mercoledì 28 marzo 2012

e bruciar di passione



Magari qualcuno leggendo si risentirà e penserà che faccio il furbo ma io davvero non mi ricordo se in quel periodo avevo più o meno una storia, una ragazza o qualcosa di simile. Acchiappavo quel che passava al volo, e non è che fosse proprio periodo di passo, che ero stato lontano, lontanissimo per uno che girava con mezzi di fortuna, un paio di anni da Udine e poi ero tornato perché se c’è un posto dove non morirò mai di fame è in quella città lì dove conosco tutti e tutto. M’ero iscritto all’università, che laurearmi in qualcosa che avesse a che fare con l’arte non mi sembrava male, e ero tornato a stare dai miei che però dopo qualche mese se ne andarono a Perugia lasciandomi  a misurare il mio tempo in un’ alternanza di esami, poche lezioni frequentate e lavori, tutti i lavori del mondo, presi e mollati il giusto per recuperare due lire. Sempre ficcato nel mio mondo di pagine, canzoni, notti lunghissime, risate, risse, moto sempre smontate, anche quando le usavi, e come accennato, qualche femmina baciata mentre era distratta. Erano giorni confusi e prima di baciare ti passavi la manica della felpa a strofinare le labbra per svellere quella persistenza di birra e sonno. Lei veniva a lezione e corrispondeva al santo graal di tutti i miei desideri, che io quando una è mora e ha gli occhi verdi stramazzo lì dove mi trovo, che sia l’autobus o lo scoglio marino. Se poi è anche selvatica e imprevedibile e addirittura mi fa ridere sono del gatto e a nulla vale che provi a dissimulare, che la maledizione mia d’essere mezzo cane mi fa muovere le chiappe frenetiche a recupero di code ancestrali e credo si noti. Lei ritenevo avesse un fidanzato perché c’era uno fisso che stava con lei e quando scoprii che era il fratello e che arrivavano dall’altro capo del mio mondo possibile e vivevano a un boccone di terra da villaggio metallico in una casa che stava per diventare anche un po’ mia, decisi di farmi avanti. A modo mio ovviamente, che ho l’infamante marchio della surrealtà. Come nella peggiore puntata di Happy Days la invitai a una festa, che se me l’avessero detto un giorno prima che avrei avvicinato una a lezione per dirle “ci sarebbe ‘sta festa domani sera, ci vuoi venire con me” non ci avrei creduto di sicuro. E invece.  La festa era una roba assurda che finì in una rissa che ci piazzò sulla pagina del giornale del giorno dopo e che coinvolse un merdosissimo fascio che anni dopo cominciò un’imbarazzante scalata politica. Una festa roccherrolle a palla con la musica e la roba da bere, tutta la roba da bere del mondo, e ancora roccherolle che noi eravamo l’incarnazione di quel pulsare lì. Il tutto avveniva nella casa appena costruita dei genitori di un amico, un villetta ancora da imbiancare e arredare in mezzo alla campagna. Ingresso cinquemila lire. E io così le dissi “allora dammi cinquemila lire per l’ingresso”. Il vaffanculo che mi sibilò a fior d’orecchio era la conferma che quella era la donna della mia vita ma non ci fu il tempo di spiegarglielo che già se n’era andata con altra gente e un tremendo veneto di Rovigo che si vedeva parecchio che le sbavava dietro. Ovviamente tra me, che pure son messo come son messo, e un veneto di Rovigo, non c’è possibile competizione ma intanto incassavo il colpo. Come se non bastasse seppi che quel fine settimana arrivava l’uomo suo da Pisa e che sarebbero andati a Padova a vedere i Cure. Ce n’era abbastanza per mollare. Già, ma allora vi siete già dimenticati che era di razza mora con occhi verdi e guizzo nello sguardo e certo modo di vestire e di muoversi che ogni volta che la vedevo l’omino dell’entusiasmo che sta nella cabina di pilotaggio del mio cervello gridava “roccherroll fratello”. Ero così preso che m’ero scordato di guardare come stava messa a tette per cui un pomeriggio andai alla fine della lezione per constatare appositamente. La maledetta conferma. Camminava per il corridoio mentre in un gruppo di nove persone, e per me sette erano già superflue, andavamo al bar e quello di Rovigo le parlava fitto cantilenando come parlano quelli di Rovigo e io guardavo quel culo guadagnare l’ingresso del locale e pensavo che volevo camminarci accanto a quelle chiappe lì, con una mano mia infilata nella tasca dei jeans e ridere sul serio e di confidenza. Lei del resto dopo la storia della festa non mi si filava di pezza e io per attirare l’attenzione sapevo fare le impennate col motorino razza Ciao e sapevo vincere le gare con le barchette di carta sulla roggia la notte e sapevo mangiare un budino intero aspirandolo con un soffio dal piatto e sapevo bere un calice di vino senza mani e senza rovesciarne un goccio e sapevo uscirne vivo da certe battaglie in strada e nei locali ma tutta quella roba lì pareva essere totalmente inutile in quel frangente e era più o meno tutto quello che avevo, se si escludono le migliaia di inutili poesie che già sapevo a memoria e la penna stilo ficcata nella tasca interna del chiodo. A proposito di chiodo vale la pena soffermarsi su come mi conciavo. Avevo dei completi assurdi neri giacca e pantalone con la maglietta col le scritte sotto e erano vestiti presi dagli armadi di anziani parenti e che accompagnavo ai soliti anfibi. C’era poi la seconda e ultima versione che comprendeva chiodo nero che ancora indosso, lo stesso voglio dire, e jeans e anfibi. Diciamo che la mia immagine non ha subito nel tempo radicali trasformazioni e, di conseguenza, nemmeno benefici. Pochissime idee brutte ma fisse. Portavo braccialetti di pezza e cuoio sparsi, occhiali da sole trovati e i capelli tagliati cortissimi ai lati e dietro e lasciati come capitava sopra. A volte lunghi parecchio a volte cortissimi. Dipendeva dalla macchinetta tosacani che condividevo con tutto un branco di sgangherati e che usavamo per tagliarci i capelli reciprocamente nei tempi morti seduti ai margini del campetto da basket. Sul motorino razza Ciao c’era scritto “vola magica scheggia come una scorreggia” e nemmeno questo poteva attivare forti motori seduttivi. Ma faceva molto ridere quelli del branco mio che a loro volta facevano a gara di trovate per addobbare i loro motorini razza Ciao e le loro vespe razza Vespa. Lei proprio non pareva colpita da tutto quello sfavillio che mi circondava. Le ero totalmente indifferente. Vennero le vacanze natalizie, se ne tornò a casa col fratello salutandomi in una sera in cui s’era rimasti in diversi attorno a un tavolo a dirci come ci piaceva far l’amore e lei rideva e raccontava e a me quasi mi parte un embolo ma resto lì coll’aria di uno che s’è imbarcato a nove anni su un cargo battente bandiera panamense e le ha viste tutte. La mattina della loro partenza volevo salutarla ma il Ciao non partiva e faceva un maledetto freddo e io non mi sarei immaginato di andare in vibra e tensione per non riuscire ad arrivare alla stazione per un saluto che io ti saluto in genere girandomi e prendendo la porta. Ho acchiappato una bici dal mucchio delle bici che stavano accatastate in strada portate lì un po’ da tutti e elette a bene collettivo. Una maledetta bici da donna col cesto davanti che si muoveva a stento e giù a pedalare dentro il chiodo spesso e pesante. Sono arrivato al treno e ho sorriso mentre già partiva e quasi volevo far credere d’essere lì per altro. A quel punto l’università s’era svuotata e io son tornato alla vita mia e avevamo questo amico che aveva il padre che dirigeva un ristorante lussuosissimo che non dirò nemmeno sotto tortura e una sera che c’era la chiusura per turno siamo entrati e ci siamo fatti la più incredibile cena della mia vita e insomma procedevo col passo mio di sempre e un po’ dimenticavo un po’ proprio non ci riuscivo. Credo, ne sono certo a dire il vero, d’aver provato a lavorare sulla memoria da resettare ficcato nel letto di un’amica e siccome son stupido proprio di fabbrica poi gliel’ho pure detto che pensavo a quell’altra e questa mi ha cacciato e era un peccato perché al suo cane stavo simpaticissimo e anni dopo lei e il nuovo fidanzato mi hanno incontrato e lei faceva la distante che lui era uno a modo ma da come mi festeggiava il cane si capiva che ci doveva essere stata una certa confidenza. Incidenti di percorso. E comunque se ti tirano una bottiglia vuota di Ballantine e ti urlano delle brutte cose e tu sei sdraiato nudo sul letto, rivestirsi e telare è un gesto atletico significativo.
A casa mia non c’era il telefono e per chiamare io dovevo andare alla cabina del policlinico e dicevo sempre “chiamo dal policlinico” e alla gente gli veniva un colpo. Dove stavamo noi non c’erano i bar vicini e da bambini andavamo tutti a prendere il gelato al policlinico tra vecchi col catetere e parenti del defunto. Insomma se mi cercavi dovevi metterti d’impegno. La gente dell’università era tornata a casa per le feste e all’epoca a Udine c’erano facoltà che non esistevano nel resto d’Italia e questo spiegava la provenienza da tutta la penisola e certe solide amicizie mie con  gente come Giorgione di Monopoli o Silvia di Ferrara. Sarebbero tornati tutti dopo il sei mi ripetevo. Incontrarla per strada, davanti all’osteria mia, che conviene sempre averci un locale che è una seconda casa, fu un vero colpo.  Era il tre gennaio. Cazzo ci faceva lì. Entriamo dentro che fuori fa freddo e ridiamo e le dico cosa prendi e dentro mi maledico che non ho l’ombra di una lira e in tasca ho solo la stilo, il coltello, una copia dei canti di Maldoror, edizione Feltrinelli, e una sveglietta a pile che usavo come orologio. Lei ha una fame da lupo perché ha viaggiato la notte filata e io non capisco perché abbia ancora i bagagli e non sia passata da casa. Parliamo un casino e ridiamo e parliamo e ridiamo e lei ordina altro e a quel punto se si deve morire ordino altro anche io che questo è un momento buono ma io sono certo che qui non mi fanno credito e non ci devo pensare ora che il guizzo di quegli occhi verdi è mio e muoia il mondo adesso. Poi lei dice, mi accompagni a casa che devo posare i bagagli e mi vengono a trovare questi altri che oggi andiamo a farci un giro a Trieste e puoi venire anche tu, che tu di sicuro la conosci Trieste. “Eccerto che la conosco” e vaffanculo che se sai che sono di Udine non ti aspetti che ci abbia mai messo piede a Trieste ma lei tutte ‘ste dinamiche mica le conosce e io reggo il gioco e conto i secondi a quando ci avvicineremo alla cassa. Arriviamo e la cicciona del bancone ringhia una cifra a dire il vero più che ragionevole e allora io la guardo, sorrido e dico “non ho un centesimo”. Ometto di dire che per un giro complicato nel pomeriggio batto cassa e intasco della moneta fresca. Resto lì a mezzo sorriso. Lei ride e paga e già lo sapeva. Andiamo a casa sua che è alla periferia della periferia e abbandono il motorino razza Ciao e lo guardo dal vetro del bus che sento che quello è un mezzo tradimento ma lui può capire. A casa siamo appena entrati e arrivano gli altri e c’è questo ragazzo di milano che fa il militare a Udine e che si capisce che anche lui è matto di quegli occhi verdi e poi c’è un’amica che ora è difficile ricordare con serenità e altri e si parte in treno per Trieste. Lei mi presta i soldi. Andiamo e quello di Milano parla tutto il tempo e non molla e io mi faccio distrarre che è la natura mia e penso che tra questo qui e quello ufficiale di Pisa, ritagliarsi un posto è un lavoro e chi cazzo me lo farà fare e quasi quasi mollo che io posso vivere senza…
Camminiamo per i vicoli della Cavana e loro saranno simpatici e sorridenti ma io sono cresciuto per strada. A un certo punto ci perdiamo io e lei e entriamo in una cazzo di bettola e io all’epoca fumavo e, sempre all’epoca, si fumava nei locali con disinvoltura. Attorno a noi c’è gente che mangia patate in teccia e beve vino. Parliamo vicini e a un certo punto lei mi bacia. Sorrido, mentre dentro mi esplode un vulcano che passa dall’anima e arriva ai corpi cavernosi. Mi accendo una sigaretta e spengo il cerino ficcandolo nella scatola aperta dei suoi fratelli cerini che tengo sospesa tra due dita. Si alza una fiamma cattiva e improvvisa e mi incendia i capelli che, come dicevo, porto arruffati in testa. Tutti ci guardano e lei mi aiuta a spegnere le braci in testa e c’è odore di bistecca bruciata e le ceneri sospese nell’aria dei miei capelli si stanno depositando sui piatti di patate in teccia degli avventori. Lei ride che quasi gli viene una sincope. Ci prendiamo un treno che non ricordo e torniamo a casa sua. Non esiste più quello di Pisa e quello di Rovigo e quello di Milano. Non esistono più nemmeno alcune ciocche spesse dei miei capelli e imparerò da lì a farmene una serena ragione.
Solo recentemente mi ha confessato di essere venuta dalla stazione coi bagagli al bar proprio a cercarmi. Non capisco mai niente. Mi piace non capire a volte. All’alba sono tornato a piedi a recuperare il motorino razza Ciao che era rimasto davanti al bar. Ho chiesto scusa. 

