martedì 18 giugno 2013

La vita a calcinculo









Ieri sera, nel parco a un passo da Fiat Mirafiori, la madre di tutte le fabbriche, e a uno sputo da casa mia. Ieri sera nel parco dove stavano accampati da giorni i fan di Vasco a pettinare la loro vita spericolata e a far le cure per un fegato spappolato che non sapranno portarsi addosso con lo stile che richiede, impegnati a mangiare le penne fredde che la mamma gli ha messo nel contenitore di plastica ermetico. Ieri sera su quello spiazzo di ghiaia al buio e i camper dei punk con i cani e la musica che da sempre stanno qui e sono la possibilità di far due parole la notte quando porto i cani e mi sdraio sulla panchina del parco a respirare il fresco. Ieri sera con quell’odore di griglia che già arriva dal baraccone che montano ogni estate per ballare il liscio e mangiare le costine e i vecchi si mettono la cravatta e escono dai palazzoni e si accendono dispute e risse vere per le donne e per il vino. Ieri sera in quello slargo lì, vicino al paradiso delle gattare e a un passo dal campo da bocce e i tavoli in cemento con la dama pitturata sopra. Ieri sera con le quattro giostre quattro che stanno lì, gestite da un’unica famiglia di zingari e c’è il calcinculo, catenelle lo chiamano quelli che serbano pudore nelle parole, e l’autoscontro, macchina da scontri lo chiama Ste che nelle parole serba invenzione e anche per questo mi stordisce di meraviglia, l’ottovolante, che mi costringe a dire tutte le volte a voce di megafono “volante otto, recatevi sull’ottovolante”, e la macchina del pugno che se ho qualche problema all’articolazione del polso sospetto sia per gli strapazzi di una gioventù in cui il testosterone si misurava a caracche secche sul pallonazzo di pelle sgualcita di quell’oggetto infernale. Ieri sera con mio figlio e i suoi amici e con altra gente ci siamo dati appuntamento alle giostre, che già era buio e l’occhio doveva trovare misura della luce possibile, adattando la pupilla al pulsare delle intermittenze dei baracconi. Ieri sera c’erano i punk che mangiavano lo zucchero filato e i cani che son corsi incontro ai miei, che tra vecchi amici si è più felici di trovarsi quando c’è da far cagnara, la chiamiamo così a ragione, e non fa freddo. Ieri sera i romeni erano vestiti a festa e ridevano a sentire le grida delle femmine loro sul calcinculo e le gonne che svolazzavano a graffiare l’esordio di quest’estate minchiona promettevano voglie. Ieri sera io e Ste ci baciavamo seduti sul bordo della pedana degli autoscontri e ridevamo, che quando ci siamo incontrati io non avevo nemmeno una casa ma solo un vecchio Ciao e a ritrovarci lì c’era da dargli un cinque al destino. Ieri sera sono piombato su quel mondo in bianco e nero, su quella memoria di un Italia perduta e di periferia, con il mio Ciao già pronto per il viaggio, che tra due giorni attraverserò la pianura padana da Torino a Udine sincronizzando il motore e il respiro su un tempo che non esiste più, evitando le grandi città, dormendo in mezzo ai campi e fermandomi nei paesini a chiedere ragione di una vita che hanno smesso di raccontarci o che forse non esiste più. Lo vedremo. Ieri sera mio figlio e i suoi amici ridevano sulla giostra e anche noi stavamo lì sospesi nel piacere assoluto di quel fresco e di quelle parole leggere. Per tornare a casa ho ripreso il Ciao e l’ho acceso in corsa, saltandoci sopra come facevo da ragazzino. Mi sono voltato solo un secondo con un sorriso a Ste, che era il rinnovo di un patto notturno che quella sera s’era giocato le sue carte migliori. Il miglior tributo a quel regalo della macchina del tempo.
Poi vi racconteranno del degrado e della violenza e della disperazione della città ma sarà anche il caso che la smettiate di farvi raccontare la vostra vita, che ne siete gli unici titolari e questo dovrebbe bastare a farvi scendere in strada in una sera così. Non è l’arcadia, non è un mondo ideale, i sorrisi erano in bilico sulla maledetta necessità di resistere, ognuno a modo suo, ma ieri sera il tempo s’è fermato e per un momento ho pensato che il mio Ciao è magico, è più di quello che sospetto.
All’ingresso del parco c’è la casermetta dei carabinieri ma tutto quello che ho raccontato succede alle loro spalle e hanno la bella delicatezza di non voltarsi mai.



