venerdì 17 aprile 2020

didattica di stanza



Del virus non mi sono mai azzardato a parlare in termini scientifici, non ho mai comparato dati e fatto ipotesi. Piuttosto per il mio mestiere la produzione di quei dati mi è sembrata surreale, priva di parametri plausibili che qua la differenza la fanno solo i vivi e i morti a ben vedere ma pure ho evitato di entrare nel merito. Ora però il ministero di tutte le scuole dice che grazie alla didattica a distanza si sono colmati i vuoti creati dalla logistica paralizzata dalla cattività domestica e siamo riusciti a rimetterci in bolla e siamo nel mio territorio e qualcosa vorrei dirla. Non sono un docente, faccio formazione ai docenti, lavoro da trent'anni sulla didattica e il digitale è una frontiera che ho iniziato a esplorare professionalmente all'inizio di questo millennio. Le opportunità della rete, i problemi metodologici, gli strumenti e la nuova gestione dei contenuti sono problematiche ciclopiche su cui ci si misura. In questi mesi la didattica a distanza è stato un'organizzarsi per bande come nella guerra di liberazione. Spunti partiti dal cuore e dalla necessità e ricollocati in ambiti dove c'erano competenze diverse, a volte fantastiche a volte imbarazzanti. Tutto riferibile a iniziative diverse, fossimo in editoria e quest'esperienza fosse un volume, dovremmo fare un lavoro di uniformità pazzesco. Avrebbe dovuto farlo il ministero. Le famiglie si sono misurate con questo alieno che è la didattica a distanza e che ha riempito per ore lo schermo dell'unico device di casa, quando c'era. Piattaforme diverse, utilizzo delle tecnologie a volte surreale ma un maledetto sforzo sostenuto da moltissimi e operazioni di raccordo formidabili da parte di enti e fondazioni e strutture didattiche di frontiera. E i ragazzi investiti da questo vento forte di tempesta digitale con il pericolo di confondere docenti e genitori in un'unica creatura mutante che chiedeva tabelline e vietava di stare in pigiama davanti a Zoom. Il ministero non ha fornito linee e nessuna sicurezza nemmeno sullo svolgimento eventuale delle attività. Ma ora dice che siamo in pari grazie alla didattica a distanza. Sembra di rivedere il film del Boom economico, con l'Italia che saliva a due a due i gradini della produzione e della ricollocazione sui mercati internazionali e la politica che non sapeva tenere il passo ma si metteva le coccarde al bavero guidando verso il burrone. Sembra ma mi auguro non sia. Non vorrei che quelli che sono partiti spontaneamente per combattere questa guerra vengano poi dimenticati dal trionfo e gli si lasci solo lo spazio di un giorno per ricordare e in quel giorno sia vietato cantare i canti di quella lotta per rispetto a chi restò zitto. Già, il benedetto rispetto del velenosissimo nulla.