giovedì 22 marzo 2012

una casa piena di versi è poesia domestica




Ieri arrivo a casa a sera già bellamente avviata.  Sono in stato confusionale, al punto d’aver ascoltato in macchina per mezz’ora buona “la zanzara” su radio 24.  Ci sono gli estremi per l’annullamento del matrimonio ma Ste è comprensiva e ci rimedio un bacio del perdono che mi sembra un bell’acconto per la notte in arrivo. Cazzeggio per la casa, Suono la chitarra, dico una sfilza di cazzate e prendo in giro Orso che sta studiando un’architettura complessa per l’incrocio dei suoi lacci nelle scarpe da ginnastica. A cena ci spadelliamo i bucatini all’amatriciana e devo confessare che io non mi rendo per niente utile, limitandomi a mangiare taralli e a addestrare i cani a ritrovare pezzi di pane sotto i mobili, che almeno in caso di calamità se c’è da ritrovare dei panini sotto le macerie mi posso presentare io col mio team. Olmoteam ci voglio scrivere sulla fiancata del picàp.
Ora devo spiegare com’è articolato l’arredo della cucina, altrimenti non è chiaro come si sono svolti i fatti. Abbiamo dei mobili enormi e bianchi che Ste ha comprato a un mercatino di quelli “scambio e vendo” pagando in blocco 50 euro. E ci sarà un motivo. Sono mobili incollocabili, studiati per una comunità affetta da gigantismo e demenza. Chissà a cosa pensava Ste quando li ha comprati. In cucina ci stiamo strettissimi e non più di tre persone perché lo spazio è occupato da una ciclopica struttura lignea che ricorda le torri da cui si avvistavano i saraceni. In scala uno a uno. Dentro nessuno ricorda cosa ci sia perché se provi ad aprire la porta enorme che scorre su ruote la struttura collassa. L’unica cosa utile è la superfice bianca che abbiamo coperto, ho coperto per la precisione, con mille vignette che raccontano di Dani e dei suoi amici. Nel tempo ho dovuto aggiornare a ogni nuovo amico e ora sembra la camera funebre di una piramide con tutti ‘sti personaggi che raccontano le loro piccole storie. Ci sono i cani ovviamente e c’è Ste che l’abbiamo scherzata molto e non somiglia ma fa ridere e ci sono io che mi ha fatto Dani e ho lo zaino e il cappellino e c’è Dani con la chitarra e l’amplificatore e via così. Noi mangiamo ammucchiati in un angolo e a tavola abbiamo anche un bronzo di uno scultore della scapigliatura che non dirò, che ho trovato in un mercato pagandolo zero e che vale parecchio ma noi che lo volevamo vendere ci siamo innamorati di ‘sto bambino un po’ sghembo e l’abbiamo ribattezzato Eros e lo teniamo a cena con noi fisso. Accanto a Eros c’è Valenia che è una maraca a forma di giraffa. La casa è tutta così insomma. Un Vittoriale pop. Eravamo alla cena. Quando mi siedo guardo l’armadione che mi copre la vista dei fornelli e che mi ha salvato la faccia la mattina che Ste ha provato a fare l’orzo nella caffettiera provocando uno scoppio significativo. Orzo boia. L’esplosione di caffè sul muro è rimasta perché è un’istallazione che chissà quanto pagherebbe la gente per averci una cosa così sulla parete. Vabbè, mentre mangio noto che mi guardano e ridono anche i cani ma questo succede sempre e la mia autorità è stata messa in discussione il giorno in cui ho dipinto le pareti del mio studio di arancione acceso e l’ho fatto da solo, con un golpe e in barba al parere della popolazione, tipo la TAV. Da allora il mio consenso è sceso a picco. Mentre mangio chiedo notizie della tartaruga. Bobbiliù, la tartaruga a cui abbiamo dato il nome di un caro amico nostro, sta bene e si è svegliata dal letargo. Occupa il terrazzino della cucina che, per lei e solo per lei, è stato riempito di terra e sassi e una ciotola d’acqua e, da poco, anche da un lampioncino di quelli che si ricaricano col sole. Sto parlando di una superfice che arriva a stento al metro e mezzo quadro. Questo però vi fornisce nuove chiavi di lettura sul perché io sia follemente innamorato di Ste. Tutti all’inizio pensano che tra i due quello di fuori sia io, poi il tempo è galantuomo e si chiarisce l’equivoco. Sta di fatto che a un certo punto alzo lo sguardo e lo vedo. Sulla parete di fronte a me c’è un enorme orologio rosa con la cornice bianca. Agghiacciante. Proprio sopra la vecchissima bilancia da fruttivendolo coi pesi e tutto, i cui piatti sono gremiti di pupazzetti che si trovano nei sofficini e, bada bene, noi non mangiamo sofficini per cui se nella tua confezione non hai trovato il babacetto come da regolamento guardaci con sospetto e dicci dove vai a fare la spesa. Nel quadrante dell’orologio rosa al posto dei numeri ci sono animali in un rosa più chiaro. Tutto in bianco e rosa questo orologino raffinato. Ogni volta che scocca l’ora parte il verso di un animale. Euro dieci a San Salvario per questa meraviglia. Nove euro più di quello che vale. Alle otto la lancetta va su maiale e sarebbe già agghiacciante così ma il bello è che a animale raffigurato non corrisponde il verso per cui il porco raglia come un indemoniato. Resto basito a fissare il maiale che ha appena ragliato. Mi assicurano che quella bella tecnologia è dotata di un sensore che quando c’è il buio azzittisce le bestie. E io mi fido pure. Alle due di notte un gatto miagola come miagolerebbe un felino domestico se lo sodomizzassero con una borraccia da ciclista piena di gingerino. I cani saltano in piedi e si lanciano vero la cucina. Mi sveglio e tiro una maledizione che col gatto e i cani si accorda subito in un coro dalla magica polifonia. Ste socchiude gli occhi. Lo vedo perché ho acceso la luce per capire dove mi trovo. Ride. Poi torna a dormire della grossa. Dopo è la volta delle anatre, dell’asino e dell’uccellino. Stesso copione, i cani abbaiano, io sbarro gli occhi e maledico, Ste la intuisco che ride e dorme ma evito di accendere la luce. La mattina a colazione riunisco gli stati generali e minaccio pesanti ritorsioni. Dani dice che lui ha dormito benissimo e ridono gli stronzi. La teoria di Ste è che entra troppa luce dalla strada. Compreso il lampioncino che hanno attrezzato per la tartaruga casomai dovesse andare in bagno la notte. Decidono che la sera, prima di andare a dormire, copriranno con un panno nero l’orologio della fattoria del demonio. Giusto per portarmi rispetto ma io lo so già che quel cazzo di sensore non funziona e al primo chicchirichì prendo la macchinetta che distribuisce le gomme da masticare che ho accanto al comodino e gliela scaglio addosso. Senza contare che anche certe sicurezze vanno in pezzi se mentre ti giochi le tue migliori carte d’amatore nell’altra stanza nitriscono. Non c’è partita.
Si avvicina l’ora. Non c’è verso.

