti sull'individuo. A guardarlo bene si capisce subito che è un poverocristo come loro. La nota stonata è quell'aria particolare.
"Indifeso" pensa Ziff ad alta voce.
"Cosa dici?" Valerio ha sentito benissimo ma non sopporta che gli si rubino i pensieri.
"Che strano tipo indifeso" incalza Ziff "sarà meglio avvertirlo di stare attento. Da queste parti, uno con la sua faccia, non respira per molto."
"Io mi faccio i cazzacci miei" Valerio espone con disinvolta finezza la sua visione del mondo "basta che beva qualcosa, poi per me può anche farsi ammazzare, pisciare nel posacenere, addirittura pettinarsi."
Il tipo è gravato dal peso di alcuni grossi volumi. La cosa sembra costargli un certo sforzo. Le copertine recitano attraenti canti delle sirene in quel caffè di fini intellettuali: Le Meraviglie del Mondo Sommerso, l'Enciclopedia del Bricolage, l'Universo Sconosciuto, i Programmi della Televisione per i Prossimi Trent'Anni.
L'ometto si avvicina a un tavolo e posa i volumi. Il tavolino, a cui manca una gamba, si ribalta con fragore e i libri cadono nella polvere, che è così spessa che sembra di camminare su un campo da tennis. L'Operaio, scosso dal clamore, alza la testa dal tavolino e guarda l'orologio, che nel corso degli anni ha studiato da contachilometri e se n'è andato dalle parti di Arese a convivere con una meridiana ombrosa ma piena di soldi. La cosa non scompone minimamente l'Operaio che, dopo aver consultato il polso nudo, si alza, va verso la cassa, paga, chiedendo lo scontrino a un Valerio che definire stupito è poco; infine esce e a poco a poco scompare verso San Pennacchio.
Intanto il buffo ometto dei libri ha raccolto la sua mercanzia e l'ha appoggiata alla peggio sul bancone.
"Una camomilla, per piacere."
A Valerio pare che, per quel giorno, nulla più possa stupirlo. Si è perfino già dimenticato di Teddy Danubio.
"Una camomilla come?" Valerio interroga lo strano personaggio guardandolo con occhi torvi, resi strabici dalla lunga treccia che continuamente gli balla sulla fronte.
"Una camomilla..." l'ometto esita con la paura di fare una brutta figura "...una camomilla bestiale."
È difficile calmare Valerio. In un accesso di riso convulso scivola sotto il lavandino e viene soccorso da uno scarafaggio.
Intanto l'ometto, rosso in volto, è andato a sedersi a un tavolino sano e si tiene la testa tra le mani. Ziff viene preso dall'impulso irresistibile di andare a sedersi vicino a lui. Pensato e fatto.
"Scusalo, fa così ogni volta che gli si chiede una camomilla bestiale" cerca di minimizzare Ziff "posso chiederti cosa fai da queste parti?"
"Vendo enciclopedie."
La cosa è ancora una volta molto comica, ma il tono dell'ometto fa passare la voglia di ridere a Ziff.
"Scusa se mi intrometto negli affari tuoi, ma questo non mi sembra il posto giusto."
"C'era questa zona da coprire e, visto che nessuno la voleva, l'ho presa io. Tanto per me, finché dura, una cosa vale l'altra."
"Cosa intendi dire."
L'ometto si chiude a riccio, diventa rosso e comincia a dondolare la testa. Si vede che ha voglia di parlare con qualcuno ma non sa da dove cominciare. Ziff è quello che gli ci vuole. Dopo un bicchiere che, passate le prime reticenze, trova buona accoglienza nello stomaco dell’ometto, l'atmosfera si rilassa e, un poco alla volta, il tipo prende a raccontarsi, come del resto succede a tutti quelli che parlano con Ziff.

Ma questa è un'altra storia, com'è sempre un'altra storia.