martedì 14 aprile 2020

Noli me Tangeri









Per strada se la presa comoda. Passeggiava senza grossi impacci. S'era ricordato di un suo amico che lo ospitava a Napoli e gli spiegava come camminare evitando d’essere importunato dai venditori di tutto. Bastava guardare avanti, senza consentire allo sguardo di posarsi sulle facce e sulle merci varie. E nessuno ti fermava, perché leggevano in faccia l'assenza di tracce di stupore. I segni di un avvezzo quotidiano tutelavano e ti confondevano tra gli indigeni. Nei vicoli di Tangeri, pareva che la cosa funzionasse davvero. Sempre escludendo i ragazzini che, a gruppi, lo circondavano. Per l'esotico che raccontava la sua faccia e per quel modo di portare in giro le ossa. 
Poi li vide. Forse i vestiti, oppure ancora il modo di camminare. Anche senza distinguerne a distanza le parole, capì subito che erano turisti italiani. E si fermò a guardarli mentre arrivavano. Erano sei, vestiti perfetti con certa roba firmata e i colori studiati e l’aria da scopritori dell’arca perduta. Pantaloni finto militari e sahariane e occhiali da sole fantastici, scarponcini da attraversamento del cataclisma e certe bisacce in fibra di canapa, col marchietto della maria, che già era una bella dichiarazione di trasgressione. Culi rubati alla poltrona di una banca. In vacanza per poterlo raccontare per tutte le sere d’inverno caricando il diaproiettore con le loro emozioni di celluloide in trasparenza. Facevano casino, ridevano guardando la gente e fotografavano. I maschi avevano certi tatuaggetti tribali, sui bicipiti curati nell’inverno alla macchina della palestra. Le femmine avevano i braccialetti alla caviglia e la pelle carica di creme depositate per strati geologici e le collanine comprate nella spiaggia del villaggio turistico. Già, perché si capiva a distanza che erano in libera uscita da uno di quei lager ridenti del tutto compreso. Posti organizzati dove ti acchiappano all’aeroporto e ti scaricano su un piazzale col sole che picchia e ti assegnano la tua baracca fintafavela, che fa tanto caratteristico, e ti portano a fare i giochi in spiaggia e poi a pranzo c’è lo spezzatino con polenta tipico di quelle lande esotiche, perché al posto delle carote ci hanno messo dei tocchi di mango e poi la sera ci sono i balli che dovrebbero stimolarti all’accoppiamento notturno nella casupola ma tanto nella notte li senti tutti che ansimano con quelle pareti sottili e capisci che c’è una gara di rantolo erotico e, se hai conservato un briciolo di dignità dopo il buffet libero, ti giri dall’altra parte e ti metti a dormire. Odiando il mattino che ti porterà animatori e beveroni ghiacciati con la frutta e l’ombrellino. 
“Chiediamo a questo qui” sentì dire “Sarà un americano”. Ancora quella maledizione dello spettro dell’americano che gli alitava sul collo. Gli sorrisero. “Hi man”. “Ciao”, rispose lui. “Capire italiano”. “Solo se parlato correttamente”. “Sei un grande. Troppo figo, capisce l’italiano.” “Già.” disse lui che già si era rotto i coglioni. “Sei pratico di questo posto?” chiese quello che aveva l’aria del capogruppo. “Abbastanza.” “Siamo qui a zonzo e stiamo cercando un po’ di roba buona.” Gli