martedì 20 marzo 2012

vecchie storie

oggi suono una vecchia canzone, di quelle che le arpeggi a fil di corda, senza fatica, per la gioia minima di sentirle riempire ancora una volta la stanza





Udine dei primi anni Settanta non era ancora uno dei gangli pulsanti del nordest produttivo. Non era neppure la reduce dello scellerato terremoto. Il miracolo economico in Friuli s’era sentito appena, c’erano le fonderie, qualche fabbrica sparsa ma era ancora terra di contadini. Quelli rimasti, che i friulani s’erano sparsi ai quattro venti per cercar fortuna.
A Udine c’erano un mucchio di caserme, a dire il vero in tutto il Friuli era un proliferare di fortezze Bastiani perse tra Carnia e Carso. Mio padre era un militare e siamo piombati dal nostro Sud su Udine perchè il lavoro per uno che difende la patria era concentrato tutto lì, baluardo contro il pulsante pericolo rosso. Se mio padre fosse stato operaio saremmo finiti a Sesto San Giovanni a canticchiarci nell’orecchio tutte le mattine la canzone dei Gang. Invece si partì per Udine. I meridios, i napuli, i terroni, i mandarini da quelle parti non erano ancora roba diffusa. Malgrado la mimesi linguistica attivata, malgrado il biondo e gli occhi chiari, era palese che ero cosa altra. Piombammo su Udine nella primavera del Sessantotto, io coi miei tre anni e il respiro incerto, mia madre con la rinuncia alla vita agiata per seguire l’amore, mio padre con la mimetica sbragata e una macchina nuova, l’unica della nostra vita, ordinata alla Fiat per l’occasione. Se uno compra l’unica auto nuova del suo esistere e la compra di una nota marca torinese e la ordina nella primavera del Sessantotto poi non si deve lamentare. E noi per mesi, a piedi nella città sconosciuta, abbiamo fatto come se fosse normale mentre dai cancelli di Mirafiori il nostro 124 bianco non usciva mai.
Stavamo in un appartamento piccolo al primo piano. I soldi se ne andavano in buona parte per l’affitto e poi si mangiava le cose di plastica dei supermercati in  quegli anni lì che quando allo Zecchino vinse “il caffè della Peppina” a me sembrava una canzone neorealista. Si stava parecchio in casa, con la tele a due canali biancoenero e con la merenda a base di pane e marmellata. Le confetture arrivavano in certi pacchi di mia nonna che sembravano gli aiuti umanitari al Burundi e dentro c’erano i carciofini, le sopressate, le tende per la cucina, le foto di battesimi e comunioni di parenti mai visti. C’erano pure i vestiti dismessi delle mie cugine e lo capisco che si risolveva una parte del bilancio familiare ma uno già deve fare lo sforzo di integrarsi e se si presenta a scuola con un cappotto rosso e i bottoni dorati può avere qualche difficoltà in più. Se poi si toglie il cappotto e ha un maglione, fatto ai ferri dalla zia, con scene di vita campestre prive di qualsiasi proporzione e la gallina e la casetta che sono alte uguali, le cose si complicano vieppiù. Per buona sorte erano anni tristi per quasi tutti e nessuno a scuola poteva fare tanto il fighetto. Da più grande ho scelto d’essere punk così giustificavo gli anfibi vecchi di mio padre ai piedi e un assurdo, pesantissimo pastrano che se appoggiavi l’orecchio alla tasca destra sentivi ancora il Piave mormorante.
La camera mia era arredata con un lettuccio di ferro e un baule in legno pesantissimo che serviva a tenerci i giocattoli. Per sollevare il coperchio del baule, facendolo ruotare su cardini bastardi, ho rischiato più volte le falangi. Le dimensioni incredibili del baule non erano giustificate dal contenuto, che di giocattoli  se ne vedevano rari, giusto qualche soldatino per inventarmi le avventure di un padre che vedevo poco. All’epoca pensavo che i figli dei fruttivendoli avessero dei fruttivendolini con cui giocare, i figli dei medici dei medicini e così via. Lo giuro.
Dalla finestra di camera mia vedevo il palazzo di fronte. Al primo piano c’era un appartamento con una terrazza che ci si poteva allestire un paio di campi da tennis regolamentari e ancora avanzava. Tutto il tetto della coop dove si faceva la spesa era la terrazza di questi qui di fronte. In quel privilegio lì ci scorazzava un bambino, sempre da solo. Il padre lavorava in banca, questo seppi un giorno. Mi feci l’idea che la banca dovesse essere di loro proprietà. Insomma, questo bimbino della medesima età mia aveva sempre un sacco di giocattoli nuovi, prevalentemente a tema aerospaziale, che quelli erano gli anni della corsa alla conquista dello spazio ma anche del telefilm UFO con gli intercettori e il comandante Streicker che vigliacco se so come si scrive. C’erano tutte queste marche di modellini “in metallo pressofuso” recitava la pubblicità su Topolino, e si chiamavano Dinky Toys, Mebe Toys, Corgy Toys. Io avevo i soldatini Baravelli con certi difetti di fusione che il fucile sembrava la pala per fare le pizze. Quello lì, quel bambino lì, aveva invece tutti gli aerei e le navicelle e le macchinine e anche un casco da astronauta che se lo infilava e si accendevano le luci con l’intermittenza. A me era dato sapere di questi suoi averi perché passava il tempo a gridare “ammaraggio”, “decollo”, “aziona i flap”, nella foga di far vivere ai suoi giochi avventure mozzafiato. Passavo la giornata incollato al vetro della mia finestra, con le ginocchia piantate sul baule che avevo posizionato strategicamente. Così almeno serviva a qualcosa. Sorridevo quando abbatteva nemici, andavo in ansia quando annunciava un’avaria, non sapevo cosa cazzo fossero i flap. Lui, dal canto suo, se n’era accorto e tutto quel circo lo faceva solo nella porzione di terrazza che stava di fronte a casa mia. Quando mia madre mi chiedeva notizie di me, nemmeno vivessimo nella reggia di Caserta, rispondevo “sto guardando Missile”. Avevo iniziato a chiamarlo così per gioco, quasi una piccola vendetta da pitocco che irride il re, ma alla fine Missile era diventato il suo nome naturale, privo di qualsiasi sfumatura. Un giorno, mentre camminavamo bordo strada con mio padre che poco sapeva di me, passò una macchina veloce e ci lavò alzando un’onda anomala da una pozzanghera enorme. Gridai d’istinto “ammaraggio” e mio padre mi guardò sbigottito mentre i nostri vestiti Postalmarket piangevano lagrime d’oltraggio. Pensa tu se avessi gridato “aziona i flap”.
A questo punto vale la pena spendere due parole sui miei genitori. Mia madre arriva da una famiglia di imprenditori, proprietari di fabbriche, aziende agricole e lusso ardito. Al contrario mio padre cresce in una famiglia di pescatori e marinai, mille figli e pochissimi soldi. Insomma una vera storia d’amore di quegli anni lì. Pino, mio padre, era bravissimo a scuola ma essendo povero, aveva due possibilità rapide per continuare a studiare: o diventava prete o entrava nell’esercito. Visto e considerato che la predisposizione di mio padre, che è poi cosa genetica che mi ritrovo, mal si accorda coi doveri dell’abito talare, una volta si beccò pure un Auricchio nella nuca scagliato dal padre pizzicagnolo di una sua fidanzata, scelse l’esercito. Gli erano rimaste però le stimmate della sua giovinezza di strada e ancora adesso se vede un albero carico di frutta non può trattenersi. La mamma invece cercava di salvare la forma in quel suo cadere a picco dall’agio alla borghesia piccola piccola, arrivando a comprarmi un cappello da fantino che secondo lei dovevo indossare nella vita di tutti giorni. Col cappotto rosso da femmina. Conciato così mio padre la domenica mi portava a rubare la frutta e a pescare di frodo nelle valli del Natisone. Quando saccheggiavamo i fiori di zucca indossavo un enorme paio di guanti da elettricista per proteggermi da quelle spine sottili sottili. Mio padre aspettava a bordo strada col motore acceso. Solo ora capisco che nessuno ci avrebbe mai detto niente per quelle mele stroppiate che si potevano mangiare solo cotte e certe castagne stitiche ma allora la nostra tabella dietetica dipendeva molto dal bottino del finesettimana e dalla prontezza di riflessi di mio padre quando una bestia commestibile attraversava la strada. A volte ce ne andavamo sul greto del Torre e recuperavamo cose inutili, tipo un cavo telefonico lungo qualche centinaio di metri che rimase in cantina per anni. Noi il telefono l’abbiamo messo nell’ottantasette. Quando sono venuti a istallarlo il cavo mia madre lo aveva già buttato via e non abbiamo potuto vantarci.
