venerdì 27 luglio 2012

Fotografia e memoria domestica



Federico Patellani, Marinai e fotografo ambulante, Napoli, 1950 ca.
Dalla rete, Fotografo ambulante con stampante digitale al seguito.





Mentre Macondo celebrava la riconquista dei ricordi, José Arcadio Buendía e Melquíades scossero la polvere dalla loro vecchia amicizia. Lo zingaro veniva deciso a restare nel villaggio. Era stato nella morte, effettivamente, ma era tornato perché non aveva potuto sopportare la solitudine. Ripudiato dalla sua tribù, privato di ogni facoltà soprannaturale come castigo per la sua fedeltà alla vita, decise di rifugiarsi in quell’angolo del mondo non ancora scoperto dalla morte, e di dedicarsi alla gestione di un laboratorio di dagherrotipia. José Arcadio Buendía non aveva mai sentito parlare di quella invenzione. Ma quando vide se stesso e tutta la propria famiglia effigiati in una età eterna su una lastra di metallo laccamuffa, ammutolì dallo stupore. Da quella epoca datava l’ossidato dagherrotipo su cui appariva José Arcadio Buendía coi capelli irti e brizzolati, col colletto duro della camicia allacciato con un bottone di rame, e una espressione di solennità sbigottita, e che Ursula descriveva scoppiando a ridere come “un generale spaventato”. In effetti, in quella diafana mattinata di dicembre in cui gli fecero il dagherrotipo José Arcadio Buendía era spaventato, perché pensava che la gente si andava sciupando a poco a poco intanto che la sua immagine passava sulle lamine metalliche. Per una curiosa inversione dell’abitudine, fu Ursula che gli tirò fuori quella idea dalla testa, e fu sempre lei a dimenticare i suoi vecchi crucci e a decidere che Melquíades sarebbe rimasto a vivere in casa, anche se non permise mai che le facessero un dagherrotipo perché (secondo le sue stesse testuali parole) non voleva servire da burla ai suoi nipoti. Quella mattina vestì i bambini coi loro migliori vestiti, li incipriò e diede una cucchiaiata di sciroppo di midollo a ognuno di loro perché potessero rimanere assolutamente immobili per quasi due minuti davanti alla pomposa macchina di Melquíades. Nel dagherrotipo familiare, l’unico che ci fu mai, Aureliano apparve vestito di velluto nero, tra Amaranta e Rebeca. Aveva Io stesso languore e lo stesso sguardo chiaroveggente che avrebbe avuto diversi anni dopo davanti al plotone di esecuzione.

(tratto da Cent’anni di Solitudine di Gabriel Garcia Marquez)


