"e io piangerò e saranno lacrime di silicone, perchè il futuro tutti ci svelerà per quegli androidi di prima generazione che siamo, difettosi nel chip dell'emozione." blughost
Federico Patellani, Marinai e fotografo ambulante, Napoli, 1950 ca.
Dalla rete, Fotografo ambulante con stampante digitale al seguito.
Mentre Macondo celebrava la riconquista dei ricordi,
José Arcadio Buendía e Melquíades scossero la polvere dalla loro vecchia
amicizia. Lo zingaro veniva deciso a restare nel villaggio. Era stato nella
morte, effettivamente, ma era tornato perché non aveva potuto sopportare la
solitudine. Ripudiato dalla sua tribù, privato di ogni facoltà soprannaturale
come castigo per la sua fedeltà alla vita, decise di rifugiarsi in quell’angolo
del mondo non ancora scoperto dalla morte, e di dedicarsi alla gestione di un
laboratorio di dagherrotipia. José Arcadio Buendía non aveva mai sentito
parlare di quella invenzione. Ma quando vide se stesso e tutta la propria
famiglia effigiati in una età eterna su una lastra di metallo laccamuffa,
ammutolì dallo stupore. Da quella epoca datava l’ossidato dagherrotipo su cui
appariva José Arcadio Buendía coi capelli irti e brizzolati, col colletto duro
della camicia allacciato con un bottone di rame, e una espressione di solennità
sbigottita, e che Ursula descriveva scoppiando a ridere come “un generale
spaventato”. In effetti, in quella diafana mattinata di dicembre in cui gli
fecero il dagherrotipo José Arcadio Buendía era spaventato, perché pensava che
la gente si andava sciupando a poco a poco intanto che la sua immagine passava sulle
lamine metalliche. Per una curiosa inversione dell’abitudine, fu Ursula che gli
tirò fuori quella idea dalla testa, e fu sempre lei a dimenticare i suoi vecchi
crucci e a decidere che Melquíades sarebbe rimasto a vivere in casa, anche se
non permise mai che le facessero un dagherrotipo perché (secondo le sue stesse
testuali parole) non voleva servire da burla ai suoi nipoti. Quella mattina
vestì i bambini coi loro migliori vestiti, li incipriò e diede una cucchiaiata
di sciroppo di midollo a ognuno di loro perché potessero rimanere assolutamente
immobili per quasi due minuti davanti alla pomposa macchina di Melquíades. Nel
dagherrotipo familiare, l’unico che ci fu mai, Aureliano apparve vestito di
velluto nero, tra Amaranta e Rebeca. Aveva Io stesso languore e lo stesso
sguardo chiaroveggente che avrebbe avuto diversi anni dopo davanti al plotone
di esecuzione.
(tratto da Cent’anni di Solitudine di Gabriel
Garcia Marquez)
Per secoli la possibilità di farsi
ritrarre, di lasciare una testimonianza iconografica per raccontare ai
discendenti e al futuro il proprio volto e le proprie passioni fu appannaggio
della fasce sociali più abbienti. Toccava averci il tempo di restare in posa,
giorni e giorni spesi in un’immobilità che favorisse la tela del ritrattista,
toccava averci anche le possibilità economiche per permettersi di pagare la
mano dell’artista. I più ricchi si facevano fare ritratti numerosi e la nobiltà
s’abituava già in tenera età al tedio della posa. A partire dall’Ottocento e più compiutamente nella seconda
metà di quel secolo la possibilità di farsi ritrarre, grazie alle tecniche
fotografiche che, in un processo di affinamento e di scoperta sempre attivo a
partire dalle prime esperienze pionieristiche e fino ai nostri giorni digitali,
permettevano la realizzazione di ritratti con un significativo abbattimento dei
costi e dei tempi rispetto alla tradizionale arte pittorica. La fotografia
divenne l’asse portante delle memorie domestiche ma almeno fino all’avvento del
35 millimetri e della produzione su scala industriale di apparecchi fotografici
che contribuì, nella seconda metà del Novecento, alla costruzione capillare di
un archivio della società di massa, farsi ritrarre era ancora un evento, un’occasione
spesso unica, per moltissime persone. Le foto di interni nei Sassi materani
scattate da Franco Pinna, accompagnando le spedizioni verso il meridione dell’antropologo
Ernesto De Martino negli anni Cinquanta, ci mostrano realtà domestiche segnate
da una marcata indigenza ma sulle pareti contese alla roccia di quelle
abitazioni possiamo vedere a volte la foto di un uomo in divisa, forse un
figlio o un nipote morto in guerra, la foto di un anziano parente, di cui in
presagio di morte s’era voluta serbare memoria sacrificando sudate finanze a
beneficio dei fotografi ambulanti che battevano le provincie anche sperdute per
dare a tutti un occasione fotografica. Come a Macondo la fotografia arrivava
nelle piazze con quella sua magia replicata sempre a fiato sospeso,
testimonianza inequivocabile di una modernità che cominciava a non dare tregua.