Una sera mio padre mi svegliò per mostrarmi il regalo che mi aveva portato. Di solito erano scatole di Settesere Perugina che erano degli assortimenti di cioccolatini che vinceva al biliardo del circolo ufficiali. Di solito quando tornava la sera coi cioccolatini poi i miei litigavano. Un giorno mio padre ha vinto la medaglia d’oro a boccette e allora le acque si sono calmate che s’è capito che era uno sportivo vero e non un tiratardi. Vedi alle volte a trarre subito le conclusioni. Quella sera però il regalo era davvero merce preziosa: un pallone da calcio. La marca non me la ricordo ma era tipo i Supertele che sono quei palloni leggerissimi che costano niente ma in genere si bucano se li guardi troppo intensamente o se uno fa un rumore improvviso. Quando si giocava con quei palloni lì, dopo il goal nessuno esultava per non compromettere l’unità molecolare del Supertele. Insomma mi ritrovo questo pallone bianco a scacchi neri al centro della mia stanza, ovvero tra il letto di ferro e il baule di legno, che vivevo come Ismaele a bordo del Pequod. Non mi ricordo la reazione, so per certo che non litigai con mio fratello per il possesso dell’ambito oggetto perché ero ancora figlio unico. Voglio immaginare che stropicciai gli occhi, percorso da fremiti come i bimbi della pubblicità del materasso che cantavano bidibodibù e erano tutti boccoluti. Purtroppo io già da piccolo ero brutto e facevo piuttosto l’effetto di un randagio che viene svegliato con un secchio d’acqua ma in ogni caso penso che aprii gli occhi e vidi la mia vita di bimbo occupata dalla presenza di un pallone da calcio. Da non crederci. Da non credere soprattutto che mio padre l’avesse comprato alle dieci di sera. Chissà dove l’aveva recuperato. Non feci domande, ingombrato dall’unico pensiero del pallone.
Rimasi tutta la notte a fissarlo e di tanto in tanto mi alzavo, lo toccavo, lo annusavo. Il mio pallone. Il giorno dopo era domenica e a questo punto della narrazione dovrei dire “lo ricordo come fosse adesso”. Colazione lampo ingollando il solito panellatte e fuori, che in casa non si gioca a pallone. Il cortile divideva il mio palazzo da quello di Missile. A dire il vero come calciatore ero imbarazzante ma mi muovevo gridando frasi inconsulte come in una indiavolata telecronaca e sparavo sulla parete del palazzo. Del palazzo di Missile per la santa precisione. E lui si affacciò dalla terrazza e rimase a fissarmi e io mi indiavolai cento volte di più. Poi rientrò in casa e i calci miei divennero quasi annoiati e stavo già pensando di tornare a casa quando lo vidi. Era lì, davanti a me, alto come me. Avanzava nel cortile. Missile aveva abbandonato le sue basi spaziali e i suoi misteriosi flap e aveva deciso di scendere in cortile colmando lo spazio tra la mia finestra e la sua portaerei terrazza. Quello che però attrasse la mia attenzione era il pallone. Il suo pallone. Non una cosa qualsiasi ma il signore di tutte le sfere calciabili. Il pallone di cuoio, il Santo Graal di tutti gli eserciti dei campetti rinsecchiti di periferia. Io e quelli come me il pallone di cuoio nel negozio cercavamo anche di non guardarlo che sembrava brutto. Insieme alla bici cross con la radio che stavo cercando di vincere col concorso delle merendine a cui probabilmente devo il degrado attuale del mio fisico, il pallone di cuoio era in cima a tutti i miei desideri. Missile lo posò a terra senza guardarmi e cominciò a tirare calci maledetti a quella meraviglia di pelle bovina. E ogni volta che colpiva il muro, del mio palazzo ovviamente, quel rumore pieno era il segno dell’umiliazione feroce. Mi misi a sedere sul cordolo di cemento col mio sgalfo pallonastro tra i piedi. Sentivo che nell’intimo della mia stanza gli avrei voluto bene ancora, come certi cani che li prendi da piccolo e poi crescono e sono orrendi ma tu, sdraiato sul divano, gli gratti la schiena di puro affetto, incurante che con l’età hanno pure preso il vizio di scoreggiare. Però in quel momento battevo in ritirata sconfitto in impari confronto. Di colpo Missile parve stancarsi del suo tramestio cuoiuto e si mise a sedere di fronte a me, con la schiena appoggiata al muro, il suo muro. Sazio di quelle pallonate corpose. Il pallone lo lasciò lì, in mezzo al cortile. Quasi non gli interessasse più e intendesse abbandonarlo. Furono minuti pesanti. Sospesi. Poi mi alzai e mi accostai alla cuoiopalla. Missile mi guardava stupito. “Posso fare un tiro” dissi, ed erano le prime parole tra noi. Ancora carico di meraviglia fece un cenno d’assenso con la testa e non aveva nemmeno finito che avevo già caricato un puntalone cattivo su quel pallone di vacca sacra. La botta fu tremenda. Lo presi in faccia, e giuro che non era nelle mie intenzioni, almeno in quelle manifeste. Il poveretto andò a sbattere forte con la nuca contro il muro a cui era appoggiato e si accasciò riverso con un rivolo di sangue che gli usciva dal naso. Sbarrai gli occhi. Presi il mio pallone e mi diedi alla fuga. Arrivato a casa dovevo averci l’aria terrorizzata. Mia madre mi chiedeva con insistenza cosa avessi. “Missile è morto” dissi a un certo punto rompendo il silenzio. E dire che m’ero giurato di non confessarlo mai. Mia madre s’allarmò e mi chiese spiegazioni: “Niente, è venuto giù a giocare e a un certo punto è morto. Da solo” “Ma dov’è adesso” “Giù”. Corsa per le scale di mia madre con me al seguito. Missile era ancora lì per terra e piangeva. Segno che non era ancora completamente morto, pensai io. Questione di minuti. Mia madre lo soccorse. Non ricordo molto ma a un certo punto arrivò anche la sorella di Missile, la stessa che anni dopo ascoltavamo di nascosto mentre chiusa nella sua stanza col fidanzato faceva delle misteriose prove ginniche e di respirazione. Chiesi scusa, perché la regola della palla a Missile prevede che il vincitore chieda scusa sotto lo sguardo minaccioso della madre.

Qualche giorno fa ho portato mio figlio di cinque anni a vedere il cortile in cui sono cresciuto a Udine, adesso vivo a Torino. Non ho resistito e sono andato a leggere i campanelli. La famiglia di Missile vive ancora lì. Sul muro, certo frutto della suggestione, m’è sembrato di ritrovare le tracce di quel nostro sport. Uno di questi giorni a mio figlio gli spiego cos’è un flap che non voglio che arrivi impreparato a certe tappe della vita.

giovedì 15 marzo 2012

la misura della rabbia





Ci vorrebbe una misura del crampo che prende alla pancia certe volte, un goniometro della rabbia. Ci vorrebbe ancora un maledetto sistema metrico decimale delle disperazione, una scala Richter delle maledizioni al cielo. Una convenzione con un metro campione depositato all’istituto mondiale del dolore, così da agevolare certa narrazione che s’arena dove le parole, tutte le parole, non bastano più.
Ci vorrebbe almeno una canzone.