martedì 11 giugno 2013

Fare la differenza

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 mentre leggi fai andare il pezzo qui sotto.





Una storia che passa dalla storia. Del resto c’è da aspettarselo da uno come me, che mischia vita e mestiere nel gioco della memoria e del tempo. Mi sono inventato un lavoro in bilico su fotografie che muoiono ogni giorno un po’ alla luce che volevano rubare, lettere chiuse per decenni nei cassetti e di cui non c’è risposta certa, canzoni incise anche solo su un muro, film girati e da girare con i fotogrammi che portano il tempo del muscolo cardiaco del mondo. Troppe volte queste tracce della memoria, la bestia imprendibile che mi ostino a inseguire da bella parte della vita, mi hanno fatto prendere le misure alla mia storia personale, generando a volte dolore e divertimento ma anche veli di un disagio che non so concretamente restituire sulla pagina. Un imbarazzo narrativo che va oltre la misura lecita di quello che per patto stabilito ho scelto di mettere in gioco di me nel racconto corale che cerco nelle storie e per la storia. Un bagaglio emotivo che ti si apre all’improvviso in mezzo alla strada, regalando al mondo la misera intimità delle tue poche cose che credevi di poter celare.
Questa volta è andata peggio. Credevo di essermi irrobustito e pure un po’ sterilizzato all’emozione e al dolore che si genera dalla frequentazione delle tracce della memoria, chiamateli documenti se volete riguadagnarmi a un briciolo di dignità accademica ma sappiate che non ci tengo per niente. Sto lavorando da anni, ho delle pagine mie che lo testimoniano, al racconto dell’Italia del Miracolo economico, che già a chiamarlo così è chiaro che non c’era volontà politica e istituzionale a generare quella bella disposizione italiana dell’epoca a proporsi sui mercati internazionali con successo ma piuttosto si riteneva che la cosa era capitata per intercessione divina. Altro che mano di dio tesa verso le sue creaturine che brulicavano per la penisola  come i vermi del formaggio in quei giorni, con la guerra che era alle spalle ma ne sentivi ancora l’alito maledetto. Alla base del successo di quell’Italia lì, che già bussava alle porte della voglia di rivoluzione, c’era una manodopera a basso costo pescata dalla bella vocazione agricola di un paese disteso in mezzo al Mediterraneo e privo di materie prime, deportata nel triangolo industriale del Nord in massa.
Lavorando all’analisi dei flussi migratori degli anni Sessanta a Torino mi sono imbattuto in una documentazione tutta riferita agli archivi scolastici. A partire dagli anni Trenta, un po’ prima a ben vedere, erano state istituite in Italia le classi differenziali. Vi si avviavano gli alunni cosiddetti “tardivi” che avrebbero fruito di un percorso personalizzato per essere poi reintrodotti nella scuola ordinaria. A queste classi accedevano originariamente bambini affetti da problemi che venivano valutati da commissioni mediche e che passavano dal ritardo mentale all’ handicap fisico. Queste strutture potevano rivelarsi drammaticamente come l’anticamera del manicomio. Sto procedendo grossolanamente ma giusto per darvi il quadro generale della mia storia di oggi. Teniamo comunque presente che le differenziali, che accoglievano quelli che venivano definiti “falsi anormali” verrano abolite nel 1975. Insomma quando a Torino arrivano migliaia di famiglie meridionali la città non è preparata ad accoglierle. Si costruiranno rapidamente dei quartieri di periferia dominati da palazzoni tremendi ma sostanzialmente si tratta di ridefinire antropologicamente il capoluogo piemontese sulla base del radicale cambiamento e la città, le istituzioni, sono assolutamente impreparate. Se negli anni Cinquanta le classi differenziali a Torino erano una sessantina, a metà degli anni Sessanta sono 490. Cosa sta succedendo? Capita che i ragazzini meridionali sono dialetti, abitudini e santi patroni diversi che cadono tutti nel calderone ribollente dell’Italia del Miracolo. Capita che le famiglie meridionali, inseguite dai cartelli che minacciano di non volergli affittare quelle soffitte che giusto loro e la loro disperazione potrebbero abitare, vivano in condizioni precarie, maledettamente precarie. Capita che non è che arrivando in città si venga automaticamente assorbiti dalla fabbrica e ci sono centinaia di persone che conducono vite in bilico, che fanno i conti con una quotidianità in cui non c’è garanzia di quel pane che pure nelle preghiere si invoca. Capita che i ragazzini crescano in quelle periferie, nel caso torinese anche il fatiscente centro storico viene colonizzato, lasciati in mezzo alla strada mentre i genitori si misurano con il tempo maledetto della macchina produttiva. Capita che a scuola ci si vada poco e male e i compiti non si riescono a fare in quelle stanze ingombre di odori e rumori e voci e parole che non sono mai le stesse del libro, alla faccia del fare gli italiani. Capita che le maestre e i maestri guardino con ripugnanza, tutta testimoniata dalle relazioni dell’epoca, a quei poveri cenci che ricoprono i ragazzi e alla pelle macchiata da regimi dietetici poco mirati. Capita che i ragazzi rispondano male, vedendo nell’istituzione scolastica il riverbero di quel potere oppressivo che costringeva i padri ad affrontare l’alba fredda ogni giorno. Capita insomma che le classi differenziali, ricordiamolo ancora anticamera di esistenze tragiche e segnate, siano riempite di questi ragazzini portatori di un disagio di cui sono solo la voce più debole. E sfogliando le note con cui si condanna un bambino a ripetere l’anno alle differenziali leggo che il piccolo, si sottolinea con grande enfasi che è figlio di genitori separati, sa fare di conto e legge ma si atteggia sconvenientemente con i suoi dieci anni, avendo come riferimento, cito testuale, Celentano e i Beatles. La cosa potrà anche far sorridere e chi ora immagina questo piccoletto che gira per i corridoi della scuola cantando Yellow Submarine fa un errore grossolano. Dietro quella relazione scolastica c’è tutto un racconto complesso.