Presto si andò definendo una grammatica del rappresentato. I “riti di passaggio”,
si perdoni l’uso improprio in questo contesto di una definizione utilizzata soprattutto per la sua valenza evocativa. La nascita, la scuola, la
leva, il matrimonio, il viaggio, la morte sono i luoghi deputati per la
costruzione narrativa dell’archivio domestico. Staimo parlando degli inizi del
secolo e spesso il lasso temporale che correva tra la possibilità testimoniale
offerta da una nascita e l’eventualità di una morte immediatamente successiva
era alto. Se si visitano i vecchi cimiteri sperduti nelle campagne italiane si
possono notare piccole croci in aree delimitate in cui vecchie indicazioni
recitano “bambini”. Senza nome, solo piccole croci. Ma ormai la consuetudine
della rappresentazione fotografica di ambito domestica, in onore alla
costruzione di una memoria condivisa fatta di archetipi narrativi fissati e d’obbligo,
pretendeva il suo tributo. I bambini venivano dunque fotografati già defunti,
in un processo di sintesi estremo che passava oltre il tabù della vista del
morto. Mi capita spesso di infilarmi nei vecchi cimiteri per guardare le foto sulle tombe, senza una particolare attitudine necrofila ma solo per sfogliare l'album di quella comunità scoprendo modalità univeralmente accolte di rappresentazione e differenze. Lo trovo più divertente dell'obbligo a cui ci sottopongono gli amici novelli sposi quando, al ritorno dal viaggio di nozze, ci inchiodano al divano letteralmente, sotto il peso imbarazzante e maledettamente fisico della loro memoria fotografica rilegata in marocchino rosso e ordinata in album concepiti per stare sulla memoria come una pietra tombale inviolabile e inconsultabile. Allo storico della fotografia l'onere di farsi carico di sfogliare un giorno anche quelle pesanti pagine di cartoncino foderato di velina, in barba alle schede da mille giga che pure ormai sono d'uso diffuso.
Giorgio Olmoti, cimitero di Crespi d'Adda (BG), 2012
Stefano arriva verso le dieci di sera in via Galliari, tra i
tavolini sparsi di Enò che d’estate diventa casa mia. Passa più o meno tutte le
sere. Sono lì con tutti gli amici soliti e Erne fa la spola dal bancone al
tavolo dove si siede con noi a mangiare. Bottiglie che vanno, bottiglie che
vengono e un provvidenziale secchio di ghiaccio per il bianco gelato che con la
tiella ci sta tutto. Me lo ricordo da sempre Stefano e c’era prima di me e del
mondo col suo cartello “VENDESI” al collo. Racconta barzellette a pagamento.
Non gli è andata benissimo per buona parte della vita e si porta i segni
addosso, parecchi segni, ma continua a dire che ci crede in quel suo camminare
tutta la notte da un locale all’altro, da uno stupido all’altro che lo prende
in giro, da una moneta all’altra che sul cartello c’è scritto “cinque euro” ma
siamo parecchio sul trattabile. Arriva da noi e si siede. Non ci vende
barzellette che non siamo clienti, siamo un posto per tirar fiato. Non smette però
di dire cazzate, per far ridere i bambini che arrivano da tutta la strada e
ride con mezzo dente in bocca e i capelli lunghi e la ghigna che in un gruppo
di rock sudista di una volta ci starebbe tutta. Nessuno gli chiede le
barzellette, gli offriamo da bere un succo di mela ghiacciato che solo quello
riesce a stargli ora nella pancia. Però s’attacca a tutti i pacchetti di
sigarette sul tavolo e sempre con la stessa gag:”Fumi le mie stesse sigarette?