Per secoli la possibilità di farsi ritrarre, di lasciare una testimonianza iconografica per raccontare ai discendenti e al futuro il proprio volto e le proprie passioni fu appannaggio della fasce sociali più abbienti. Toccava averci il tempo di restare in posa, giorni e giorni spesi in un’immobilità che favorisse la tela del ritrattista, toccava averci anche le possibilità economiche per permettersi di pagare la mano dell’artista. I più ricchi si facevano fare ritratti numerosi e la nobiltà s’abituava già in tenera età al tedio della posa.  A partire dall’Ottocento e più compiutamente nella seconda metà di quel secolo la possibilità di farsi ritrarre, grazie alle tecniche fotografiche che, in un processo di affinamento e di scoperta sempre attivo a partire dalle prime esperienze pionieristiche e fino ai nostri giorni digitali, permettevano la realizzazione di ritratti con un significativo abbattimento dei costi e dei tempi rispetto alla tradizionale arte pittorica. La fotografia divenne l’asse portante delle memorie domestiche ma almeno fino all’avvento del 35 millimetri e della produzione su scala industriale di apparecchi fotografici che contribuì, nella seconda metà del Novecento, alla costruzione capillare di un archivio della società di massa, farsi ritrarre era ancora un evento, un’occasione spesso unica, per moltissime persone. Le foto di interni nei Sassi materani scattate da Franco Pinna, accompagnando le spedizioni verso il meridione dell’antropologo Ernesto De Martino negli anni Cinquanta, ci mostrano realtà domestiche segnate da una marcata indigenza ma sulle pareti contese alla roccia di quelle abitazioni possiamo vedere a volte la foto di un uomo in divisa, forse un figlio o un nipote morto in guerra, la foto di un anziano parente, di cui in presagio di morte s’era voluta serbare memoria sacrificando sudate finanze a beneficio dei fotografi ambulanti che battevano le provincie anche sperdute per dare a tutti un occasione fotografica. Come a Macondo la fotografia arrivava nelle piazze con quella sua magia replicata sempre a fiato sospeso, testimonianza inequivocabile di una modernità che cominciava a non dare tregua. Presto si andò definendo una grammatica del rappresentato. I “riti di passaggio”, si perdoni l’uso improprio in questo contesto di una definizione utilizzata soprattutto per la sua valenza evocativa. La nascita, la scuola, la leva, il matrimonio, il viaggio, la morte sono i luoghi deputati per la costruzione narrativa dell’archivio domestico. Staimo parlando degli inizi del secolo e spesso il lasso temporale che correva tra la possibilità testimoniale offerta da una nascita e l’eventualità di una morte immediatamente successiva era alto. Se si visitano i vecchi cimiteri sperduti nelle campagne italiane si possono notare piccole croci in aree delimitate in cui vecchie indicazioni recitano “bambini”. Senza nome, solo piccole croci. Ma ormai la consuetudine della rappresentazione fotografica di ambito domestica, in onore alla costruzione di una memoria condivisa fatta di archetipi narrativi fissati e d’obbligo, pretendeva il suo tributo. I bambini venivano dunque fotografati già defunti, in un processo di sintesi estremo che passava oltre il tabù della vista del morto. Mi capita spesso di infilarmi nei vecchi cimiteri per guardare le foto sulle tombe, senza una particolare attitudine necrofila ma solo per sfogliare l'album di quella comunità scoprendo modalità univeralmente accolte di rappresentazione e differenze. Lo trovo più divertente dell'obbligo a cui ci sottopongono gli amici novelli sposi quando, al ritorno dal viaggio di nozze, ci inchiodano al divano letteralmente, sotto il peso imbarazzante e maledettamente fisico della loro memoria fotografica rilegata in marocchino rosso e ordinata in album concepiti per stare sulla memoria come una pietra tombale inviolabile e inconsultabile. Allo storico della fotografia l'onere di farsi carico di sfogliare un giorno anche quelle pesanti pagine di cartoncino foderato di velina, in barba alle schede da mille giga che pure ormai sono d'uso diffuso.