altri ridacchiavano. “Che roba?” “Fumo.” “Ah, fumo.” “Si, siamo qui da tre giorni ma solo oggi siamo usciti dal villaggio e abbiamo deciso di metterci in caccia.” Come non detto, pensò Juri, abitanti di un villaggio turistico. Il villaggio duebale vaticinato da certi cervelli tritasperanze. “Forse posso darvi una mano.” Gli stava venendo un’idea. “Sei un grande.” Era già la seconda volta che il tipo gli diceva quella cazzata e nemmeno gli aveva chiesto altezza e peso e età. Parlava senza serie basi scientifiche a supporto delle sue tesi. “Quanto ve ne serve.” “In realtà pensavamo di farne una bella scorta perché al villaggio c’è un mucchio di amici che sarebbero contenti se tornassimo con un buon bottino.” “Prestami i tuoi occhiali da sole.” “Perché.” “Lo vuoi il fumo?” “Si.” Gli tolse gli occhiali fighi e se li infilò. “Quanto siete disposti a spendere.” “Questi bastano?” Il tipo gli aveva passato una manciata di banconote. Dollari. “Con un altro piccolo sforzo ve ne passo un panetto sano.” In realtà Juri non sapeva nemmeno quanto potesse pesare il panetto intonso ma sperò che gli altri non glielo chiedessero. Spaventati dalla solita paura di non sembrare gente di mondo. Infatti si frugarono nelle borse e gli allungarono qualche altra banconota. “Aspettatemi qui. La cosa è abbastanza semplice ma quella non è gente che si fida delle facce nuove.” “Vengo con te.” “Va bene, tieniti i tuoi soldi e lasciamo perdere. Se mi presento con te mi resta il tempo di sorridere appena e sono già morto. E uno che ride mentre stanno per fargli la festa, rischia di passare per coglione.” Gli altri parevano titubare. Poi il capobranco si fece risoluto. “Va bene, ti aspettiamo seduti a quei tavolini.” “Perfetto, quando arriverò mi siederò tra voi e faremo come se fossimo vecchi amici. Appoggerò la roba sul tavolo e tu” indicò una biondina con l’aria da segretaria tutta fotocopie e pompini “t’infilerai il panetto nella borsa.” “Intesi” rispose ora il leader, che pareva essere entrato nella parte della missione speciale e stava pure per sincronizzare gli orologi. 
Juri s’infilò gli occhiali, “Non preoccuparti per questi, poi te li restituisco. Mi servono per il giochetto.” L’altro sorrise come se avesse capito. E non c’era niente da capire. 
Un ultimo sorriso e Juri sparì tra i vicoli. In tasca aveva quello che avrebbe guadagnato in parecchi giorni di merci scaricate e caricate al porto. Sul naso un paio di lenti da sole griffatissime.
Nei giorni successivi Juri ci si mise di buzzo buono e fregò altri sei gruppi di connazionali. Sempre nello stesso modo. Con gli occhiali da sole sempre tra loro e lui. Lasciandosi invariabilmente inghiottire nel ventre dei vicoli, che ormai cominciava a considerare casa. Un drappello di turisti finto explorer li portò pure al negozio del vecchio a fare acquisti e poi li mollò senza truffa. Per non infierire. 
Ora sotto la sella aveva un bel gruzzolo e cominciò a agganciare i turisti per portarli a zonzo davvero e il vecchio gli passava la percentuale e il gioco del fumo lo faceva solo ai più stupidi e a quelli che s’intestardivano e insistevano e allora te la cerchi e sia fatta la sua volontà.