Che bello le ho ritrovate”. Gli dico di svegliarsi all’ora in cui decide di
aprire gli occhi e di mettere sul foglio un ricordo subito, prima del caffè. Un
ricordo alla buona di questi vent’anni che ha passato, notte dopo notte, in
giro per la città. Lui l’ha vista cambiare questa bestia ferita che chiamiamo
casa, l’ha vista prendere respiro e rantolare e sospirare e tossire e vomitare
e gridare. Ha conosciuto questo, quello e anche quell’altro.Gli dico, mettili in fila ‘sti incubi e
‘sti sogni che poi gli regaliamo la vita tra le parole aggiustate a martellate.
Lui dice che ci si mette di buzzo buono e non ci crediamo né io è lui ma se c’è
una cosa che la vita m’ha insegnato e la meraviglia e magari domani torna lì da
Enò, che siamo di quella razza che la trovi facile, senza però trovarla mai
quando la cerchi, e mi sbatte sul tavolo, tra gli spaghetti col polpo e il
mazzo di chiavi, una risma di fogli masticati a ricordi. Stefano racconta
quintali di barzellette e certe le inventa pure. Dici poco. Me lo sono sempre
chiesto chi ha inventato quella o quell’altra barzelletta. Non se ne viene a
capo, non sono oggetto di studio le barzellette. Hai presente roba tipo”il
fantasma formaggino”? La raccontavo da piccolo e ridevo, con quello schema
magico del “ci sono un inglese, un tedesco, un francese e un italiano” che già
racchiudeva tutto il cuore nero del Novecento, col suo carico di guerre
mondiali e mortali. Il fatto è che ci sarà uno che, per primo, ha deciso di
inventarsi quella tremenda cazzata del fantasma formaggino che l’italiano, che
solo nelle barzellette è uno sveglio, si vuole spalmare nel panino. Le
barzellette non pagano la SIAE, non hanno autore, sono patrimonio della
collettività. Com’è giusto. Però ci sarà uno che per primo ha lavorato su
Pierino e le sue avventure con la mamma e la maestra. In questo senso Stefano
restituisce sicurezza che qualcuna delle sue l’ha proprio inventata lui. Lo
dico così sulla fiducia.
Alzandosi dopo qualche sigaretta, prima di puntare al
prossimo locale della movida infinita che ormai corre, finta come le tette di
quella che sappiamo noi, da una strada all’altra, mi si avvicina e mi sussurra.
“Lo sai cos’è un rapporto platonico?” “No” “Un rapporto
platonico è quando lei ti viene in mente”.
Riparte inghiottito dal pulsare dei woofer di quei locali lì,
dove rideranno di lui più che delle sue barzellette ma Stefano l’ha già messo nel
conto.
Si vive una morte sola. Ieri mattina chiamo Erne che oltre a
essere il titolare di Enò a Sansalvario è pure moltissimo amico mio, che i
nostri figli son nati a distanza di poche ore proprio dodici anni fa e da
allora non abbiamo più smesso di vederci e sentirci perché quelli simili a
volte si scoprono e non si perdono più. Insomma Ste e Pina sono al mare in
tenda con bambini nostri e quasi nostri e io son qui a Torino e gli telefono a
Erne che ho una mezza idea di andarmi a mangiare la tiella con i polpi che fa
lui con la ricetta di mia madre e così ci scoppiamo una bottiglia di bianco
freddo seduti a mezzanotte a quei tavolini che stanno in bilico tra il paradiso
e l’inferno di quei posti lì al buio. Siccome Erne ha il commercio nel sangue
mi risponde “Invece di venire a mangiare da me, mollo tutto e ce ne andiamo a
mangiare il pesce a Bergeggi”. “A Bergeggi? Son centoventi chilometri minimo,
che col ritorno raddoppiano e io domani mattina devo lavorare.””Ma ho la
macchina a gas” “Ah… a gas… e allora andiamo a Begeggi.” Sempre così, di fronte
alla logica ferrea cedo il campo e s’attiva il mio pericoloso sonprontismo.
