martedì 24 luglio 2012

Uomo da marciappiede





Stefano arriva verso le dieci di sera in via Galliari, tra i tavolini sparsi di Enò che d’estate diventa casa mia. Passa più o meno tutte le sere. Sono lì con tutti gli amici soliti e Erne fa la spola dal bancone al tavolo dove si siede con noi a mangiare. Bottiglie che vanno, bottiglie che vengono e un provvidenziale secchio di ghiaccio per il bianco gelato che con la tiella ci sta tutto. Me lo ricordo da sempre Stefano e c’era prima di me e del mondo col suo cartello “VENDESI” al collo. Racconta barzellette a pagamento. Non gli è andata benissimo per buona parte della vita e si porta i segni addosso, parecchi segni, ma continua a dire che ci crede in quel suo camminare tutta la notte da un locale all’altro, da uno stupido all’altro che lo prende in giro, da una moneta all’altra che sul cartello c’è scritto “cinque euro” ma siamo parecchio sul trattabile. Arriva da noi e si siede. Non ci vende barzellette che non siamo clienti, siamo un posto per tirar fiato. Non smette però di dire cazzate, per far ridere i bambini che arrivano da tutta la strada e ride con mezzo dente in bocca e i capelli lunghi e la ghigna che in un gruppo di rock sudista di una volta ci starebbe tutta. Nessuno gli chiede le barzellette, gli offriamo da bere un succo di mela ghiacciato che solo quello riesce a stargli ora nella pancia. Però s’attacca a tutti i pacchetti di sigarette sul tavolo e sempre con la stessa gag:”Fumi le mie stesse sigarette? Che bello le ho ritrovate”. Gli dico di svegliarsi all’ora in cui decide di aprire gli occhi e di mettere sul foglio un ricordo subito, prima del caffè. Un ricordo alla buona di questi vent’anni che ha passato, notte dopo notte, in giro per la città. Lui l’ha vista cambiare questa bestia ferita che chiamiamo casa, l’ha vista prendere respiro e rantolare e sospirare e tossire e vomitare e gridare. Ha conosciuto questo, quello e anche quell’altro.  Gli dico, mettili in fila ‘sti incubi e ‘sti sogni che poi gli regaliamo la vita tra le parole aggiustate a martellate. Lui dice che ci si mette di buzzo buono e non ci crediamo né io è lui ma se c’è una cosa che la vita m’ha insegnato e la meraviglia e magari domani torna lì da Enò, che siamo di quella razza che la trovi facile, senza però trovarla mai quando la cerchi, e mi sbatte sul tavolo, tra gli spaghetti col polpo e il mazzo di chiavi, una risma di fogli masticati a ricordi. Stefano racconta quintali di barzellette e certe le inventa pure. Dici poco. Me lo sono sempre chiesto chi ha inventato quella o quell’altra barzelletta. Non se ne viene a capo, non sono oggetto di studio le barzellette. Hai presente roba tipo”il fantasma formaggino”? La raccontavo da piccolo e ridevo, con quello schema magico del “ci sono un inglese, un tedesco, un francese e un italiano” che già racchiudeva tutto il cuore nero del Novecento, col suo carico di guerre mondiali e mortali. Il fatto è che ci sarà uno che, per primo, ha deciso di inventarsi quella tremenda cazzata del fantasma formaggino che l’italiano, che solo nelle barzellette è uno sveglio, si vuole spalmare nel panino. Le barzellette non pagano la SIAE, non hanno autore, sono patrimonio della collettività. Com’è giusto. Però ci sarà uno che per primo ha lavorato su Pierino e le sue avventure con la mamma e la maestra. In questo senso Stefano restituisce sicurezza che qualcuna delle sue l’ha proprio inventata lui. Lo dico così sulla fiducia.
Alzandosi dopo qualche sigaretta, prima di puntare al prossimo locale della movida infinita che ormai corre, finta come le tette di quella che sappiamo noi, da una strada all’altra, mi si avvicina e mi sussurra.
“Lo sai cos’è un rapporto platonico?” “No” “Un rapporto platonico è quando lei ti viene in mente”.  
Riparte inghiottito dal pulsare dei woofer di quei locali lì, dove rideranno di lui più che delle sue barzellette ma Stefano l’ha già messo nel conto.


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