Giorgio Olmoti, cimitero di Crespi d'Adda (BG), 2012





martedì 24 luglio 2012

Uomo da marciappiede





Stefano arriva verso le dieci di sera in via Galliari, tra i tavolini sparsi di Enò che d’estate diventa casa mia. Passa più o meno tutte le sere. Sono lì con tutti gli amici soliti e Erne fa la spola dal bancone al tavolo dove si siede con noi a mangiare. Bottiglie che vanno, bottiglie che vengono e un provvidenziale secchio di ghiaccio per il bianco gelato che con la tiella ci sta tutto. Me lo ricordo da sempre Stefano e c’era prima di me e del mondo col suo cartello “VENDESI” al collo. Racconta barzellette a pagamento. Non gli è andata benissimo per buona parte della vita e si porta i segni addosso, parecchi segni, ma continua a dire che ci crede in quel suo camminare tutta la notte da un locale all’altro, da uno stupido all’altro che lo prende in giro, da una moneta all’altra che sul cartello c’è scritto “cinque euro” ma siamo parecchio sul trattabile. Arriva da noi e si siede. Non ci vende barzellette che non siamo clienti, siamo un posto per tirar fiato. Non smette però di dire cazzate, per far ridere i bambini che arrivano da tutta la strada e ride con mezzo dente in bocca e i capelli lunghi e la ghigna che in un gruppo di rock sudista di una volta ci starebbe tutta. Nessuno gli chiede le barzellette, gli offriamo da bere un succo di mela ghiacciato che solo quello riesce a stargli ora nella pancia. Però s’attacca a tutti i pacchetti di sigarette sul tavolo e sempre con la stessa gag:”Fumi le mie stesse sigarette? Che bello le ho ritrovate”. Gli dico di svegliarsi all’ora in cui decide di aprire gli occhi e di mettere sul foglio un ricordo subito, prima del caffè. Un ricordo alla buona di questi vent’anni che ha passato, notte dopo notte, in giro per la città. Lui l’ha vista cambiare questa bestia ferita che chiamiamo casa, l’ha vista prendere respiro e rantolare e sospirare e tossire e vomitare e gridare. Ha conosciuto questo, quello e anche quell’altro.  Gli dico, mettili in fila ‘sti incubi e ‘sti sogni che poi gli regaliamo la vita tra le parole aggiustate a martellate. Lui dice che ci si mette di buzzo buono e non ci crediamo né io è lui ma se c’è una cosa che la vita m’ha insegnato e la meraviglia e magari domani torna lì da Enò, che siamo di quella razza che la trovi facile, senza però trovarla mai quando la cerchi, e mi sbatte sul tavolo, tra gli spaghetti col polpo e il mazzo di chiavi, una risma di fogli masticati a ricordi. Stefano racconta quintali di barzellette e certe le inventa pure. Dici poco. Me lo sono sempre chiesto chi ha inventato quella o quell’altra barzelletta. Non se ne viene a capo, non sono oggetto di studio le barzellette. Hai presente roba tipo”il fantasma formaggino”? La raccontavo da piccolo e ridevo, con quello schema magico del “ci sono un inglese, un tedesco, un francese e un italiano” che già racchiudeva tutto il cuore nero del Novecento, col suo carico di guerre mondiali e mortali. Il fatto è che ci sarà uno che, per primo, ha deciso di inventarsi quella tremenda cazzata del fantasma formaggino che l’italiano, che solo nelle barzellette è uno sveglio, si vuole spalmare nel panino. Le barzellette non pagano la SIAE, non hanno autore, sono patrimonio della collettività. Com’è giusto. Però ci sarà uno che per primo ha lavorato su Pierino e le sue avventure con la mamma e la maestra. In questo senso Stefano restituisce sicurezza che qualcuna delle sue l’ha proprio inventata lui. Lo dico così sulla fiducia.
Alzandosi dopo qualche sigaretta, prima di puntare al prossimo locale della movida infinita che ormai corre, finta come le tette di quella che sappiamo noi, da una strada all’altra, mi si avvicina e mi sussurra.
“Lo sai cos’è un rapporto platonico?” “No” “Un rapporto platonico è quando lei ti viene in mente”.  
Riparte inghiottito dal pulsare dei woofer di quei locali lì, dove rideranno di lui più che delle sue barzellette ma Stefano l’ha già messo nel conto.