lunedì 14 aprile 2014

Sopravvincere





Forse l’ho già detto ma piuttosto che andare a rileggermi tutto mi ripeto. Quando c’è stato il terremoto in Friuli, sei maggio del millenovecentosettantasei, non avevamo più una casa perché la proprietaria, una che da piccolo mi faceva paura, aveva approfittato del casino e diceva che lei era in stato di necessità e non aveva più dove andare e le serviva la casa e noi in strada. Due mesi dopo il nostro appartamento è stato venduto alla regione e dentro ci hanno piazzato degli uffici. Bastardi. In ogni caso per mesi la gente ha vissuto per strada e noi, senza casa, non davamo tanto nell’occhio. Però i miei per farmi vivere meno il disagio di quel campeggio infinito, che a me piaceva molto, mi hanno mandato a Torino da Giovanni, che viveva in Corso Marconi in una casa che era davvero un campeggio perenne. Mi sono divertito parecchio e Giovanni che non sapeva esattamente come si gestisse un bambino di undici anni mi ha dato le chiavi di casa appena arrivato e i soldi per un panino, consigliandomi vivamente il buffet della stazione di Porta Nuova e raccomandandomi di portargli un qualche cibo pure a lui. In quegli anni stava incasinato con le donne, il lavoro e tutto. La sua casa era piena di libri di fantascienza, piena di libri in generale ma in quello già casa mia marcava bene. Lui aveva tutti quegli economici favolosi e ciancicati e io me ne andavo in balcone a leggere e a tenermi dentro una fame eterna. La mattina uscivo e giravo per Sassalvario e c’erano le puttane a tutte le ore e io proprio in quei mesi cominciavo a pentirmi di non aver prestato grande attenzione a quella bambina che d’estate insisteva per mostrarmi il culo in cambio di una sbirciata al mio pisello e io l’accontentavo e me ne restavo lì a fissare quelle chiappe come un televisore spento. Però quelle puttane lì più che proiettarmi nella nuova dimensione erotica prepuberale mi sbalzavano indietro all’infanzia più buia, quella delle megere delle favole che chiudono i bambini nelle gabbie per ingrassarli e venderli ai comunisti. Giovanni stava in uno degli ultimi condomini di Corso Marconi, dalla parte del Valentino e sullo stesso marciapiede c’era un canaro, che vendeva pure gli animali e io passavo e guardavo dalla vetrina questo tizio che cotonava i barboncini e pensavo al buon soldato Sc’vèik che avevo letto nell’edizione Feltrinelli con la copertina gialla. Trovato a casa di mio padre. Ad Anzio. I canguri, era il nome della collana ma era anche il nome che gli davo io per capirmi con mio padre e credevo fosse una cosa del nostro lessico familiare e quando anche oggi vedo un Feltrinelli col marsupiale a simbolo penso che ci hanno copiato l’idea. In quella serie ho letto anche il compendio del capitale di Cafiero ma solo per ritrovare le atmosfere dei racconti di mio padre che mi descriveva questo nobile pugliese rovinato dall’idea. Avevo dieci anni e se vi dico che tutto mi era chiaro mi cresce il naso. Senza contare che sospetto che mio padre quel libro lì non l'abbia mai letto e tutta la storia che ci montava sopra deve averla rubata al Bacchelli del diavolo al pontelungo. Questo però l'ho sospettato solo da grande e mio padre è uno che racconta un sacco di storie e a volte cade in contraddizione ma io me lo imparo a memoria pure ora che sono cresciuto e a tavola gli rifaccio il verso e ridiamo. Come al solito esco dal tema. Dicevamo che bighellonavo davanti alle vetrine della toelettatura per cani e avevo questa fissa per gli animali e per i libri di animali e per i negozi di animali e volevo fare il veterinario e quando mia mamma m’ha detto che dovevo laurearmi ho pensato che era meglio fare il guardiano dello zoo. M’avessi ascoltato da piccolo. A