Esco dalla casa editrice verso le sei, porto la moto a casa, il tempo di far
fare una corsa ai cani e di prendermi un caffè col cannolo al bar e Erne plana
con la pazzesca Volvo blu da magliaro che gli ho fatto comprare io. On the road
again.. Parliamo di politica e di Torino negli anni Settanta e ci fermiamo
all’autogrill per il seicentesimo caffè della mia giornata e nel passaggio dal
Piemonte alla Liguria ci ficchiamo in una sorta di tempesta nera nera che però
alla vista del mare ci abbandona e torna a rompere i coglioni a quelli
dall’altra parte, ai piemontesi. Sempre così, arrivi da Torino in una merda di
tempo appiccicoso e pioggia e nuvole e appena ti alzi di petto sul mare che
arriva davanti cambia il clima e cambiano gli odori e tu non capisci perché le
case editrici stanno a Torino e non a Spotorno. Stiamo andando in un posto che
Erne ha scoperto questo inverno, o l’altro inverno, o dieci inverni prima. Dice
che non si può comunicare col tizio che lo gestisce e insomma arriviamo lì alla
cieca ma siamo nati cani ciechi e non ci fa problemi. Le femmine son partite da
Albenga e l’appuntamento è lì in giro più o meno. Come sempre e sempre con
bella magia di ritrovarsi quasi per caso e di certo per culo. Il navigatore
della Volvo ha un mostruoso accento tedesco per cui alla terza curva alziamo le
mani al cielo colti dalla sindrome del rastrellamento. Cerco di pensare
rapidamente al nome di battaglia con cui verremo ricordati ma Erne con una
manata azzera l’istitutrice sadomaso del navigatore e navighiamo a vista che ci
è più congeniale. Infatti arrivati a Spotorno puntiamo il muso direttamente verso
Varigotti, in direzione opposta a quella giusta. La Liguria ha due versi soli
nell’andare, o di qua, o di là, che corrispondono a il mare alla tua destra e
il mare alla sinistra. Se però non sai un cazzo di geografia è come giocare il
rosso o il nero. Noi giochiamo rosso sempre e canniamo direzione subito.
Parliamo e parliamo e parliamo e a Finale Ligure, che se si chiama finale vuol
dire che lì termina qualcosa, ci rendiamo conto che Bergeggi non esiste,
l’hanno cancellata. Intanto le femmine ci telefonano che hanno trovato il posto
e si stanno già piazzando. Prendi due femmine che son sortite vive da tutte le
vite possibili, affidagli dei bambini e quelle ti spaccheranno il mondo con
noncuranza e avranno ancora il tempo dei sorrisi. Invece io e Erne siamo nel
buio della nostra nozione geografica insabbiata su vecchi sussidiari. Si parla
di galera e di vecchie storie di amici
per far la parte di quelli che hanno altro da pensare che trovare
Bergeggi ma quasi vien voglia di riaccendere la voce teutonica del navigatore.
Fanculo. Erne dice che riconosce il posto e io obietto che il camioncino delle
femmine non c’è e quindi, che son ben conscio che le femmine ci battono e mica
ai punti proprio coll’imbarazzo del tappeto del ring a fior di faccia, non siamo arrivati. Ci fermiamo e non
siamo al posto. Non siamo nemmeno a Bergeggi a dire il vero. Attacchiamo a dire
ma che nomi del cazzo hanno ‘sti paesi. Laigueglia, Bergeggi, Spotorno,
Varigotti. Ci raccontiamo che Cesare Pavese andava a Varigotti e facciamo i
disinvolti. Poi di colpo il camioncino delle femmine si palesa e anche le
femmine medesime a bordo strada che fanno gesti e ridono. Fanculo. Ora per anni
ci scherzeranno. Decidiamo di dire che c’è stato un incidente sull’autostrada
ma io non ce la faccio e confesso tutto prima di scendere dalla Volvo. Sono ancora
sotto l’influenza traumatica della voce del navigatore. Insomma siamo arrivati.