sabato 11 aprile 2020

ho fatto un sogno






Ho fatto un sogno e era uno di quei film che ti tolgono il respiro e ci finisci dentro e corri come fossi inseguito dai segugi di Tindalos e ti svegli sudato e nel corridoio senti i segugi di Tindalos che ti hanno trovato. Ho fatto un sogno e ero in una stanza di casa mia e ci invecchiavo e non rivedevo mai più i milioni di posti che ho chiamato casa in questi anni. Ho fatto un sogno e le strade erano svuotate come in un film postapocalittico fatto da un maestro del neorealismo. Ho fatto un sogno e c’era uno scheletro al bancone del bar che aspettava il resto nell’ombra di una bolletta non pagata e Hopper rideva e tu non sai chi è Hopper perché non sai mai un cazzo. Ho fatto un sogno e Bob Dylan era l’Omero di questo presente e Leonard Cohen il maestro di cerimonia e Nick Cave il ministro della cognizione del dolore. Ho fatto un sogno e gli amici miei artisti dopo il primo smarrimento erano quelli che avevano saputo ancora una volta trovare il modo, segno che in caso di disastro nucleare sopravviveranno le blatte e gli artisti e forse anche di me la morte non saprà che farsene. Ho fatto un sogno e la gente moriva da sola, senza saper posare sul comodino le ultime parole, morsa dal dubbio di non lasciare memoria, ignorando il dolore dei cari che non si vorrebbe sopportare ma che ci spetta e ci aspetta. Ho fatto un sogno e nelle case rimanevano cani e gatti a leggere l’odore di un mondo diverso che arrivava dalla finestra e quel vecchio se lo sono portato via e non torna il suo passo nelle stanze e la coperta sul divano dove lui e i suoi animali facevano i ricordi crociati. Ho fatto un sogno e c’era la più grande potenza del mondo, la culla della democrazia, che prendeva gli ultimi, la schiuma della terra, e li metteva in file ordinate ad occupare uno spazio pertinenziale di enormi parcheggi. Un rettangolo sotto il sole nel quale circoscrivere le tue coperte, i tuoi cartoni e il tuo odore. Piazzati come auto vecchie nei parcheggi vuoti dei centri commerciali. Una sintesi mostruosa di angoscia novecentesca sospesa tra fordismo e sterminio di massa, perché l’orrore parte sempre dalla disposizione ordinata dei letti a mille e mille. Ho fatto un sogno e in quello stesso paese c’erano le fosse comuni perché la morte di massa ha un senso come il consumo di massa. Ho fatto un sogno e ogni giorno si riscrivevano le pagine del Milione con il racconto dei pipistrelli mangiati golosamente da quelle genti così lontane e così pericolose. Ho fatto un sogno che da quel paese arrivavano notizie confuse e all’inizio sembrava fosse un racconto tra i tanti che riempiono la rete e dice che se esci di casa ti sparano in testa e dice che muoiono a migliaia e dice che è una cosa fatta in laboratorio e dice che hanno già il vaccino ma lo tireranno fuori per farci i soldi a pacchi quando al mondo gli si stringerà il culo dalla paura e dice che non muoiono mai i cinesi e non sai mai quanti sono e insomma io non mi sono mai fidato. Ho fatto un sogno e agli albori dell’ecatombe c’erano quelli illuminati e progressisti che consumavano tutto l’ardore dei loro pensieri precotti, buoni da spendere all’aperitivo, organizzando cene sfrontate nel ristorante cinese sotto casa. Si facevano i selfie e morta lì. Ho fatto un sogno e gli ottusi che sono il cemento dell’oggi, bardati delle loro armature di luoghi comuni e conoscenze comprate al discount della miseria umana, continuavano a dare la colpa a quelli che arrivavano con i gommoni e a spartirsi in gruppi ideologici imbarazzanti dove il senso delle loro idee era tutto nelle loro paure oscure. Ho fatto un sogno e quelli che parlavano di razza pura erano gravati dalle peggiori tare e quasi mai avevano figli. Ho fatto un sogno dove la gente da un pezzo aveva preso a confondere le opinioni con le conoscenze e ti sapevano spiegare tutto ma poi scoprivi che a quel tutto corrispondeva il solito nulla rassicurante del naufragio perenne che chiamiamo i nostri giorni. Ho fatto un sogno e la politica era sincronizzata con il mondo con la stessa nozione del tempo che ha un protozoo, immobile nella sua evoluzione da milioni di anni. Facevano decreti e litigavano ancora e prendevano tempo ma dicevano di prendere decisioni, nemmeno buoni a inventare un cazzo di modulo inutile per dichiarare che stai camminando verso il lattaio. Ho fatto un sogno e tutti stavano aggrappati alla rete e la gente faceva le videochiamate perché nelle settimane il dubbio si era insinuato e cominciavi a non credere al tuo mondo di prima come non t’ha mai convinto nemmeno dio. Ho fatto un sogno e c’era il pontefice massimo che benediceva la piazza vuota e una via crucis a galleggiare nel vuoto di tutto, forse la cosa più vera su cui abbiamo potuto contare in questo tempo rubato al tempo. Ho fatto un sogno e le pubblicità si erano tutte riposizionate sull’oggi e tutto quello che avresti potuto desiderare e consumare era buono per uscire vincitori da questo impaccio della morte di massa, che di questo si tratta diciamocelo. Ho fatto un sogno ed era un amico mio che prendeva un pugno di monete, le ultime, e andava a compraqrsi i vini migliori e un uovo di pasqua per guardare in faccia ai sogni. Anche al mio sogno. Ho fatto un sogno e erano le risate che mi faccio la notte rimanendo sul balcone a parlare con Ste mentre le finestre di fronte restano accese fino a tardi e i vicini hanno fortunatamente smesso di mettere le canzoni a tutto volume. Ho fatto un sogno e un runner inseguiva un proprietario di cane che inseguiva un anziano ribelle che inseguiva un bimbo con il monopattino che inseguiva un pusher che inseguiva un taxista che al mercato mio padre comprò. Ho fatto un sogno che i medici morivano e gli infermieri morivano e gli ambulanzieri morivano e certi si arricchivano vendendo milioni di mascherine ciucche che non sarebbero arrivate mai. Ho fatto un sogno che tutto il potere ai vigili e quello era l’incubo peggiore. Ho fatto un sogno che ho sognato dii nuovo che si muore soli e questo è il distillato di questi giorni che sono nostri come una scomoda eredità di un parente pazzo. Ho fatto un sogno e in quel sogno una’ombra era destinata a morire sola ogni giorno allo stesso modo, come muore Hattie Carroll, lasciando dieci figli a casa e un lavoro schifoso da cameriera in un posto lurido. Ho fatto un sogno e mio figlio sorrideva e era passata la tempesta e lui partiva in moto per il mondo e la moto non era la mia, quella la guidavo io.