giovedì 12 luglio 2012

Romance in Bergeggi




Si vive una morte sola. Ieri mattina chiamo Erne che oltre a essere il titolare di Enò a Sansalvario è pure moltissimo amico mio, che i nostri figli son nati a distanza di poche ore proprio dodici anni fa e da allora non abbiamo più smesso di vederci e sentirci perché quelli simili a volte si scoprono e non si perdono più. Insomma Ste e Pina sono al mare in tenda con bambini nostri e quasi nostri e io son qui a Torino e gli telefono a Erne che ho una mezza idea di andarmi a mangiare la tiella con i polpi che fa lui con la ricetta di mia madre e così ci scoppiamo una bottiglia di bianco freddo seduti a mezzanotte a quei tavolini che stanno in bilico tra il paradiso e l’inferno di quei posti lì al buio. Siccome Erne ha il commercio nel sangue mi risponde “Invece di venire a mangiare da me, mollo tutto e ce ne andiamo a mangiare il pesce a Bergeggi”. “A Bergeggi? Son centoventi chilometri minimo, che col ritorno raddoppiano e io domani mattina devo lavorare.””Ma ho la macchina a gas” “Ah… a gas… e allora andiamo a Begeggi.” Sempre così, di fronte alla logica ferrea cedo il campo e s’attiva il mio pericoloso sonprontismo. Esco dalla casa editrice verso le sei, porto la moto a casa, il tempo di far fare una corsa ai cani e di prendermi un caffè col cannolo al bar e Erne plana con la pazzesca Volvo blu da magliaro che gli ho fatto comprare io. On the road again.. Parliamo di politica e di Torino negli anni Settanta e ci fermiamo all’autogrill per il seicentesimo caffè della mia giornata e nel passaggio dal Piemonte alla Liguria ci ficchiamo in una sorta di tempesta nera nera che però alla vista del mare ci abbandona e torna a rompere i coglioni a quelli dall’altra parte, ai piemontesi. Sempre così, arrivi da Torino in una merda di tempo appiccicoso e pioggia e nuvole e appena ti alzi di petto sul mare che arriva davanti cambia il clima e cambiano gli odori e tu non capisci perché le case editrici stanno a Torino e non a Spotorno. Stiamo andando in un posto che Erne ha scoperto questo inverno, o l’altro inverno, o dieci inverni prima. Dice che non si può comunicare col tizio che lo gestisce e insomma arriviamo lì alla cieca ma siamo nati cani ciechi e non ci fa problemi. Le femmine son partite da Albenga e l’appuntamento è lì in giro più o meno. Come sempre e sempre con bella magia di ritrovarsi quasi per caso e di certo per culo. Il navigatore della Volvo ha un mostruoso accento tedesco per cui alla terza curva alziamo le mani al cielo colti dalla sindrome del rastrellamento. Cerco di pensare rapidamente al nome di battaglia con cui verremo ricordati ma Erne con una manata azzera l’istitutrice sadomaso del navigatore e navighiamo a vista che ci è più congeniale. Infatti arrivati a Spotorno puntiamo il muso direttamente verso Varigotti, in direzione opposta a quella giusta. La Liguria ha due versi soli nell’andare, o di qua, o di là, che corrispondono a il mare alla tua destra e il mare alla sinistra. Se però non sai un cazzo di geografia è come giocare il rosso o il nero. Noi giochiamo rosso sempre e canniamo direzione subito. Parliamo e parliamo e parliamo e a Finale Ligure, che se si chiama finale vuol dire che lì termina qualcosa, ci rendiamo conto che Bergeggi non esiste, l’hanno cancellata. Intanto le femmine ci telefonano che hanno trovato il posto e si stanno già piazzando. Prendi due femmine che son sortite vive da tutte le vite possibili, affidagli dei bambini e quelle ti spaccheranno il mondo con noncuranza e avranno ancora il tempo dei sorrisi. Invece io e Erne siamo nel buio della nostra nozione geografica insabbiata su vecchi sussidiari. Si parla di galera e di vecchie storie di amici  per far la parte di quelli che hanno altro da pensare che trovare Bergeggi ma quasi vien voglia di riaccendere la