venerdì 11 novembre 2016

LA BALLATA DELL'ASSENZA










Se puoi leggi mandando questa canzone in sottofondo.


Inizio anni Ottanta. Ero un povero cristo di quattordici anni, alle prese con una quarta ginnasio che non dava scampo alle mie insicurezze e che mi faceva vedere il mondo come una complessa struttura grammaticale dove tutto era declinato, tutto aveva un paradigma e un'eccezione. Non sapevo conciliare quella massa di nozioni e regole con la grammatica basica del mio vivere, in bilico sulla voce che cambia e un ombra di baffo sul labbro superiore e un odore di bestia selvatica addosso e certe voglie che ti stringono alla gola e ti fanno sembrare tutto desiderabile e parimenti irraggiungibile. L'avrei voluto uno stereo, che quelli erano gli anni degli stereo messi in salotto come tremendi mausolei del suono. Gente che non aveva idea della musica aveva impianti complicati e parlava di frequenze e pulizia e il Dolby pareva essere il migliore amico dell'uomo sonoro. Ci si spendeva dei soldi veri sullo stereo, contenuto in certi mobili a torre che erano già nella loro immagine bella rappresentazione del potere domestico. Come le torri nelle città medievali che erano la sfida tra le famiglie più potenti, i mobiletti dello stereo, con il loro raffinato contenuto tecnologico, erano una sfida continua tra condomini, tra isolati, quartieri e città. Qualcosa che aveva una tremenda appendice pubblica negli stereo montati nelle auto, dove la musica era l'ultima cosa a cui pensare ma il peso dei decibel la giocava da padrone. Toccava averci roba che pompava per quello sfoggio tecnologico. E io a casa avevo un registratorino marca Geloso a cassette con un comando unico che a spostarlo di lato e sopra e sotto partiva e si fermava e procedeva spedito avanti e indietro. Si mangiava le cassette il Geloso se non stavi attento e doveva averci la tua cura e una penna Bic a portata di mano per ripristinare i nastri sfrenati in un inghippo di testine e pulegge che nemmeno a sciogliere trecce e cavalli. E la sera nella stanza, stremato da quegli studi che non sapevo afferrare, sognando baci che nessuna mi dava, vinto da una maledetta ansia per una vita sempre in bilico, aggrappato a quella mia periferia, che a portarmela addosso nel liceo del centro, ero l'unico di quel quartiere a studiare, oddio studiare, greco e latino, era già una sorta di marchio di infamia ma giusto sussurrato. E la sera nella mia stanza che era uno spazio condiviso con mio fratello, me ne stavo al buio con le cassette che mi facevo fare da quegli altri con lo stereo a prezzo di umilianti questue sonore. Ascoltavo il mio Dylan di allora e i cantautori e un mucchio di roba che mi dava pace. Poi tornavo in strada e condividevo roba più tosta, che quella era la stagione del punk e dello ska e dei gruppi autoprodotti e dei nostri garage dove fingevamo di essere parte di quel grande disegno sonoro arrancando sul giro di Do. Un giorno vado in libreria a farmi il solito giro. All'epoca, per un libro comprato ne rubavo sei, e in un enorme cestone vedo questa uscita periodica cassetta e fascicolo sui grandi del Rock. Non ricordo preciso il titolo della collana ma ho estratto la cassetta dalla confezione e me la sono infilata nelle mutande. E poi un'altra cassetta e un paio di libri della Lato Side. Arrivato a casa ho messo sul tavolo il bottino. C'era una cassetta di Phil Ochs e un'altra di Leonard Cohen e ancora non sospettavo che stavo mettendo in piedi la colonna sonora della mia vita. Mi sono sdraiato sul letto, una branda di ferro con gli anfibi ammucchiati sotto e un vecchio orso di pezza ancora lì tra i cuscini che quella è davvero un'età meticcia. E la stanza s'è riempita di quella voce, che Cohen, come De Andrè, è prima di tutto voce. I testi non li capivo ma intuivo che dentro c'erano delle storie. Sono andato a rubarmi anche il fascicolo e ho voluto sapere tutto di lui e di Phil Ochs. Cohen è diventato il mio segreto. Musica che a scendere in strada e a raggiungere gli altri nel piazzale con i motorini truccati e le moto rubate e il radione che mandava i Ramones a palla non potevi condividere. Non volevi condividere. E camminavo nell'autunno di quella città sempre fredda e piovosa immaginando che il mio cappottone nero con le spillette si trasformasse in un famoso impermeabile blu e cercavo di ricordarmela mentre usciva dal Chelsea Hotel come fosse cosa mia e poi Suzanne, quella femmina lì l'ho amata sul serio, e Isacco e il partigiano che con quell'incursione in lingua francese mi faceva battere il cuore senza nemmeno sapere perché. Io ci ho creduto sul serio a quello che mi raccontava Leonard e pure gli altri. I film, i libri le canzoni le foto non erano finzione, non erano realtà posticce. Io ho iniziato a vivere come fossi dentro una canzone di Cohen, nel bene e nel male, e non ho più smesso.
tre anni fa, più o meno, mi sono comprato i biglietti per andarlo a vedere a Lucca. Da Torino a Lucca andata e ritorno in nottata non è uno scherzo ma l'ho fatto altre volte. Poi sono successe cose e inghippi e non ci sono andato. I biglietti sono lì, su uno scaffale della mia libreria. Mentre decidevo di non partire lo sapevo che era l'ultima occasione. Ma non me lo dicevo.

Qualche settimana fa è morto mio padre, l'uomo che mi ha insegnato a nuotare in mare aperto e a camminare per i boschi riconoscendo tutti i segni minimi e a leggere e a rispettare le pagine e a raccontare e a aggiustare un motore. Ho passato le ultime notti sue a chiedergli quali erano i libri più belli della sua vita e i film. Ad acchiappare frammenti di memoria mentre consapevoli ci salutavamo. E non l'ho quasi capito che se ne andava lì, davanti a me.
L'altro giorno ho trovato a un euro "Vita dura" di Mark Twain. L'ho comprato, che quello era uno dei nostri autori preferiti quando ero piccolo e quel libro l'abbiamo cercato tantissimi e insomma m'è scappato di telefonargli subito per dirglielo e solo allora ho capito. La ballata dell'assenza. Col tempo imparerò, per Leonard e per mio padre e per altri ancora, a suonarmi dentro questa fottuta ballata dell'assenza. Ora a volte ancora mi frega quella vertigine e mi afferra i ventricoli e li strizza.

Grazie Leonard, come a ringraziare mio padre, un amico.

L'estate quando guardo il mare del Dodecaneso dalla nostra isola, da quel puntino minuscolo sulla cartina, ci penso sempre che sto condividendo lo sguardo del canadese perduto in tutto quel blu. Come un uccello appollaiato sul filo, come un ciucco sverso in un coro di mezzanotte.

Grazie anche per questo regalo d'assenza a cui tocca dare il suo spazio, che ci piaccia o no.