Ho conosciuto musicisti che hanno cantato la loro canzone migliore guidando in macchina con me verso il mare e dimenticandosela all'autogrill. Ho conosciuto donne dai pensieri affilati che troppo spesso ci hanno dato un taglio. Ho conosciuto l'odore della morte di troppi, tutti lo stesso giorno, tutti in fila come birilli di un bowling maledetto. Ho conosciuto persone che sopperivano alle volute calcificate del loro cervello con un uso disinvolto del luogo comune. Ho conosciuto mitezze che nascondevano la fottuta maledizione di non aver coraggio mai, una buona ragione per pugnalare nel buio, per esercitare la delazione, per garantirsi quell'ernia esistenziale che sempre regala l'anonimato e il nome d'arte. Ho conosciuto maschi con la macchina giusta, l'orologio giusto, le sopracciglia giuste, la camicia giusta e niente da raccontare, accoppiati a femmine altrettanto giuste con la pelle abbronzata anche dalla nebbia e il tacco spacco e le parole accelerate da una furia cieca tutta scaricata sullo smartphone continuamente cambiato con uno più nuovo. Ho conosciuto idraulici che ti giurano che non dico tutte ma almeno una su tre quando ti presenti in casa... Ho conosciuto politici che comunque la pensassero volevano spiegarti che la pensavano come te. In fondo. Ho conosciuto insegnanti vuoti come bottiglie spiaggiate, rimasti anni alla deriva, dondolati dall'onda delle supplenze e dal respiro accelerato dalla pubblicazione della graduatoria, entrare in classe senza sapere perchè mai fossero finiti lì. Ho conosciuto gente che si presentava a mano tesa dichiarando d'essere artista. Ho conosciuto gente che si presentava a pugno teso dicharando d'essere anarchico. Ho conosciuto gente immaginarsi l'uno e l'altro senza che nulla desse adito ma all'aperitivo con gli altri artisti tutto filava liscio. Ho conosciuto gente marcatamente segnata da tare agghiaccianti inneggiare alla razza pura. Ho conosciuto parole e carne che ne valeva la pena malgrado tutto.

martedì 13 marzo 2012

Un dolore sordo



Mi sono comprato l’ultimo numero di Zagor a colori che esce con Repubblica ma il patto con l’edicola è che mi passano solo il fumetto che io sono uno che preferisce le storie vere alle cazzate dei giornali. Entro al bar e al bancone c’è la sorella di Vincenzo, che lui sta fuori con quelli della termoidraulica a fumare e a parlare di roba seria tipo lo stereo della macchina e il video di Belen che tromba. Vincenzo il video di Belen che tromba me l’ha fatto vedere nella televisione col dolby surround che si è fatto montare nella macchina da quelli del tuning di fronte e così abbiamo preso due piccioni con una fava. La fava è filologicamente corretta in questo caso qui. Se non hai mai sentito i gemiti di un porno casereccio sparati a mille dentro l’abitacolo di una Golf, pressato con altri cinque idioti ancora non sei pronto per la strada amico. Se non hai prima mangiato i cannelloni e il polpettone che preparano la moglie e la mamma di Vincenzo non hai futuro nella strada. Uomo avvertito, cazzi suoi. Mangio al Bar Sport, non sto scherzando,  da anni e per intenderci è lì che mi fanno il cappuccino con scritto SUKA col cacao che potete ammirare se siete amici miei su facebook.
Insomma mi metto al tavolino con Ste e il caffè e Zagor e nessuna voglia di andare a lavorare. Entra Carlo che è il fantasmagorico padre di Vincenzo, che a dire il vero è tutta una famiglia che sembra il casting di Guerre stellari. Carlo va per la settantina e se li porta splendidi che grazie alla forza sua ancora ne stronca a braccio di ferro e grazie alla chimica recente si può permettere serate nei locali da ballo con trionfi sessuali mica da ridere. Ha sempre un cappotto nero lungo di pelle. Amatrix. Una dolce vita nera e l’aria di uno che le ha viste e quella classe da duro sempre che è roba da storie marsigliesi di vecchio cinema. Un mio idolo assoluto che m’onora della sua confidenza e a volte ho la suggestione che mi parli da pari a pari. Con la parlata meridia e la voce impostata. Grandissimo. Un giorno ha detto a Ste “alla mia età mi tocca andare a ballare ma devo puntare quelle avanti con gli anni, che giusto le quarantenni ormai mi stanno a sentire”. Ste non gli ha detto niente perché nulla si può dire all’uomo monumentale che è.
Oggi è al bancone, mi saluta e continua a leggere quei quotidiani che ti passano gratis ai semafori. Entra una coppia anziana che sembra uscita dai fanghi dell’alluvione di Firenze. Sono di quell’epoca lì e son tutti sconquassati e hanno gli occhiali con le lenti azzurrate lui e lei uguali. Carlo alza gli occhi al cielo e ringhia una maledizione. I due lo puntano e cominciano a strepitare. Sono sordomuti e parlano emettendo suoni indistinguibili. A guardarli c’è da giurarci che avessero anche il dono dei sensi mancanti non li capiresti lo stesso. Carlo annuisce e sorride e ogni tanto si esprime a rapide frasi. Loro insistono e si accalorano. Lui annuisce ancora e poi dice “ma tu lascialo stare a quello. Le cose che dice ti devono entrare da qui e uscire da qui” e indica col dito  prima l’orecchio sinistro e pi quello destro. Non ci posso credere. Ste mi dice di smetterla di ridere ma vedere Carlo stretto all’angolo da quei due che lo martellano e lui che cerca di tenerli buoni è fantastico. Vale essersi svegliato. Poi se ne vanno e io mi complimento perché riesce a capire e a rispondere “Ma chi? Ma che cazzo dici? Ma ti pare che io li capisco a questi. Stanno nel palazzo e io sono capocondominio e sono vent’anni che mi scassano i coglioni e mai che riesca a capire cosa vogliono e strepitano che io da anni esco di casa e guardo nel pianerottolo sotto se ci sono loro e per strada cambio direzione se li vedo da lontano. L’unica cosa che capisco è Garello che è quello del sesto piano che è stato tanti anni ricoverato al manicomio e si litiga sempre con loro. Io dico lascia perdere ma il brutto è quando fanno la domanda e aspettano la risposta. Allora io dico che mi sta squillando il cellulare, tanto mica sentono, e faccio finta di rispondere e poi dico devo correre c’è un emergenza che nemmeno se ero i pompieri mi veniva in mente di dirlo. Comunque vogliono da anni il videocitofono ma mica glielo pago io che tanto va bene che vedi chi è ma come cazzo fai a sentire se ti suonano. Sei punto e a capo, dico io. Ora mi pare che ha detto dicembre. Forse vuole pagare  il citofono con la tredicesima ma senza sapere né leggere né scrivere faccio orecchie da mercante”.

lunedì 12 marzo 2012

confessioni di un artista di merda.


 