questo punto mi gioco l’asso nella manica che convincerà anche i più dubbiosi che a me devono darmi le chiavi della città di Torino, che da sempre sono stato attento a tutto quello che accadeva, pur senza viverci, e svelo che da piccolo frequentavo molto il giardino zoologico e rimanevo un sacco di tempo a guardare l’ippopotamo con la bocca spalancata. Un giorno Giovanni mi ha telefonato, anzi l’abbiamo chiamato noi dalla cabina, che credo che siamo stati l’ultima famiglia italiana a mettere il telefono in casa e io chiamavo sempre dal telefono del pronto soccorso del Policlinico che era vicino. Insomma Giovanni mi dice questa storia che l’ippopotamo è morto perché una bambina gli aveva scagliato il Cicciobello nelle fauci spalancate e quello si era sentito male che, a dispetto della mole, sono bestie delicate e, siccome io non mi ero laureato veterinario, non s’è potuto fare niente. Ci sono rimasto male e approfitto per dire che mi piacerebbe conoscere quella bambina che sarà a spanna mia coetanea e la guardo in faccia e dico ma perché gli hai lanciato il Cicciobello e già me l’immagino che quella dice che si era spaventata e io le credo. A quell’epoca una bambina col cavolo che si liberava così dell’ambito bambolotto. Magari era Cicciobello Angelonegro che aveva avuto meno successo e allora è un altro paio di maniche. Ora, con la cosa del razzismo, non lo possono produrre, che dovrebbero dire Angelonero e sembra una roba da film horror che evoca morte e devastazione. Per capirci andate a leggervi l’Apocalisse e i cavalieri della medesima che ne combinano di tutti i colori. Con questo però non voglio millantare dimestichezza con le sacre scritture che per quello che mi riguarda sono qui a cimentarmi con l’ennesimo vangelo apocrifo. Anzi vi confesso che non credo in dio così ci togliamo l'ennesimo dubbio. Spesso non credo nemmeno a Ste, che è bugiarda matricolata, ma sul fatto che esiste non ho molti dubbi visto che io porto i soldi a casa e lei li spende in belletti, profumi e gorgonzola di Novara. Soprattutto quest’ultimo.
Le mie passeggiate da piccolo per Sassalvario mi piacevano molto e guardavo dentro al panettiere e pensavo che i grissini dovevano essere proprio buoni ma non avevo il becco d’un quattrino e passavo oltre. Una volta Giovanni, che mi appioppava assurde commissioni per un bimbino di dieci anni, mi ha mandato alla farmacia di via Gaetano Bresci a comprare del carbone vegetale e una siringa da insulina. La tipa col camice bianco mi ha guardato come si guarda un bambino drogato e pure scorreggione. Mi è andata di culo che quella volta lì a Giovanni gli erano avanzati dei preservativi sennò li aggiungeva alla lista e facevo bingo.
Certe volte mi spingevo fino in via Po, tutto a piedi, e guardavo le vetrine e tutte le pasticcerie e insomma mi divertivo proprio. Un giorno, l’ultimo prima di tornare dai miei, ho visto una bancarella al mercato che vendeva ovviamente animali e mi sono comprato due tartarughe di terra che sono ancora in ottima salute a distanza di quasi trent’anni. Nel viaggio le avevo sistemate in una scatola di cartone con la sabbia del gatto e stavo con l’angoscia che il bigliettaio mi scopriva e mi faceva pagare il biglietto tariffa tartaruga. A un certo punto queste bestie hanno preso ad agitarsi e scavavano e da un buco della scatola ha cominciato a cadere sabbia di gatto. Sulla mia testa. Le persone dello scompartimento mi hanno fatto notare la cosa e io rimanevo lì, a guardarli con gli occhi sbarrati e senza proferire parola. Metteteci che viaggiavo da solo sulla tratta Torino Mestre e che mi trascinavo dietro un monopattino di legno che era il regalo per mio fratello e va già bene che non mi hanno consegnato alla Polfer di Desenzano.