voce teutonica del navigatore. Fanculo. Erne dice che riconosce il posto e io obietto che il camioncino delle femmine non c’è e quindi, che son ben conscio che le femmine ci battono e mica ai punti proprio coll’imbarazzo del tappeto del ring a fior di faccia,  non siamo arrivati. Ci fermiamo e non siamo al posto. Non siamo nemmeno a Bergeggi a dire il vero. Attacchiamo a dire ma che nomi del cazzo hanno ‘sti paesi. Laigueglia, Bergeggi, Spotorno, Varigotti. Ci raccontiamo che Cesare Pavese andava a Varigotti e facciamo i disinvolti. Poi di colpo il camioncino delle femmine si palesa e anche le femmine medesime a bordo strada che fanno gesti e ridono. Fanculo. Ora per anni ci scherzeranno. Decidiamo di dire che c’è stato un incidente sull’autostrada ma io non ce la faccio e confesso tutto prima di scendere dalla Volvo. Sono ancora sotto l’influenza traumatica della voce del navigatore. Insomma siamo arrivati. C’è la spiaggia libera di sera e c’è una capanna sbilenca che sta in piedi con lo sputo e ci sono i tavoli scompagnati tra la sabbia e le rocce, pochi tavoli a dire il vero e c’è il nome di sto posto scritto a pennarello su un pezzo di plastica gialla. Gagollo si chiama e io mi riprometto di scoprire senza la magia di google ma per bocca di qualcuno del posto che cazzo è il gagollo. Intanto facciamo chiarezza sulla situazione. Cooperativa di pescatori che arrivi lì e mangi quello che s’è pescato, in un bailamme di casini e insulti che si capisce che lì nessuno ha fatto l’alberghiero e noi ci adeguiamo senza problemi. Sul foglio alla peggio c’è scritto cinque sei portate che poi sono pesce alla griglia misto (quello che capita), pesce fritto misto (quello che capita) trancio di spada (però il menù avverte che costa molto e non dice quanto), trancio di tonno (però il menù avverte che costa molto lo stesso ma meno di quell’altro. Lo giuro.  Il giorno dopo leggerò recensioni su internet di gente inorridita dal servizio e dai modi. Noi siamo stati in paradiso e lo dico da subito così mi tolgo il pensiero. Il fritto misto costa venti euro a cristiano e mi sembra davvero troppo però siamo arrivati fin lì e è il compleanno di Dani e di Marta e c’è il mare che schiuma a pochi metri da noi e ordiniamo una bottiglia e insomma si ordina un paio di piatti di pasta col pesce e fritto per quattro. Devo ora premettere che io e Erne mengiamo come cinque persone normali affamate. Quando arriva il fritto non ci posso credere. Una monumentale piramide di gamberi e alici e sogliole e calamari e boghe e ficarelle e chissà cosa.  Una cosa che riempie buona parte dello spazio della tavola da sei e che si alza prepotentemente verso il cielo come il Tikal di tutti i fritti di pesce dell’universo. Lo ammetto, ci siamo battuti come leoni ma qualcosa l’abbiamo lasciata. Non era materialmente possibile mangiare tutto quel pesce. Io e Erne alla vista buttiamo il tocco e a ritorno devo guidare io e quindi mi tengo basso coi consumi alcolici e mi scoppio giusto una Menabrea. Non tanto per noi ma piuttosto per la simpatica possibilità che io e Erne di notte sulla vecchia Volvo attiriamo di certo l’attenzione di tutti i calimeri appostati lungo la strada. Restiamo lì fino a mezzanotte, i bambini scrivono dei “ti amo” qualcosa sulla sabbia, io faccio saltare sassi piatti a filo dell’onda e nel buio. Per tutta la sera da due altoparlanti scassi arrivava De Andrè e mangiare gamberi fritti bevendo birra ghiacciata mentre a Sidun si consuma il dramma a fior di voce del genovese è un bel vivere. Sono anni che non riesco più ad ascoltare De Andrè fuori da casa mia e tra le mie cose, che ormai l’hanno cucinato in tutte le salse e ammetto di averci messo anche la zampa mia ma lì, in quel momento intendo, era perfettissimo. La morte sua. Per la nostra lasciate un messaggio e vi richiameremo.