C’è la spiaggia libera di sera e c’è una capanna sbilenca che sta in piedi con
lo sputo e ci sono i tavoli scompagnati tra la sabbia e le rocce, pochi tavoli
a dire il vero e c’è il nome di sto posto scritto a pennarello su un pezzo di plastica
gialla. Gagollo si chiama e io mi riprometto di scoprire senza la magia di google
ma per bocca di qualcuno del posto che cazzo è il gagollo. Intanto facciamo
chiarezza sulla situazione. Cooperativa di pescatori che arrivi lì e mangi quello
che s’è pescato, in un bailamme di casini e insulti che si capisce che lì nessuno
ha fatto l’alberghiero e noi ci adeguiamo senza problemi. Sul foglio alla peggio
c’è scritto cinque sei portate che poi sono pesce alla griglia misto (quello
che capita), pesce fritto misto (quello che capita) trancio di spada (però il menù
avverte che costa molto e non dice quanto), trancio di tonno (però il menù avverte
che costa molto lo stesso ma meno di quell’altro. Lo giuro. Il giorno dopo leggerò recensioni su
internet di gente inorridita dal servizio e dai modi. Noi siamo stati in paradiso
e lo dico da subito così mi tolgo il pensiero. Il fritto misto costa venti euro
a cristiano e mi sembra davvero troppo però siamo arrivati fin lì e è il compleanno
di Dani e di Marta e c’è il mare che schiuma a pochi metri da noi e ordiniamo
una bottiglia e insomma si ordina un paio di piatti di pasta col pesce e fritto
per quattro. Devo ora premettere che io e Erne mengiamo come cinque persone normali
affamate. Quando arriva il fritto non ci posso credere. Una monumentale piramide
di gamberi e alici e sogliole e calamari e boghe e ficarelle e chissà cosa. Una cosa che riempie buona parte dello
spazio della tavola da sei e che si alza prepotentemente verso il cielo come il
Tikal di tutti i fritti di pesce dell’universo. Lo ammetto, ci siamo battuti
come leoni ma qualcosa l’abbiamo lasciata. Non era materialmente possibile
mangiare tutto quel pesce. Io e Erne alla vista buttiamo il tocco e a ritorno devo
guidare io e quindi mi tengo basso coi consumi alcolici e mi scoppio giusto una
Menabrea. Non tanto per noi ma piuttosto per la simpatica possibilità che io e
Erne di notte sulla vecchia Volvo attiriamo di certo l’attenzione di tutti i calimeri
appostati lungo la strada. Restiamo lì fino a mezzanotte, i bambini scrivono
dei “ti amo” qualcosa sulla sabbia, io faccio saltare sassi piatti a filo dell’onda
e nel buio. Per tutta la sera da due altoparlanti scassi arrivava De Andrè e mangiare
gamberi fritti bevendo birra ghiacciata mentre a Sidun si consuma il dramma a
fior di voce del genovese è un bel vivere. Sono anni che non riesco più ad
ascoltare De Andrè fuori da casa mia e tra le mie cose, che ormai l’hanno
cucinato in tutte le salse e ammetto di averci messo anche la zampa mia ma lì, in
quel momento intendo, era perfettissimo. La morte sua. Per la nostra lasciate
un messaggio e vi richiameremo.
Piove maledettamente. Un muro d'acqua. Sono in moto e sto cercando di ritornare alla casa editrice in cui lavoro. Son già un paio di chilometri che guido in immersione. Non ho vestiti di ricambio e già lo immagino, non è la prima volta, che sotto la mia scrivania si formerà una maledetta pozza fatta di gocce fredde che dalla nuca mi son scivolate a fil di pelle e di jeans. Fino al pavimento. Ho una camicia leggera che ora sembra un fazzolettino di carta usato. Il portafoglio e il telefono li ho infilati al volo nello zaino che è a prova di pioggia ma non di questo fottuto niagara che mi sta investendo. Riesco ad arrivare al bar e oltre proprio non è possibile, è inutile che ridete con quelle facce da "ti conosciamo", davvero non è possibile. Mollo la moto sotto l'alluvione e entro nel bar solito. Mi prendo un chinotto da solo dal frigo, come a casa, vado in cucina a prendere il cavatappi come a casa, che tirare fuori lo svizzero dal jeans fradicio è un'impresa a cui non sono preparato psicologicamente. La moto di là dal vetro sta prendendo una pioggia da primato che mi costerà trecento euro di meccanico ma questo lo scoprirò solo la sera tardi. Di solito regge l'urto ma vuoi l'età, vuoi la pioggia da primato, mentre son lì che mi bevo il chinotto la centralina affoga nella disperazione delle sue lacrime a impulsi. Mi siedo a un tavolo e guardo i Simpson alla tele. Senza volume per non disturbare. Che poi a fargli tutte 'ste attenzioni a quella manica di smandrappati che riempiono il bar il volume sarebbe piuttosto da alzare a palla per stendere un velo di decibel robusto sulle cazzate che volano tra quelle pareti. Dal tavolo a fianco al mio un tizio che vedo spesso ma con cui non ho mai parlato approfitta della calamità per socializzare. Avrà una settantina d'anni, i capelli tintissimi neri fiammati d'arancione e un paio di occhiali da sole che in quel frangente sono poco pertinenti ma del resto gli occhiali da pioggia non li fanno e quindi anche lui avrà le sue buone ragioni.