Anche l'abito fa il monaco; la blusa nera e i calzoni d'oltreoceano costituiscono una specie di immunizzazione morale di quell'esercito di gaglioffi.

Con queste parole il ministro di Grazia e Giustizia Guido Gonella tuona dalle pagine della rivista Oggi del 17 settembre 1959. Promotore di una legge mai approvata contro il teppismo Gonella si fa portavoce di una diffusa inquietudine che trova conferme in alcune pellicole proiettate nelle sale cinematografiche e sulle pagine di volumi come Giovani al doppio gin. I titoli dei giornali frequentemente segnalano con allarme che la situazione sta tragicamente degenerando. Il Messaggero del 27 maggio 1959 ai lettori sgomenti propone il seguente titolo:

Aggredisce per strada una signora tentando di strapparle le vesti poi va a giocare a flipper.

Il bravo cittadino, padre di famiglia, legge queste cronache recandosi al lavoro con il tram. "Mi chiedo, di questo passo, dove andremo a finire" mormora mentre attorno a lui altri scuotono la testa. E, ancora, destano preoccupazione le canzoni diffuse dagli infernali juke-box, antenati commerciali degli store on line dei nostri giorni, che consentono l'ascolto di un brani grazie alla moneta che si inseriva nell'apposita fessura. Cantanti stranieri, presto imitati anche dalle nostre nuove leve canore, con i loro brani si contrappongono alla consolidata linea melodica della canzone tradizionale. I testi poi, almeno quelli in italiano, sembrano un oltraggio sistematico alla morale. Una provocazione continua proposta lì a bella posta agli adulti che passano davanti a quei juke box con la fretta che quei giorni di esplosione della produzione e del mercato impongono. Siamo in pieno Boom economico, a metà tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, e l'Italia è ai vertici dei mercati internazionali. La produzione di elettrodomestici, l'industria automobilistica, il settore del petrolchimico e delle materie plastiche sono alcuni dei settori che decretano il successo italiano nel mondo. Tra il 1959 e il 1963, mentre nell'aria suonano i juke box, si quintuplica la produzione di autoveicoli. Nello stesso periodo un milione e mezzo di frigoriferi prodotti e 634.000 televisori ci raccontano che oltre alla produzione sono di certo aumentati i consumi. Fino alla seconda guerra mondiale, dalle cui tragiche macerie si cercava di rinascere in quegli anni, l'individuo era destinato sostanzialmente a dividere la sua esistenza in due fasi: il mondo dell'infanzia e quello degli adulti. A partire dagli anni Cinquanta i consumi vengono pilotati su specifiche categorie che, fino a quel momento, si può dire non fossero riconoscibili nel tessuto sociale. Le casalinghe sono le destinatarie di elettrodomestici e alimentari di produzione industriale, ma anche di riviste e cataloghi a loro espressamente dedicati. Attorno ai bambini si costruisce un fiorente mercato di articoli per l'infanzia, giocattoli, alimenti e manualistica riferita ai temi dell'educazione e dello sviluppo. La vera novità sono però i giovani. Fino alla seconda guerra mondiale, dalle cui tragiche macerie si cercava di rinascere in quegli anni, l'individuo era destinato sostanzialmente a dividere la sua esistenza in due fasi: il mondo dell'infanzia e quello degli