Dovevo averci intorno ai cinque anni e posso ben dire che è il primo ricordo che gestisco in memoria in tutta la sua completezza. Dall’inizio alla fine ricordo tutto, le voci, le luci, i sapori e gli odori e non è di poco conto vista la vicenda. Insomma un venerdi partiamo alla volta della campagna. Partiamo dal Friuli e puntiamo il muso della gloriosa 124 bianca, che accompagnò i nostri spostamenti per una quindicina di anni, in direzione della campagna modenese. Siamo ospiti in un’azienda agricola. Dopo un anno in caserma un ragazzo congedandosi aveva detto a mio padre di andarlo a trovare e di solito son quelle storie che muoiono con il tempo e con la distanza e invece noi siamo partiti sul serio e un pomeriggio siamo piombati nell’aia di questa fattoria enorme. Centinaia di maiali. Interi capannoni riempiti di maiali e poi le mucche nelle stalle e i conigli. Mi ricordo una bambina, che io avevo già il vizio di innammorarmi perdutamente, che mi portava a vedere i coniglietti piccini. Poi un cavallo di quelli che lo vai a vedere con tuo padre e lui si sente in dovere, lo fanno tutti i padri e l’ho fatto anche io in conclamata paternità, di trattare l’animale con confidenza accarezzandolo con pacche da intenditore che sono poi come i calci da intenditore che si assestano alle gomme delle auto da comprare usate. Roba che facciamo per istinto e senza nessun fondamento scientifico. Mio padre gli parlava al cavallo con la voce che devi avere per comunicare in corsia privilegiata con quelle bestie lì e già grazie che l’equino ha cercato di morderlo senza successo che altrimenti toccava spendere una cifra in ricostruzione massillo facciale. L’episodio non intaccò minimamente la stima che nutrivo nei confronti di mio padre che a quell’età ogni padre è Zagor al figlio suo. Ammetto che al turno mio come padre ho approfittato parecchio della cosa indossando spesso la maglia di Zagor per maggior enfasi. Ho però capito che il padre eroe invincibile è stato superato quando nel tema mio figlio, parlando di me, ha scritto “mio padre è molto simpatico perché fa ridere anche quando non vuole fare ridere e ama guardare Chi l’ha visto? in televisione”. Due anni prima aveva scritto “mio padre guida la moto e i fuoristrada e sa tutto del bosco e del mare e è come un esploratore. Lui riesce a parlare ai cani e agli animali che cattura molto facilmente”. Come posso dire come passa il tempo, come posso dire come passa in un lampo.  Mi state portando fuori tema. Dunque, arriviamo in questa enorme azienda agricola e noto oggi una distanza significativa tra la gestione del lavoro che era tecnologicamente avanzata e lo stile di vita dei nostri ospiti. Vivevano tutti in una enorme casa e quando dico tutti intendo una quindicina di persone almento. Non avevano il bagno e le opzioni era andare in una latrina esterna o fruire dei pitali distribuiti per la notte. Il regime alimentare era spaventoso e ve lo dice uno che com’è noto mangia come un sarcopedonte nel periodo degli amori. Insomma la sera ci portano in questo stanzone con un letto matrimoniale e certi mobili in legno scuro dove avrebbero trovato sistemazione i miei e attigua a quella stanza ce n’è un'altra in cui il padrone di casa custodisce una collezione incredibile di bottiglie di liquore mignon. Tutte le pareti fino al soffitto sono occupate da mensole su cui sono distribuite centinaia e centinaia di bottigliette con tutti i liquori del mondo. Una sorta di mausoleo dell’alcolismo. Un baluardo all’espansione dell’Islam. Mi aprono una brandina proprio al centro della stanza delle bottigliette. Chiedo a mia madre di fare pipì e lei guarda mio padre che riprende l’aria da Tarzan della pianura padana e mi fa cenno di seguirlo. Andiamo fuori, dietro un trattore rosso marca Same e giù a pisciare della bella che in viaggio avevamo bevuto a gargarozzo dal thermos del tè che mia madre all’epoca riteneva improponibile partire senza un thermos riempito di una qualche bevanda casereccia. Bellissimo pisciare così, padre e figlio affiancati a chi arriva più lontano. Da padre scopri che i figli hanno un potentissimo getto che ti scatena dubbi sulla prostata e sull’utilizzo sfrenato del tuo attrezzo che negli anni ha lasciato segni ma ormai non puoi più porci un frenulo.  Torniamo dentro e mia madre, che all’epoca faceva tutte quelle diete delle donne degli anni Settanta e che si chiamavano “dieta del fantino” “dieta dell’astonauta” “dieta del Biafra”, ci guarda e pare stia per scoppiare a piangere. La tavola è invasa di maiale in tutte le forme possibili e anche qualcuna che non sospettavamo. Una betoniera di tagliatelle viene scolata in una struttura che ricorda i forni Martin Siemens che erano l’ossessione di quell’ebefrenico del mio professore di educazione tecnica alle medie. Per un ‘ora buona si sente rumore di mascelle, che mi immagino sia quell’atmosfera che si crea negli allevamenti di alligatori al momento del cibo. Giù a bere vino, riempiendo anche il mio bicchiere. I miei a fine serata salgono le scale verso la camera muovendosi come facoceri nutriti con  grosse quantità di mousse di LSD. Arriviamo nella stanza, chiudiamo la porta e abbiamo le facce degli ospiti di quel motel vicino alla palude ma all’epoca devo precisare che il film non l’avevo ancora visto e quindi quello che vedevo dipinto sui volto dei miei era un generico orrore. La notte mi son svegliato molte volte. La luce che entrava dalla finestrella faveva brillare di mille riflessi inquietanti le bottigliette di liquore e ogni volta che mi rigiravo nelle coperte sentivo dei tintinnii provenire dalle pareti che non promettevano nulla di buono. E poi nell’angolo basso c’era una bottiglia di Zabov e io da sempre ero goloso di quel liquore ma era un amore mai consumato e rimasto a certe schermaglie tra me e le bottiglie sugli scaffali del supermercato. Ora lo Zabov era lì a pochi centimetri dal mio viso. Senza sapere né leggere né scrivere restavo immobile in simulazione di rigor mortis, attendendo l’alba liberatrice. La mattina mia madre mi sveglia e mentre mi vesto vedo il pitale vicino al letto dei miei. Mi avvicino ed è riempito significativamente. Chiedo a mia madre cosa sia quella roba che a tutta prima sembra proprio cacca ma non ci posso credere e soprattutto nessun umano può produrre una simile quantità per quelle che sono le mie informazioni. Mia madre mi dice lascia stare e vieni via. Senza spiegazioni. I miei sono in un disagio evidente. Sono stati male tutta la notte. Mio padre soprattutto che ha fatto l’uomo e ha tenuto testa su cibo e vino. Scendiamo in cucina e le vecchie di famiglia stanno friggendo lo gnocco che è questo bolo fritto e gonfio che si accompagna agli affettati. La colazione è lì che ci aspetta. Ho la sensazione che mia madre stia per piangere. Invece dice “stanotte il piccolo ha avuto qualche problema al pancino e abbiamo dovuto usare il vaso”.Sbarro gli occhi. Bastardi, non sono stato io. Mia madre mi guarda con l’aria che fanno le madri quando devi restare zitto sul serio. Le vecchie mi circondano e mi dicono cose tipo “Hai preso un colpo d’aria piccolino. Ora ti facciamo una limonata calda e passa tutto”. Un incubo. Mio padre sta a capotavola e gli hanno infilato uno gnocco fritto con la coppa in bocca. Versano vino. “Posso andare a giocare fuori” dico io che spero di reincontrare la bambina dei conigli. “Vai, vai che noi si sta qui a far due parole mangiando qualcosina”. Chiudo la porta alle mie spalle lasciando i miei in balia dello gnocco fritto. Sono decisioni che pesano ma l’istinto di sopravvivenza prevale. Esco sul piazzale e decido di avventurarmi tra i capannoni dei maiali. A dire il vero voglio andare a vedere come funzionano le mungitrici. Corro con i calzoni corti e i sandaletti ai piedi. All’epoca si usavano dei sandalini in tela bianca e blu con un automatico sulla fibbia che li allacciava alla caviglia. Il materiale su cui si basavano quei sandali era la pelle di bambino che si limitavano a coprire con esili strisce di tela e una suola fatta con la cialda. Scorazzo per l’erba alta con quella leggiadria che è sempre stato un mio elemento distintivo anche all’epoca che ero secco come un cane randagio e i miei usavano lo spazio che si vedeva tra le mie costole per tenerci le riviste. A un certo punto sul lato sinistro vedo un bel vialetto di cemento bianco bianco.  Decido di spostarmi lì per correre agevolmente. Salto e quello che a tutta prima m’era parso un solido vialetto di cemento mi inghiotte con un rigurgito che ho ancora nelle orecchie. Comincio a sprofondare e sotto quella densa schiuma bianca, roba compatta come il calcestruzzo, c’è un pozzo di raccolta della merda dei maiali.  Le merde mobili mi afferrano alle gambe e mi  tirano giù e io per fortuna peso poco e mi aggrappo al bordo con le mani e quella roba mi copre tutto e nello sforzo di tirarmi fuori mi entra in bocca, mi riempie le narici e le orecchie.  Per la paura potrei cagarmi addosso e nessuno se ne avvedrebbe ma non succede. Sono il solito distrattone. MI tiro fuori a forza di braccia di bimbo e è uno sforzo di cui ho lucida memoria, una cosa disperata che diventerà metafora di tutta la mia esistenza. Mi son fatto grosso e testardo a forza di strapparmi ai gorghi di merda. Cominciando da lì. Finisco nell’erba esausto. Un sandaletto e i calzoncini son rimasti dentro, a far prova della forza maledetta che mi imprigionava. Scoppio a piangere ma vorrei vedere voi dopo una notte tra le bottigliette mignon e la mattina che t’accusano di aver prodotto materiali organici che nemmeno un rinoceronte e il gran finale piantato a due piedi uniti nel gran canyon della merda. Mi rialzo e nudo e straccio e coperto di merda, in un pianto inconsolabile, torno verso la casa. Fuori c’è mio padre che, reduce dallo gnocco sta con gli altri maschi della tribù a provare il trattore. Mi vedono arrivare e ,me lo immagino che tutti quelli lì pensano “ma allora stava male sul serio il bambino” a vedermi sdrucito e coperto di merda. Mio padre mi grida “Cos’è successo” “Son caduto nella cacca delle mucche” dico io che solo dopo scoprirò che quella di mucca non è nera nera e liquida. “Fermo lì” mi grida ancora il genitore. Poi prendono unna pompa di quelle da antisommossa e me la sparano addosso che nemmeno Rambo, il primo per intenderci, nell’ufficio dello sceriffo.  Una volta sgrossato le donne mi mettono in una grossa tinozza e via di sapone. Il sapore in bocca però resta, che avevo paura di avvicinarmi troppo alle persone per paura che si sentisse il respiro. Poi nessuno mi cura più e tutti tornano a tavola. Il pomeriggio partiamo e dopo sei chilometri mio padre accosta e dorme per sette ore mentre io resto nel sedile di dietro a sentire nelle orecchie il risucchio della bestia maledetta che mi aveva rubato la scarpa e le braghe. Qualche settimana dopo cui arriva un pacco, mia madre lo apre e dentro c’era un sandalo e i calzoncini. Anche no, grazie, devo aver pensato io. Quelli però eran gente precisa.

Una mattina d’estate mia madre sta mettendo a posto la camera mia e sta ribaltando tutto perché io la sera prima in strada ho trovato questo cane che ho chiamato Diana come il cane di quando mio padre era piccolo a  Anzio, che gli inglesi gliel’hanno ammazzato davanti agli occhi per entrare in casa. Di nascosto mi ero portato Diana in camera e me l’ero ficcato nel letto e avevamo dormito della grossa e al mattino avevo le pulci come un randagio che si rispetti. Ammetto che sotto il profilo igienico sanitario ho dato del filo da torcere ai miei. Insomma mia madre stava bollendo la cameretta e a un certo punto mi chiama “Giorgio, vieni un attimo qui”. Doveva essere una cosa grave perché a me e Diana avevano interdetto la stanza. “Cos’è questa?” “L’ho trovata in cortile” “Smettila di raccogliere qualsiasi cosa in giro” “Va bene”. E fu così che la bottiglietta vuota di Zabov venne buttata nella spazzatura.

 

mercoledì 7 marzo 2012

viaggio al termine della botte

io sento che puoi farcela da solo ma te lo rammento. fai andare la canzone e leggi.