"La prima volta che ho preso l'aerio io non avevo mai preso l'aerio prima"
Un incipit più potente di "quel ramo del lago di Como...". Lo guardo e questo basta per farlo continuare e già mi immagino che se esce con 'sta pioggia i capelli di legno che ha sulla testa si sciolgono alla furia degli elementi.
"Allora mio fratello Pietro e Luigi, mi dice che vado da lui in Australia e figuriamoci io non avevo mai volato prima e mi sono fatto ventisei ore all'andata e mi pare che erano ventisei ore pure a ritorno."
Pausa che crea bella tensione. Dev'essere schedato come rompicoglioni da combattimento perchè appena attacca a parlare alcuni prendono il bicchiere di qualcosa e si spostano nell'altra sala del bar. Io sono inchiodato lì. Perduto.
"Mò se tu devi viaggiare coll'aerio non ti devi appaurare, che lo capisco che fai impressione nel cielo ma pensi agli uccelli e alle nuvole e a tutte le altre cose che stanno comodamente nel cielo e stai uguale a loro. La gente non lo dice ma io l'ho capito. L'aerio è un apparecchio che quando vola nel cielo va dritto e galleggia. Non può capitare nulla se sta dritto e galleggia. Però magari il pilota vede una cosa giù che non capisce e per guardare abbassa il muso dell'aerio e a quel punto se non sei bravo sei caduto. Perchè hai perso il fatto del galleggia. L'aerio è pericolosissimo quando si parte perchè fa un tuffo come per andare a cercare l'aria che galleggia ma in quel momento può succedere qualunque cosa, poi galleggia e va tutto bene, poi quando deve scendere allora si può morire facilmente, soprattutto quando si afferra colle ruote alla strada sotto che sta all'arioporto. Poi la polizia ti guarda la valigia e magari colla scusa che non capisci l'austraio si fregano una camicia o un regalo per i nipoti ma a te a quel punto che te ne frega che sei vivo e non sei morto e va bene così. Le femmine in aerio quando si scende gli viene un calore che hanno voglia da impazzire e dentro l'aerio sembra un film sporco ma è solo la paura di quel momento che appena scese già non ti guardano più e magarti c'è suo marito all'aspettare."
Mi alzo con un mezzo sorriso e indico la moto come per comunicare una qualche incredibile urgenza. Mi piazzo sotto la cornice della porta di entrata e guardo fuori la pioggia maledetta. A un certo punto sento una mano che mi tira il braccio. "Permesso." Di nuovo lui, sporge la testa fuori quel tanto da non bagnarsi e vomita sul marciappiede d'un getto potente e corposo. Si terge le labbra con la manica del giubbotto jeans, si gira verso nessuno e grida "Mannagia a te che mi hai fatto ridere." Poi torna a sedersi e tutti lo insultano. Pasquale, il titolare del bar ha preso la macchina e ha accompagnato i bancari a lavoro dopo il pranzo. Terrorizzati di sgualcirsi i vestitini belli e di inumidire l'ipad. Al bancone ci sono solo le due ragazze. Capisco al volo. Si sentono male solo all'idea. Gli chiedo di passarmi un secchio e un disinfettante e ci penso io che nella vita ho fatto tutti i lavori possibili e ho capito che lo schifo sta solo nella menzogna e nel potere.
Di fronte si schianta un albero sulla strada. Escono in tre e ficcano le macchine sotto i rami inerti. Fanno le foto per l'assicurazione col telefonino. Ormai piove meno forte, il vecchio è crollato a dormire ubriaco con la testa sul tavolo e un filo di bava che gioca al pozzo e il pendolo con la tovaglietta. M'appoggio di chiappa timida sul freddo della sella bagnata e riparto. Anche questa volta.