adulti. A volte la prima fase era decisamente e drammaticamente ridotta per lasciare subito spazio al mondo del lavoro. I giovani si collocano dunque in una sorta di terra di mezzo tra queste due fasi temporali dell'esistenza. A partire da questo momento, i giovani, in tutto il mondo occidentale, diventato una realtà fortemente connotata. Vogliono parlare in maniera diversa dai loro padri, vogliono vestirsi e pettinarsi diversamente dai loro padri, vogliono leggere libri e giornali e ascoltare musica diversa da quella che ascoltano i loro padri, vogliono mangiare cose diverse dai loro padri, vogliono avere una vita sentimentale diversa da quella dei loro padri. E il nostro ragazzino finito nelle spire tragiche delle scuole differenziali? Agli occhi della commissione giudicante non c’è sacmpo per quel suo atteggiarsi seguendo il modello proposto da Celentano e dai Beatles, e ricordiamo che il Celentano di allora si scatena a Sanremo, sul palco sacro della tradizione canora, e s’agita scosso da movimenti pelvici gridando di ventiquattromila baci mentre la Pizzi è ancora lì a ringraziare per i fiori ricevuti e ad avvincersi come l’edera. In fondo alla relazione leggiamo RESPINTO. Chissà dov’è ora, con quei pochi anni più dei miei.
E poi ho letto le schede di ragazzine in sospetto di prostituzione, ed era il sospetto a turbarmi, e ancora giudizi che erano evidentemente la traccia tragica di menti segnate e contorte, quelle di chi giudicava.
D’un tratto occuparmi di storia e storie ha cominciato a farmi male, a ficcarsi in una piega profonda del mio vivere che forse non sopportavo. Per giorni ho ripensato a quel timbro in fondo ai fogli. RESPINTO. Era una cosa che sapevo misurare con bella memoria personale ma in quel caso era un oltraggio tragico alla possibilità che tutti dobbiamo spendere per dirci uomini.E mi sono ricordato che avevano chiesto ai miei genitori, io sono nato nel 1965, visto che arrivavo così da lontano, se non volevano che in prima elementare fossi alleggerito dalla pressione didattica frequentando le belle e simpatiche differenziali, sospettandomi di un dialetto e di un accento che nemmeno avevo ma che gli piaceva immaginare visto che lì di gente che arrivava dal sud non ce n'era e non gli sembrava vero di fare come nelle grandi città. Nel nome delle circolari che arrivavano in bisbiglio. Strategia da campo di concentramento. I miei rifiutarono e da allora mi bastava chiedere di andare al bagno per sentire la maestra dire "avete sentito ragazzi, loro il gabinetto lo chiamano bagno". Giusto perchè la differenza la volevano vedere anche forzando la realtà al loro delirio didattico.
Dovrebbero andare a cercarli adesso quei ragazzi che a migliaia riempivano le classi differenziali in quei giorni. Per chiedergli scusa. Ma non avrebbero nessun presente decente da offrire in riscatto e allora restano le storie e l’unico desiderio mio di ritrovarci davanti al bar d'abitudine, che stando al faldone e con buona pace dei dati sensibili è a un passo dalla casa di quel ragazzo di allora, per una birra insieme. Alla faccia delle categorie storiografiche. E per ribadire che io preferivo i Rolling Stones. Ce lo diremo come due Baradel, seduti uno di fronte all'altro mentre il vento non gira ancora.