On the road again. L'estate è una cosa consistente che morde le spalle con quell'insistenza di sole e ti fa scappare la voglia di metterti al tavolino del bar di piazza e ordinare una qualsiasi bibita ghiacciata anche se non hai un soldo in tasca. I denari guadagnati in nero per un notissimo sindacato, compilando a mano centinaia di dichiarazioni dei redditi per gli iscritti, sono finiti.  Noi che siamo tutti studenti di lettere e affini e che per un mese abbiamo ripetuto "ha cose da dedurre, chessò spese mediche, spese per un funerale, un'assicurazione sulla vita" mettendo in piedi una ghigna da jettatori mica da scherzarci. Ora stiamo lì, qualcuno ha anche passato un esame o due. Dallo stereo della mia 127 verde arrivano suoni che pompano ancora voglia di andare e l'impianto è un radione attaccato coi fili e il nastro direttamente a un accrocco che si alimenta con la batteria della macchina e per questo quasi sempre tocca spingere per partire. Mi ricordo perfettamente come mi sento. Ho fatto l'amore tutta la mattina con la finestra che regala un cielo senza fine e sembra di scopare col mondo tutto. Poi abbiamo preso la macchina e siamo andati a mangiarci la pizza coll'acciuga sotto la pergola dello Sbarco, con l'acqua della roggia che corre sotto le tavole di legno e quel fresco e il vino bianco ghiacciato e i cornicioni delle pizze buttati a Blu sotto il tavolo. Al tavolo di fronte c'è uno che ha lasciato il triciclo con le ferraglie di recupero a prendere il sole e si è fatto una porzione di baccalà e fottuto lui si sta tagliando le unghie delle dita dei piedi con un cazzo di tronchesino e le schegge partono da tutte le parti e se mi finiscono nella pizza mi alzo e ti svito la testa dal collo. Te l'ho detto e hai sorriso senza alzare la testa, che lo sai che posso davvero farlo se son preso brutto, e anche io rido e ora sei morto ma quel carretto mi piacerebbe sapere dove è andato a finire, che troppe volte te l'abbiamo spostato e tu uscivi dal bar e senza fare una piega ti mettevi a cercarlo e ripartivi urlando "merde, siete tutti delle merde". Ti volevo bene ma vigliacco se te l'ho mai fatto sospettare. La regola.
 Insomma a fine pasto arriviamo dalle parti della casa dello studente e restiamo lì con la radio che arriva dalla macchina e quella maledetta contr'ora che sfianca e i pensieri spalancati a far passare l'aria e parole lente e risate soffiate appena e un paio di birre che girano. Poi viene fuori 'sta storia del pane di Matera e la salsiccia come dio comanda e i falchi grillai, che è una cosa troppo lunga da spiegare ma io li volevo vedere. "Andiamo a Matera" "Quando?" "Domani.""Ma non abbiamo una lira che sia una""Cerchiamo qualcuno che venga con noi". All'epoca c'erano le schede telefoniche che le infilavi nella cabina e parlavi e tutti avevamo delle schede con un pezzo di nastro adesivo strategicamente messo in un punto per cui su alcuni telefoni pubblici che avevamo imparato a riconoscere parlavi e alla fine della chiamata ti ricaricava intero il credito. Da non crederci ma ho tutta la mia generazione che può testimoniare. Piuttosto mi piacerebbe sapere chi è il genio che ha inventato il trucco ma questa è un'altra storia. Alla fine Marcello dice che a lui farebbe anche comodo tornare a casa a Matera e quindi non resta che passare da Venezia a prenderlo. Le ruote della 127 sono alla frutta. Vado da un amico coll'officina e gli spiego e senza dire niente mi monta un paio di ruote enormi davanti, cerchione con stemma alfa romeo e gomma, e mi dice "ho solo queste ma te le regalo". La macchina sta alzata davanti come un maledetto chopper. Dietro abbiamo messo le migliori di quelle che già montavo. Immaginatevi una 127 verde campo con mille aggiunte a bomboletta di altri colori, il cruscotto foderato a stelle strisce e con un radione a occupare il sedile di dietro per intero. Con le gomme di un furgone montate davanti peggio dei latinos a Los Angeles. E dalla radio esce roba tipo Jorma Kaukonen o gli U2 o i Clash o le Violent Femmes o quello che raccattavamo in giro che io all'epoca amavo intrattenere gli amici con la mia imitazione di Julio Iglesias. Il cruscotto non funziona e con tocco tutto femminile lei decide di fissare una enorme sveglia al posto della strumentazione, per far vedere che non siamo proprio dei reietti. Lei è la stessa che mi aveva regalato una sorta di lampadario da mettere in macchina con tutti gatti che dondolavano e che in accelerazione sfregiavano i passeggeri ma tanto a quelli non gliene fregava che erano già mezzi morti col peso del radione da tenere in braccio e l'alito del cane che ogni volta, che raccoglievo autostoppisti dicevo "de dog is not dangerus bat dont tacce de dog" e quei poveretti si facevano pezzi di viaggio con quello stronzo di Blu che li fissava e ringhiava ma la regola ferrea era che egli mordeva solo se toccato e se sai le regole è tutto a posto. Una volta mi son caricato due danesi, lui e lei, sulla Romea e da Ravenna li ho portati a Venezia e per tutto il tempo io mi sono innamorato di lei e Blu si è odiato di lui. Io e il cane eravamo in sincrono sempre. Ci chiamavamo tutti e due Blu. Certe cose fanno identità, altro che la polenta dei leghisti. Insomma la mattina presto si parte. Abbiamo i soldi contati. Non facciamo autostrada. Andiamo piano ma andiamo. Finestrini aperti. A ottanta chilometri da Udine sento un rumore tremendo all'avantreno. Mi fermo e guardo sotto e vedo un braccetto spaccato all'anteriore sinistro. Le malelingue potrebbero ipotizzare che aver montato enormi ruote possa essere in relazione col danno. Balle. Può capitare. Così le dico mentre mi guarda interrogativa. Si ferma un uomo con un trattorino e chiede. Scende e guarda nell'intimo dell'anteriore sinistro della mia 127. Si è rotto il braccetto, mi dice. Te l'ho appena detto, vorrei rispondere, ma è la mia unica possibilità e me la gioco col sorriso rispettoso. "Aspetta qui". Sono dalle parti di San Donà e ammetto che sulla ferrata per Portogruaro ho tirato fino quasi a cento e passa. S arà stato quello dice lei. Ma cosa vai a pensare. Può capitare. L'uomo torna con il braccetto della 127 e me lo monta lì, in mezzo alla campagna. Non ci crediamo. Non vuole nemmeno i soldi che ci offriamo di dargli senza averli. On the road again.
A Venezia sale Marcello. Non ha una lira e pensava di approfittare del fatto che al telefono gli abbiamo detto che andiamo a Matera. Ripartiamo a settanta fisso. Giù per la Romea e poi l'Adriatica. A Rimini siamo fermi a un semaforo e arriva uno a palla con una macchina piena di adesivi tipo corsa dei poveri. Frena ma sta arrivando lungo. Salto sul marciapiede per evitarlo e passa con uno stridore di gomme e rischia la strage. Io di mio ho lasciato il copertone sullo spigolo di pietra. Monto la ruota di scorta piccola. Un benzinaio ci accrocca un'altra ruota di un'altra misura ancora. Andiamo avanti. Di mangiare nemmeno a parlarne. A ogni salita metto in folle e spingiamo con il moto sincronizzato dei nostri bacini sul sedile. Assesto dei colpi pelvici al volante che nessun flipper resisterebbe e forse anche qualche femmina farebbe tilt ma non è tempo ora. On the road again.
Ci fermano i carabinieri un numero di volte impressionante. Ci mollano sempre. Arriviamo nelle campagne tra San Severo e Foggia che è buio, maledettamente buio. Eppure nei campi e nei fossi a bordo strada vedo del movimento. Cazzo, ci sono poliziotti dappertutto. Stanno accoccolati dietro i muretti a secco e sparsi in giro ma li illumino coi fari. Mi viene il dubbio che ci abbiano intimato di fermarci. Sono tantissimi. Già mi sento lo scomodo dei proiettili della mitraglietta piantati nella schiena. "Ci hanno fermati""Che cazzo ne so, sono tantissimi""Minchia". Mi fermo e metto le doppie frecce che il precedente proprietario s'era permesso il lusso di far montare la doppia intermittenza e ora faccio il gradasso. Niente, dal buio arriva solo il buio. Mi figuro che ci abbiano puntato tutte le armi contro. Aspettano una nostra mossa come nei filmi e lo sa dio quanti filmi ho visto io, tutti giocati sull'ultima mossa. Avranno avvertito anche una qualche base segreta e un paio di maledetti missili a ricerca termica sono già in cammino verso di noi. Maledetto me e il vizio di portarmi dietro femmine troppo calde. Ora il missile ci becca a colpo sicuro. Decido che devo fare qualcosa. Scendo dalla macchina e avanzo verso il buio nero nero nero. Alle mie spalle l'intermittenza delle doppie frecce come nel più tragico dei presepi viventi. Mani alzate, piedi nudi, che io guido a piedi nudi d'estate, bermuda di tela grossa con le tasche alla coscia e la camicia verde colle maniche tagliate. "Scusate..." lungissima pausa in cui realizzo che il cane che mi segue sempre è rimasto in macchina. Niente di buono. "Ehm... scusate... ci avete fermato" Grido rivolto al buio."Levati dal cazzo coglione. Sparisci" "Grazie" grido senza ironia "Arrivederci". Mi giro e continuo a tenere le mani alzate che questi qui gli basta un niente e magari nessuno ha detto ai missili di interrompere la loro caccia micidiale.
On the road again. Arriviamo a Altamura che è quasi Matera ma a Matera il pane è molto più buono e se non sei dello stesso parere nessuno ti obbliga a leggere oltre e non sei persona gradita a casa mia. A Altamura hanno il Padre Peppe e l'affogato del signor Cicatidd ma il pane è cosa materana. Ora già me lo immagino che non potrò più passare da Altamura serenamente ma il coraggio della verità prima di tutto. Insomma a Altamura non abbiamo più soldi sul serio e sono sedici ore che guido a settanta all'ora. Lasciamo una patente in ostaggio e ci danno un fiato di benza per proseguire. Torniamo la sera dopo rifocillati e felici a recuperare il documento e il benzinaio ci fa vedere decine di documenti in ostaggio nel cassetto. Ci sentiamo in gran sintonia con l'universo.
On the road again non l'abbiamo mai sentita in tutto il viaggio e parlo di quella dei Canned Heat.

lunedì 5 marzo 2012

Fare cartello

dovrebbe essere chiaro ma per i timidi che tastano il terreno in punta di piede prima di ogni passo valga il consiglio: manda la musica e leggi di conseguenza. senza obbligo come per tutta la vita.