Poi qualche anno dopo alla trasmissione che si chiamava Samarcanda si vede Sassalvario e io quasi mi commuovo a vedere quelle strade note. Mi sentivo nel cuore della notizia e quelli a dire che era tutto una merda e non lo voglio mettere in dubbio ma a me sembrava che ci doveva essere stata una qualche epidemia di cattiveria e tutti quei ceffi quando passavo io dovevano essere in pausa pranzo. Invece mi confermano che erano cazzi anche allora ma a me non m’era parso. E allora Giovanni era proprio fuori a mandarmi in giro senza pensiero o forse già davo l’impressione di quello che sopravvive sempre.

sabato 12 aprile 2014

Palla a Missile

fai partire la canzone qui sotto e poi comincia a leggere.







Udine dei primi anni Settanta non era ancora uno dei gangli pulsanti del nordest produttivo. Non era neppure la reduce dello scellerato terremoto. Il miracolo economico in Friuli s’era sentito appena, c’erano le fonderie, qualche fabbrica sparsa ma era ancora terra di contadini. Quelli rimasti, che i friulani s’erano sparsi ai quattro venti per cercar fortuna.
A Udine c’erano un mucchio di caserme, a dire il vero in tutto il Friuli era un proliferare di fortezze Bastiani perse tra Carnia e Carso. Mio padre era un militare e siamo piombati dal nostro Sud su Udine perchè il lavoro per uno che difende la patria era concentrato tutto lì, baluardo contro il pulsante pericolo rosso. Se mio padre fosse stato operaio saremmo finiti a Sesto San Giovanni a canticchiarci nell’orecchio tutte le mattine la canzone dei Gang. Invece si partì per Udine. I meridios, i napuli, i terroni, i mandarini da quelle parti non erano ancora roba diffusa. Malgrado la mimesi linguistica attivata, malgrado il biondo e gli occhi chiari, era palese che ero cosa altra. Piombammo su Udine nella primavera del Sessantotto, io coi miei tre anni e il respiro incerto, mia madre con la rinuncia alla vita agiata per seguire l’amore, mio padre con la mimetica sbragata e una macchina nuova, l’unica della nostra vita, ordinata alla Fiat per l’occasione. Se uno compra l’unica auto nuova del suo esistere e la compra di una nota marca torinese e la ordina nella primavera del Sessantotto poi non si deve lamentare. E noi per mesi, a piedi nella città sconosciuta, abbiamo fatto come se fosse normale mentre dai cancelli di Mirafiori il nostro 124 bianco non usciva mai.
Stavamo in un appartamento piccolo al primo piano. I soldi se ne andavano in buona parte per l’affitto e poi si mangiava le cose di plastica dei supermercati in quegli anni lì che quando allo Zecchino vinse “il caffè della Peppina” a me sembrava una canzone neorealista. Si stava parecchio in casa, con la tele a due canali biancoenero e con la merenda a base di pane e marmellata: Le confetture arrivavano in certi pacchi di mia nonna che sembravano gli aiuti umanitari al Burundi e dentro c’erano i carciofini, le sopressate, le tende per la cucina, le foto di battesimi e comunioni di parenti mai visti. C’erano pure i vestiti dismessi delle mie cugine e lo capisco che si risolveva una parte del bilancio familiare ma uno già deve fare lo sforzo di integrarsi e se si presenta a scuola con un cappotto rosso e i bottoni dorati può avere qualche difficoltà in più. Se poi si toglie il cappotto e ha un maglione, fatto ai ferri dalla zia, con scene di vita campestre prive di qualsiasi proporzione e la gallina e la casetta che sono alte uguali, le cose si complicano vieppiù. Per buona sorte erano anni tristi per quasi tutti e nessuno a scuola poteva fare tanto il fighetto. Da più grande ho scelto d’essere punk così giustificavo gli anfibi vecchi di mio padre ai piedi e un assurdo, pesantissimo pastrano che se appoggiavi l’orecchio alla tasca destra sentivi ancora il Piave mormorante.
