mentre leggi fai andare la canzone ma a 'sto punto avresti dovuto anche capirlo come funziona.
Artos
è un mio amico. Artos è mio fratello. Artos vive nel cuore della Val Susa. C’è
nato e ci è cresciuto e tutto si può dire tranne che Artos non sia
maledettamente cresciuto, che da sempre sospetto che per farsi tatuare l’orso
sul braccio abbia usato la sua fototessera come modello. Artos di mestiere
traffica nella bocca della gente, s’è preso una laurea per farlo e poi è
tornato in valle perché uno che è nato lì ha una bella idea di quanto si debba
stringere i denti e quindi ha il suo bel da fare a rinforzare le zanne della
valle. Artos è un dentista ma non ha la macchinona grossa o la villa con la
piscina e son certo che ce ne sono altri come lui ma io conosco lui e gli altri
si cerchino un amico che racconta. Artos quando l’ho conosciuto io e per farci una
data dobbiamo guardare a diverse ere geologiche trascorse, aveva una Guzzi come
la mia e non te lo raccontava neanche d’essere dentista, che lo scoprivi poi,
magari quando decideva di darti un’occhiata in osteria e ti toglieva il tartaro
con la forchetta. No, niente da
fare, se volevi parlare con lui dovevi passare dal suo bosco, dai suoi
castagni. Artos gira con un furgoncino e dentro ha il decespugliatore e mille
attrezzi e gli orari dell’ambulatorio sono in sincrono con le stagioni. I
castagni stanno lì, sul fianco della montagna e lui la mattina si sveglia,
guarda da casa sua, che ora ha cambiato paese ma sta sempre in valle, la
montagna quell’altra, quella che spalancheranno, quella di una mattina all’alba
che lui se la camminava per fare il pieno di risveglio e un grosso tasso l’ha
incrociato e l’ha guardato quasi a chiedergli se avesse notizie su quella
fottuta voce che gira in valle. Artos se lo ricorda bene che quel suo castagneto
ha cresciuto generazioni e generazioni della sua famiglia e tutti gli anni
tocca tagliare l’erba e tenere pulito e poi bagnare deviando al turno tuo il
corso della bialera, e poi tagliare il ramo schiantato dall’inverno e ogni
volta è un piccolo dolore perché quegli alberi secolari son gente di casa.
Artos faceva tutto da solo, anche il frutteto con certe varietà di mela perduta
alla memoria e al palato dei più. All’inizio ci incontravamo al bar con quegli
altri motociclisti come noi e s’andava in giro e si parlava del più e del meno
ma un po’ alla volta s’è scoperto che le nostre vite erano legate a prescindere
dal trovarci in un bar. Tutti e due avvinti al bosco e a quell’attitudine al
selvatico che è bella distinzione del nostro andare. Insomma prendevo la moto e
andavo al castagneto e tagliavamo l’erba tutto il giorno e mangiavamo lì e lui
si incazzava perché se mentre andavo di decespugliatore trovavo le fragoline
selvatiche mollavo tutto e mi sdraiavo a mangiare. Poi si trattava di deviare
l’acqua della bialera e si spostavano pietre e pietre e si bagnavano i campi e
quando si bruciavano i rami raccolti in mucchi ordinati si faceva arrivare
l’acqua da presso per stare pronti a controllare la fiamma pazza. Adesso a
dirla così sembra un’arcadia felice e invece era sudore e bestemmie e puzzavamo
come capre morte da un pezzo e per ricompensa Artos mi dava certi tocchi di
formaggio che mentre li portavo via in moto c’erano decine di sorci che mi
inseguivano ingolositi.
Un
giorno mi chiama e mi chiede di andare in valle per un aiuto. Arrivo e lo trovo che
si è caricato un pezzo di guardarail sul furgoncino. Un vecchio
pezzo che gli stradini avevano smontato e che lui aveva chiesto di poter
riutilizzare. Andiamo al castagneto, che è una porzione di montagna mica da
ridere e che a seconda di come la guardi è tutta in salita o tutta in discesa.
Quando siamo arrivati, maledetta lei, era in bella salita e ci siamo camallati
il pezzo di latta pesante su per il sentiero. Con le pale abbiamo scavato e
artos non voleva toccare le pietre dei muretti perché mi spiegava che da sempre
quelle pietre son nello sguardo di tutti e, se ne sposti una, sposti la memoria
di un’intera famiglia, il segno minimo di un passaggio di vita. Abbiamo ficcato
il guardarail nel centro del sentiero, dentro la terra e abbiamo puntato a
scendere nella bialera che correva sotto. Venite ora piogge che vi abbiamo
fatto una maestra trappola e non
vi mangerete più il sentiero. Mentre scavavamo ho visto una salamandra tra le pietre. Nel bosco mio le
salamandre sono un’abitudine, un’invasione misteriosa in certi anni, e l’ho
presa in mano per toglierla dal pericolo della pala. Artos l’ha appoggiata alla
sua pala e a filo di sussurro e chi lo conosce se lo immagina grossissimo e con
la faccia da guerriero preistorico, l’ha portata dall’altra parte del muretto, al
sicuro.
Mani
grosse per piccole meravigliose attenzioni. Quella cura lì, quel rispetto lì
non li può toccare nessuno. Del resto se vedi Artos non ti viene in mente di
toccarlo se non per una leggera pacca sulla spalla.
Artos
lo incontro spesso la sera nel
cuore della valle, in una osteria tutta nostra, una cosa che se non la conosci
non la trovi. Guarda tu. S’è deciso anche a mettersi su internet con un nome dei
suoi ma basta e avanza per accordarci e vederci. In quel posto lì si parla, si
canta, maledetto lui e la sua ossessione per “cimitero di rose”, si bevono
certi esperimenti di erbe e radici con una gradazione variabile dal cimurro di
cane al lanciafiamme, si gioca a carte. Una notte stavamo nella vietta lì,
sotto il locale e eravamo tornati da un’inutile esplorazione dei certe lande buie perché al culmine delle grappe
Artos s’era messo a raccontare di un roccia che se la colpisci piange e si lamenta.
Guidava Drac perché la macchina era sua e perché aveva il fegato oberato da un
caffè al massimo. A scanso di ritorsioni, che qui tutto è possibile. Per tutto il
tragitto scombussolato eravamo stati seguiti da altri che non sembravano interessati
alla nostra curiosità scientifica ma che avevano un sacco di luci sul tetto. Tornati
alla base nostra, in mezzo al paese ghiacciato, ce ne siamo rimasti lì a chiacchiera
e a un certo punto, mentre ridevo forte della storia della pietra che piange,
da un vicoletto è uscita una volpe e stava lì a fissarci, a due metri dai nostri
duecento chili in due. Poi tranquilla se n’è andata e Artos m’ha sussurrato “non
è bello ridere di certe cose”. Da allora ci credo che le pietre possono piangere.
Sempre di più ci credo.