Pasian di Prato, dove la strada si allarga in un parcheggio a spina di pesce, cinque posti appena, con tanto d'aiuola. Sul cancello verde c'è un ATTENTI AL CANE scritto a mano su un pezzo di latta.
L'etichetta sul campanello non c'è mai stata ma tanto quelli che suonano difficilmente sanno leggere ed è la sua fortuna. La casetta è su un piano solo, col giardinetto curato e una magnolia che stenta a prendere. Dietro la casa c'è il garage con la serranda sbilenca che se ne rimane lì, aggrappata al cassone rugginoso della avvolgibile, e non cade da sempre.
Accanto al garage c'è una piccola costruzione in cemento con la porta di legno dipinta con una vernice gialla che si stacca a pezzi spessi e generosi. Lo studio, il laboratorio, la bottega.
Juri si alza la mattina presto. Arriva al bagno, pavimento freddissimo, con le ossa umide di un'intera notte. Mentre piscia guarda fuori, oltre la tendina. Panoramica sul giardino, stringe sul garage, zoomata sul laboratorio, dettaglio porta.
Il cane, che ha dormito di un unico sonno sotto il letto, si scuote e si stiracchia.
Juri percorre il breve corridoio strisciando i piedi pesanti sul linoleum disegnato a parquet. Ributtante. La padrona di casa lo trova pratico. Apre la porta quel tanto che basta per fare uscire il cane che, di suo, corre a pisciare sotto la magnolia stenta. Forse per quello.
Entra in cucina e, ancora in mutande, rimane davanti ai fornelli aspettando che la caffettiera faccia i suoi gargarismi. Il caffè lo scuote perchè per riuscire a berne un altro, decente, è costretto a uscire.
Fuori piove molto spesso. Juri controlla venti volte se ha le chiavi in tasca e una volta su quattro gli tocca rientrare dalla finestra del bagno. Il cane gli scodinzola tra le gambe e lui inspira forte col naso l'aria del mattino. Ha spesso il naso chiuso e quel gesto finisce per essere una citazione della caffettiera di prima. Rimane in apnea con la narice che vorrebbe fremere e invece gorgoglia. Avvicinandosi al cancello getta un’ occhiata di lato, al vialetto e alla macchina. La vecchia 127, dio l'assista, e' sempre al suo posto.
Un RIMANI QUI al cane e via fuori a coprire i cinquanta metri fino al bar CALIFORNIA, che chissà se quei tre milioni e rotti del totocalcio li hanno vinti loro o cosa.
Cenni di saluto, alza lo sportellino e prende un cornetto. Dice CAFFE' sollevando l'indice verso l'alto e masticando a bocca aperta. La ragazza annuisce. Juri cerca il giornale e lo apre sul frigo dei gelati in finto legno. Come il suo corridoio. Ogni tanto lascia proseguire la notizia oltre il giornale, fino al tabellone dei gelati e gli assassini affogano nello zuccotto e i magistrati indagano sul mistero della COPPARICA che lì, in fotografia, spumeggia di panna e amarene e dal vero non e' altro che un pezzo freddo e duro di fiordilatte variegato TAMPAX.
Molla il giornale e torna verso casa. La sua fortuna e' che il laboratorio, il suo STUDIO, ce l'ha lì, senza doversi costringere a prendere mezzi e pioggia. Gira la chiave nel lucchetto che resiste sempre al primo tentativo. Juri ci riprova paziente finchè non sente lo scatto che, con la ruggine che corre da queste parti, non e' mai come uno se lo aspetta. Domani ci metterà dell'olio.
Dentro, a far luce, una lampadina appesa al soffitto in un groviglio di nastro isolante rosso e piattina. Sul vecchio banco da falegname barattoli di vernice, pennelli sporchi, pennelli meno sporchi, diluente, bombolette, pennarelli e un vecchio normografo. Odore d'acquaragia.
Juri entra e urta con un piede la spillatrice che chissà come è finita per terra. Il pavimento non viene spazzato da un secolo e tutt'attorno c'è un aria da dopo la piena. Passa dall'altra parte del bancone e apre un'altra porticina in legno e muffa, altro odore che si appoggia alla spalla dei visitatori,  che separa lo studio dal magazzino. Un giorno che c'era poco lavoro, erano i primi tempi, ce l'aveva voluto scrivere, a scanso d'equivoco: MAGAZZINO.
Dietro la porta cerca a tentoni, la stanza non ha finestre, una cordicella sospesa tra il soffitto e le dita. La tira ed è la luce. Dentro, illuminati dal giallo della lampadina da trenta, mucchi di cartone, fogli di compensato, fogli da disegno e materiali di disparata provenienza. L'ordine è minuzioso e contrasta con il resto dell'ambiente, casa compresa.
Juri prende un pacco di cartoni e lo posa sul tavolino di formica, un vecchio banco scolastico con il buco per il calamaio. Ne sceglie tre dopo averli esaminati attentamente. Li posa sullo sgabello basso e rimette gli altri a posto. A volte ne scarta qualcuno, lo rompe e lo butta fuori, nella legnaia. Torna nel laboratorio e comincia a trafficare con uno schedarietto ricavato da una vecchia scatola di biscotti LAZZARONI. Tira fuori una scheda, gli dà un'occhiata e la posa sul tavolino. Solleva vari oggetti nel tentativo, infruttuoso, di ritrovare la penna che, cazzo di cane, l'aveva lasciata lì ieri sera. La trova nella tasca del gilet di pelle che, per la cronaca, indossa spessissimo. Juri porta sempre jeans, per fortuna ne ha svariate paia, e ai piedi ha sempre lo stesso paio di anfibi che fino a tre anni prima erano indistruttibili.
Si schiude appena la porta. Stamane è il primo. Il cane non ha abbaiato quando l'ha visto varcare il cancello perchè con gli anni ha imparato a riconoscerli.
"Avanti" Juri ha visto la lama di luce sul pavimento e non ha sollevato nemmeno la testa, tutto concentrato sul suo lavoro.
"E' pronto?" domanda il tipo, maglia slabbrata.
"Ti avevo detto di passare nel pomeriggio" lo guarda da sopra gli occhiali da vista.
"Attacco alle due, sono venuto a vedere se e' possibile averlo per oggi"
"Vai a berti un caffè e ripassa tra un'ora"
"Ce la fai?"
"Ci provo"
L'uomo, andandosene, accosta la porta. In tanti anni hanno capito come comportarsi. Juri stava lavorando a un'altra cosa, una di quelle idee che gli vengono svegliandosi e che gli tocca fermare prima che diventino un qualunque detrito della sua memoria.  Appoggia tutto sul mobiletto a lato, apre un cassetto e tira fuori un notes. Fa girare rapido i fogli. Nell'emergenza userà qualche vecchia idea anche se normalmente rifugge questi espedienti. Prende un pezzo di compensato che a prima vista gli sembra troppo nuovo.. Lo macchia con qualche schizzo di vernice verde e gli spezza un angolo con un paio di  tenaglie. Si ferma un attimo, la mano sospesa a mezz'aria, e alla fine opta per un GRINTA nero. Lancia un'altra occhiata al notes, stende la pagina che gli serve con la mano e lo piazza sul suo lato destro, quello dell'occhio migliore.
                                 
                                               SONO DI BOEZIA TANTI
                                     GIORNI NO E MANGIARE E CIBBO
                                             MIO FIGLI MOGLIE MALLATA
                                                   AIUTA ME

Non vuole ripetere  pedissequamente il testo già usato a suo tempo e quindi decide di apportare alcune modifiche: una elle a MALATA e un AIUTA ME al posto del classicissimo GRAZIE. Una volta decisa la modifica la inserisce in schedario. Per i caratteri tira fuori un ALBUM di studi grafici e opta per un BORRACHO BOLD. Se ne va via tutta l'ora promessa che, per fare le cose, bisogna farle bene.
Quando il cliente torna, il cartello è pronto. Sono cinquanta centesimi a lettera più tre euro per il supporto. L'altro a contrattare non ci prova nemmeno.
Juri, su richiesta, rilascia fattura.