La camera mia era arredata con un lettuccio di ferro e un baule in legno pesantissimo che serviva a tenerci i giocattoli. Per sollevare il coperchio del baule, facendolo ruotare su cardini bastardi, ho rischiato più volte le falangi. Le dimensioni incredibili del baule non erano giustificate dal contenuto, che di giocattoli se ne vedevano rari, giusto qualche soldatino per inventarmi le avventure di un padre che vedevo poco. All’epoca pensavo che i figli dei fruttivendoli avessero dei fruttivendolini con cui giocare, i figli dei medici dei medicini e così via. Lo giuro.
Dalla finestra di camera mia vedevo il palazzo di fronte. Al primo piano c’era un appartamento con una terrazza che ci si poteva allestire un paio di campi da tennis regolamentari e ancora avanzava. Tutto il tetto della coop dove si faceva la spesa era la terrazza di questi qui di fronte. In quel privilegio lì ci scorazzava un bambino, sempre da solo. Il padre lavorava in banca, questo seppi un giorno. Mi feci l’idea che la banca dovesse essere di loro proprietà. Insomma, questo bimbino della medesima età mia aveva sempre un sacco di giocattoli nuovi, prevalentemente a tema aerospaziale, che quelli erano gli anni della corsa alla conquista dello spazio ma anche del telefilm UFO con gli intercettori e il comandante Streicker che vigliacco se so come si scrive. C’erano tutte queste marche di modellini “in metallo pressofuso” recitava la pubblicità su Topolino, e si chiamavano Dinky Toys, Mebe Toys, Corgy Toys. Io avevo i soldatini Baravelli con certi difetti di fusione che il fucile sembrava la pala per fare le pizze. Quello lì, quel bambino lì, aveva invece tutti gli aerei e le navicelle e le macchinine e anche un casco da astronauta che se lo infilava e si accendevano le luci con l’intermittenza. A me era dato sapere di questi suoi averi perché passava il tempo a gridare “ammaraggio”, “decollo”, “aziona i flap”, nella foga di far vivere ai suoi giochi avventure mozzafiato. Passavo la giornata incollato al vetro della mia finestra, con le ginocchia piantate sul baule che avevo posizionato strategicamente. Così almeno serviva a qualcosa. Sorridevo quando abbatteva nemici, andavo in ansia quando annunciava un’avaria, non sapevo cosa cazzo fossero i flap. Lui, dal canto suo, se n’era accorto e tutto quel circo lo faceva solo nella porzione di terrazza che stava di fronte a casa mia. Quando mia madre mi chiedeva notizie di me, nemmeno vivessimo nella reggia di Caserta, rispondevo “sto guardando Missile”. Avevo iniziato a chiamarlo così per gioco, quasi una piccola vendetta da pitocco che irride il re, ma alla fine Missile era diventato il suo nome naturale, privo di qualsiasi sfumatura. Un giorno, mentre camminavamo bordo strada con mio padre che poco sapeva di me, passò una macchina veloce e ci lavò alzando un’onda anomala da una pozzanghera enorme. Gridai d’istinto “ammaraggio” e mio padre mi guardò sbigottito mentre i nostri vestiti Postalmarket piangevano lagrime d’oltraggio. Pensa tu se avessi gridato “aziona i flap”.
