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Federico Patellani, Marinai e fotografo ambulante, Napoli, 1950 ca. |
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Dalla rete, Fotografo ambulante con stampante digitale al seguito. |
Mentre Macondo celebrava la riconquista dei ricordi,
José Arcadio Buendía e Melquíades scossero la polvere dalla loro vecchia
amicizia. Lo zingaro veniva deciso a restare nel villaggio. Era stato nella
morte, effettivamente, ma era tornato perché non aveva potuto sopportare la
solitudine. Ripudiato dalla sua tribù, privato di ogni facoltà soprannaturale
come castigo per la sua fedeltà alla vita, decise di rifugiarsi in quell’angolo
del mondo non ancora scoperto dalla morte, e di dedicarsi alla gestione di un
laboratorio di dagherrotipia. José Arcadio Buendía non aveva mai sentito
parlare di quella invenzione. Ma quando vide se stesso e tutta la propria
famiglia effigiati in una età eterna su una lastra di metallo laccamuffa,
ammutolì dallo stupore. Da quella epoca datava l’ossidato dagherrotipo su cui
appariva José Arcadio Buendía coi capelli irti e brizzolati, col colletto duro
della camicia allacciato con un bottone di rame, e una espressione di solennità
sbigottita, e che Ursula descriveva scoppiando a ridere come “un generale
spaventato”. In effetti, in quella diafana mattinata di dicembre in cui gli
fecero il dagherrotipo José Arcadio Buendía era spaventato, perché pensava che
la gente si andava sciupando a poco a poco intanto che la sua immagine passava sulle
lamine metalliche. Per una curiosa inversione dell’abitudine, fu Ursula che gli
tirò fuori quella idea dalla testa, e fu sempre lei a dimenticare i suoi vecchi
crucci e a decidere che Melquíades sarebbe rimasto a vivere in casa, anche se
non permise mai che le facessero un dagherrotipo perché (secondo le sue stesse
testuali parole) non voleva servire da burla ai suoi nipoti. Quella mattina
vestì i bambini coi loro migliori vestiti, li incipriò e diede una cucchiaiata
di sciroppo di midollo a ognuno di loro perché potessero rimanere assolutamente
immobili per quasi due minuti davanti alla pomposa macchina di Melquíades. Nel
dagherrotipo familiare, l’unico che ci fu mai, Aureliano apparve vestito di
velluto nero, tra Amaranta e Rebeca. Aveva Io stesso languore e lo stesso
sguardo chiaroveggente che avrebbe avuto diversi anni dopo davanti al plotone
di esecuzione.
(tratto da Cent’anni di Solitudine di Gabriel
Garcia Marquez)
Per secoli la possibilità di farsi
ritrarre, di lasciare una testimonianza iconografica per raccontare ai
discendenti e al futuro il proprio volto e le proprie passioni fu appannaggio
della fasce sociali più abbienti. Toccava averci il tempo di restare in posa,
giorni e giorni spesi in un’immobilità che favorisse la tela del ritrattista,
toccava averci anche le possibilità economiche per permettersi di pagare la
mano dell’artista. I più ricchi si facevano fare ritratti numerosi e la nobiltà
s’abituava già in tenera età al tedio della posa. A partire dall’Ottocento e più compiutamente nella seconda
metà di quel secolo la possibilità di farsi ritrarre, grazie alle tecniche
fotografiche che, in un processo di affinamento e di scoperta sempre attivo a
partire dalle prime esperienze pionieristiche e fino ai nostri giorni digitali,
permettevano la realizzazione di ritratti con un significativo abbattimento dei
costi e dei tempi rispetto alla tradizionale arte pittorica. La fotografia
divenne l’asse portante delle memorie domestiche ma almeno fino all’avvento del
35 millimetri e della produzione su scala industriale di apparecchi fotografici
che contribuì, nella seconda metà del Novecento, alla costruzione capillare di
un archivio della società di massa, farsi ritrarre era ancora un evento, un’occasione
spesso unica, per moltissime persone. Le foto di interni nei Sassi materani
scattate da Franco Pinna, accompagnando le spedizioni verso il meridione dell’antropologo
Ernesto De Martino negli anni Cinquanta, ci mostrano realtà domestiche segnate
da una marcata indigenza ma sulle pareti contese alla roccia di quelle
abitazioni possiamo vedere a volte la foto di un uomo in divisa, forse un
figlio o un nipote morto in guerra, la foto di un anziano parente, di cui in
presagio di morte s’era voluta serbare memoria sacrificando sudate finanze a
beneficio dei fotografi ambulanti che battevano le provincie anche sperdute per
dare a tutti un occasione fotografica. Come a Macondo la fotografia arrivava
nelle piazze con quella sua magia replicata sempre a fiato sospeso,
testimonianza inequivocabile di una modernità che cominciava a non dare tregua.
Presto si andò definendo una grammatica del rappresentato. I “riti di passaggio”,
si perdoni l’uso improprio in questo contesto di una definizione utilizzata soprattutto per la sua valenza evocativa. La nascita, la scuola, la
leva, il matrimonio, il viaggio, la morte sono i luoghi deputati per la
costruzione narrativa dell’archivio domestico. Staimo parlando degli inizi del
secolo e spesso il lasso temporale che correva tra la possibilità testimoniale
offerta da una nascita e l’eventualità di una morte immediatamente successiva
era alto. Se si visitano i vecchi cimiteri sperduti nelle campagne italiane si
possono notare piccole croci in aree delimitate in cui vecchie indicazioni
recitano “bambini”. Senza nome, solo piccole croci. Ma ormai la consuetudine
della rappresentazione fotografica di ambito domestica, in onore alla
costruzione di una memoria condivisa fatta di archetipi narrativi fissati e d’obbligo,
pretendeva il suo tributo. I bambini venivano dunque fotografati già defunti,
in un processo di sintesi estremo che passava oltre il tabù della vista del
morto. Mi capita spesso di infilarmi nei vecchi cimiteri per guardare le foto sulle tombe, senza una particolare attitudine necrofila ma solo per sfogliare l'album di quella comunità scoprendo modalità univeralmente accolte di rappresentazione e differenze. Lo trovo più divertente dell'obbligo a cui ci sottopongono gli amici novelli sposi quando, al ritorno dal viaggio di nozze, ci inchiodano al divano letteralmente, sotto il peso imbarazzante e maledettamente fisico della loro memoria fotografica rilegata in marocchino rosso e ordinata in album concepiti per stare sulla memoria come una pietra tombale inviolabile e inconsultabile. Allo storico della fotografia l'onere di farsi carico di sfogliare un giorno anche quelle pesanti pagine di cartoncino foderato di velina, in barba alle schede da mille giga che pure ormai sono d'uso diffuso.
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Giorgio Olmoti, cimitero di Crespi d'Adda (BG), 2012 |
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