martedì 10 luglio 2012

con la maglietta bagnata




Piove maledettamente. Un muro d'acqua. Sono in moto e sto cercando di ritornare alla casa editrice in cui lavoro. Son già un paio di chilometri che guido in immersione. Non ho vestiti di ricambio e già lo immagino, non è la prima volta, che sotto la mia scrivania si formerà una maledetta pozza fatta di gocce fredde che dalla nuca mi son scivolate a fil di pelle e di jeans. Fino al pavimento. Ho una camicia leggera che ora sembra un fazzolettino di carta usato. Il portafoglio e il telefono li ho infilati al volo nello zaino che è a prova di pioggia ma non di questo fottuto niagara che mi sta investendo. Riesco ad arrivare al bar e oltre proprio non è possibile, è inutile che ridete con quelle facce da "ti conosciamo", davvero non è possibile. Mollo la moto sotto l'alluvione e entro nel bar solito. Mi prendo un chinotto da solo dal frigo, come a casa, vado in cucina a prendere il cavatappi come a casa, che tirare fuori lo svizzero dal jeans fradicio è un'impresa a cui non sono preparato psicologicamente. La moto di là dal vetro sta prendendo una pioggia da primato che mi costerà trecento euro di meccanico ma questo lo scoprirò solo la sera tardi. Di solito regge l'urto ma vuoi l'età, vuoi la pioggia da primato, mentre son lì che mi bevo il chinotto la centralina affoga nella disperazione delle sue lacrime a impulsi. Mi siedo a un tavolo e guardo i Simpson alla tele. Senza volume per non disturbare. Che poi a fargli tutte 'ste attenzioni a quella manica di smandrappati che riempiono il bar il volume sarebbe piuttosto da alzare a palla per stendere un velo di decibel robusto sulle cazzate che volano tra quelle pareti. Dal tavolo a fianco al mio un tizio che vedo spesso ma con cui non ho mai parlato approfitta della calamità per socializzare. Avrà una settantina d'anni, i capelli tintissimi neri fiammati d'arancione e un paio di occhiali da sole che in quel frangente sono poco pertinenti ma del resto gli occhiali da pioggia non li fanno e quindi anche lui avrà le sue buone ragioni.
"La prima volta che ho preso l'aerio io non avevo mai preso l'aerio prima"
Un incipit più potente di "quel ramo del lago di Como...". Lo guardo e questo basta per farlo continuare e già mi immagino che se esce con 'sta pioggia i capelli di legno che ha sulla testa si sciolgono alla furia degli elementi.
"Allora mio fratello Pietro e Luigi, mi dice che vado da lui in Australia e figuriamoci io non avevo mai volato prima e mi sono fatto ventisei ore all'andata e mi pare che erano ventisei ore pure a ritorno."
Pausa che crea bella tensione. Dev'essere schedato come rompicoglioni da combattimento perchè appena attacca a parlare alcuni prendono il bicchiere di qualcosa e si spostano nell'altra sala del bar. Io sono inchiodato lì. Perduto.
"Mò se tu devi viaggiare coll'aerio non ti devi appaurare, che lo capisco che fai impressione nel cielo ma pensi agli uccelli e alle nuvole e a tutte le altre cose che stanno comodamente nel cielo e stai uguale a loro. La gente non lo dice ma io l'ho capito. L'aerio è un apparecchio che quando vola nel cielo va dritto e galleggia. Non può capitare nulla se sta dritto e galleggia. Però magari il pilota vede una cosa giù che non capisce e per guardare abbassa il muso dell'aerio e a quel punto se non sei bravo sei caduto. Perchè hai perso il fatto del galleggia. L'aerio è pericolosissimo quando si parte perchè fa un tuffo come per andare a cercare l'aria che galleggia ma in quel momento può succedere qualunque cosa, poi galleggia e va tutto bene, poi quando deve scendere allora si può morire facilmente, soprattutto quando si afferra colle ruote alla strada sotto che sta all'arioporto. Poi la polizia ti guarda la valigia e magari colla scusa che non capisci l'austraio si fregano una camicia o un regalo per i nipoti ma a te a quel punto che te ne frega che sei vivo e non sei morto e va bene così. Le femmine in aerio quando si scende gli viene un calore che hanno voglia da impazzire e dentro l'aerio sembra un film sporco ma è solo la paura di quel momento che appena scese già non ti guardano più e magarti c'è suo marito all'aspettare."
Mi alzo con un mezzo sorriso e indico la moto come per comunicare una qualche incredibile urgenza. Mi piazzo sotto la cornice della porta di entrata e guardo fuori la pioggia maledetta. A un certo punto sento una mano che mi tira il braccio. "Permesso." Di nuovo lui, sporge la testa fuori quel tanto da non bagnarsi e vomita sul marciappiede d'un getto potente e corposo. Si terge le labbra con la manica del giubbotto jeans, si gira verso nessuno e grida "Mannagia a te che mi hai fatto ridere." Poi torna a sedersi e tutti lo insultano. Pasquale, il titolare del bar ha preso la macchina e ha accompagnato i bancari a lavoro dopo il pranzo. Terrorizzati di sgualcirsi i vestitini belli e di inumidire l'ipad. Al bancone ci sono solo le due ragazze. Capisco al volo. Si sentono male solo all'idea. Gli chiedo di passarmi un secchio e un disinfettante e ci penso io che nella vita ho fatto tutti i lavori possibili e ho capito che lo schifo sta solo nella menzogna e nel potere.
Di fronte si schianta un albero sulla strada. Escono in tre e ficcano le macchine sotto i rami inerti. Fanno le foto per l'assicurazione col telefonino. Ormai piove meno forte, il vecchio è crollato a dormire ubriaco con la testa sul tavolo e un filo di bava che gioca al pozzo e il pendolo con la tovaglietta. M'appoggio di chiappa timida sul freddo della sella bagnata e riparto. Anche questa volta.