A questo punto vale la pena spendere due parole sui miei genitori. Mia madre arriva da una famiglia di imprenditori, proprietari di fabbriche, aziende agricole e lusso ardito. Al contrario mio padre cresce in una famiglia di pescatori e marinai, mille figli e pochissimi soldi. Insomma una vera storia d’amore di quegli anni lì. Pino, mio padre, era bravissimo a scuola ma essendo povero, aveva due possibilità rapide per continuare a studiare: o diventava prete o entrava nell’esercito. Visto e considerato che la predisposizione di mio padre, che è poi cosa genetica che mi ritrovo, mal si accorda coi doveri dell’abito talare, una volta si beccò pure un Auricchio nella nuca scagliato dal padre pizzicagnolo di una sua fidanzata, scelse l’esercito. Gli erano rimaste però le stimmate della sua giovinezza di strada e ancora adesso se vede un albero carico di frutta non può trattenersi. La mamma invece cercava di salvare la forma in quel suo cadere a picco dall’agio alla borghesia piccola piccola, arrivando a comprarmi un cappello da fantino che secondo lei dovevo indossare nella vita di tutti giorni. Col cappotto rosso da femmina. Conciato così mio padre la domenica mi portava a rubare la frutta e a pescare di frodo nelle valli del Natisone. Quando saccheggiavamo i fiori di zucca indossavo un enorme paio di guanti da elettricista per proteggermi da quelle spine sottili sottili. Mio padre aspettava a bordo strada col motore acceso. Solo ora capisco che nessuno ci avrebbe mai detto niente per quelle mele stroppiate che si potevano mangiare solo cotte e certe castagne stitiche ma allora la nostra tabella dietetica dipendeva molto dal bottino del finesettimana e dalla prontezza di riflessi di mio padre quando una bestia commestibile attraversava la strada. A volte ce ne andavamo sul greto del Torre e recuperavamo cose inutili, tipo un cavo telefonico lungo qualche centinaio di metri che rimase in cantina per anni. Noi il telefono l’abbiamo messo nell’ottantasette. Quando sono venuti a istallarlo il cavo mia madre lo aveva già buttato via e non abbiamo potuto vantarci.
Una sera mio padre mi svegliò per mostrarmi il regalo che mi aveva portato. Di solito erano scatole di Settesere Perugina che erano degli assortimenti di cioccolatini che vinceva al biliardo del circolo ufficiali. Di solito quando tornava la sera coi cioccolatini poi i miei litigavano. Un giorno mio padre ha vinto la medaglia d’oro a boccette e allora le acque si sono calmate che s’è capito che era uno sportivo vero e non un tiratardi. Vedi alle volte a trarre subito le conclusioni. Quella sera però il regalo era davvero merce preziosa: un pallone da calcio. La marca non me la ricordo ma era tipo i Supertele che sono quei palloni leggerissimi che costano niente ma in genere si bucano se li guardi troppo intensamente o se uno fa un rumore improvviso. Quando si giocava con quei palloni lì, dopo il goal nessuno esultava per non compromettere l’unità molecolare del Supertele. Insomma mi ritrovo questo pallone bianco a scacchi neri al centro della mia stanza, ovvero tra il letto di ferro e il baule di legno, che vivevo come Ismaele a bordo del Pequod. Non mi ricordo la reazione, so per certo che non litigai con mio fratello per il possesso dell’ambito oggetto perché ero ancora figlio unico. Voglio immaginare che stropicciai gli occhi, percorso da fremiti come i bimbi della pubblicità del materasso che cantavano bidibodibù e erano tutti boccoluti. Purtroppo io già da piccolo ero brutto e facevo piuttosto l’effetto di un randagio che viene svegliato con un secchio d’acqua ma in ogni caso penso che aprii gli occhi e vidi la mia vita di bimbo occupata dalla presenza di un pallone da calcio. Da non crederci. Da non credere soprattutto che mio padre l’avesse comprato alle dieci di sera. Chissà dove l’aveva recuperato. Non feci domande, ingombrato dall’unico pensiero del pallone.
Rimasi tutta la notte a fissarlo e di tanto in tanto mi alzavo, lo toccavo, lo annusavo. Il mio pallone. Il giorno dopo era domenica e a questo punto della narrazione dovrei dire “lo ricordo come fosse adesso”. Colazione lampo ingollando il solito panellatte e fuori, che in casa non si gioca a pallone. Il cortile divideva il mio palazzo da quello di Missile. A dire il vero come calciatore ero imbarazzante ma mi muovevo gridando frasi inconsulte come in una indiavolata telecronaca e sparavo sulla parete del palazzo. Del palazzo di Missile per la santa precisione. E lui si affacciò dalla terrazza e rimase a fissarmi e io mi indiavolai cento volte di più. Poi rientrò in casa e i calci miei divennero quasi annoiati e stavo già pensando di tornare a casa quando lo vidi. Era lì, davanti a me, alto come me. Avanzava nel cortile. Missile aveva abbandonato le sue basi spaziali e i suoi misteriosi flap e aveva deciso di scendere in cortile colmando lo spazio tra la mia finestra e la sua portaerei terrazza. Quello che però attrasse la mia attenzione era il pallone. Il suo pallone. Non una cosa qualsiasi ma il signore di tutte le sfere calciabili. Il pallone di cuoio, il Santo Graal di tutti gli eserciti dei campetti rinsecchiti di periferia. Io e quelli come me il pallone di cuoio nel negozio cercavamo anche di non guardarlo che sembrava brutto. Insieme alla bici cross con la radio che stavo cercando di vincere col concorso delle merendine a cui probabilmente devo il degrado attuale del mio fisico, il pallone di cuoio era in cima a tutti i miei desideri. Missile lo posò a terra senza guardarmi e cominciò a tirare calci maledetti a quella meraviglia di pelle bovina. E ogni volta che colpiva il muro, del mio palazzo ovviamente, quel rumore pieno era il segno dell’umiliazione feroce. Mi misi a sedere sul cordolo di cemento col mio sgalfo pallonastro tra i piedi. Sentivo che nell’intimo della mia stanza gli avrei voluto bene ancora, come certi cani che li prendi da piccolo e poi crescono e sono orrendi ma tu, sdraiato sul divano, gli gratti la schiena di puro affetto, incurante che con l’età hanno pure preso il vizio di scoreggiare. Però in quel momento battevo in ritirata sconfitto in impari confronto. Di colpo Missile parve stancarsi del suo tramestio cuoiuto e si mise a sedere di fronte a me, con la schiena appoggiata al muro, il suo muro. Sazio di quelle pallonate corpose. Il pallone lo lasciò lì, in mezzo al cortile. Quasi non gli interessasse più e intendesse abbandonarlo. Furono minuti pesanti. Sospesi. Poi mi alzai e mi accostai alla cuoiopalla. Missile mi guardava stupito. “Posso fare un tiro” dissi, ed erano le prime parole tra noi. Ancora carico di meraviglia fece un cenno d’assenso con la testa e non aveva nemmeno finito che avevo già caricato un puntalone cattivo su quel pallone di vacca sacra. La botta fu tremenda. Lo presi in faccia, e giuro che non era nelle mie intenzioni, almeno in quelle manifeste. Il poveretto andò a sbattere forte con la nuca contro il muro a cui era appoggiato e si accasciò riverso con un rivolo di sangue che gli usciva dal naso. Sbarrai gli occhi. Presi il mio pallone e mi diedi alla fuga. Arrivato a casa dovevo averci l’aria terrorizzata. Mia madre mi chiedeva con insistenza cosa avessi. “Missile è morto” dissi a un certo punto rompendo il silenzio. E dire che m’ero giurato di non confessarlo mai. Mia madre s’allarmò e mi chiese spiegazioni: “Niente, è venuto giù a giocare e a un certo punto è morto. Da solo” “Ma dov’è adesso” “Giù”. Corsa per le scale di mia madre con me al seguito. Missile era ancora lì per terra e piangeva. Segno che non era ancora completamente morto, pensai io. Questione di minuti. Mia madre lo soccorse. Non ricordo molto ma a un certo punto arrivò anche la sorella di Missile, la stessa che anni dopo ascoltavamo di nascosto mentre chiusa nella sua stanza col fidanzato faceva delle misteriose prove ginniche e di respirazione. Chiesi scusa, perché la regola della palla a Missile prevede che il vincitore chieda scusa sotto lo sguardo minaccioso della madre.

Qualche giorno fa ho portato mio figlio a vedere il cortile in cui sono cresciuto a Udine, adesso vivo a Torino ma ho ancora una casa nei boschi friulani dove torno a cercare buona acoglienza all'emozione. Non ho resistito e sono andato a leggere i campanelli. La famiglia di Missile vive ancora lì. Sul muro, certo frutto della suggestione, m’è sembrato di ritrovare le tracce di quel nostro sport. Uno di questi giorni a mio figlio gli spiego cos’è un flap che non voglio che arrivi impreparato a certe tappe della vita.