sabato 8 giugno 2013

un nemico qualsiasi

questa storia la vorremmo raccontare in giro appoggiandola alle canzoni di Loris Vescovo, facendola vivere su un palco dove si muovono danze e immagini. è la storia di una guerra e di tutte le guerre, senza spazio e tempo ma tutto quello che si racconta è accaduto davvero e l'abbiamo ritrovato tra i documenti che accompagnano con dovizia di particolari la fine di una guerra che non è mai la fine della guerra. stateci vicini.


Da piccole mia nonna ci ha insegnato a distinguere il bene dal male attraverso i suoi racconti, che erano un intreccio fitto di parole a fil di voce, con le sue dita mosse nell’aria come mantidi tese ad afferrare la nostra attenzione. Il bene era tutto concentrato nelle storie di solidarietà, di lealtà, di generosità, di dignità, tutte parole con un accento che scoppia in fondo per dare clamore a quello che devono evocare. Il male era una massa densa e scura di gesti che andavano dal sorriso negato alla morte inferta. Ci voleva poco a capire che il marcatore del male, una sorta di prova del nove quando ti afferrava qualche dubbio etico, passava tutto dal dolore degli altri che avrebbe potuto essere anche il tuo dolore.



Uccidere, assassinare, strappare alla vita, colpire, tagliare, smembrare. Il delitto orrendo, quello maledetto di cui non ci si deve macchiare mai. Assolutamente. Questa idea ce la portavamo dentro piantata a cuneo, qualcuno canterebbe, tra l’aorta e l’intenzione. Sembrava una certezza incancellabile. Fino a quando s’è cominciato a parlare del nemico. All’inizio erano vaghe allusioni, più un dirselo per bisbigli, guardandosi attorno per vedere se ad ascoltare c’erano i più piccoli. In ragione del fatto che i bambini non sanno dominare la paura. Così si diceva tra adulti. Nei giorni successivi però il nemico s’è imposto nei nostri gesti quotidiani come una presenza carica di angoscia ma sempre con quel sospeso che non sai afferrare. Dentro, in fondo alla pancia, dove va a frugare la bestia fottuta della paura, scattava un meccanismo di difesa piuttosto elementare che ti sussurrava “vedrai che non è vero”.



Un giorno vidi il cane dei vicini precipitarsi su un uccellino, un nidiaceo caduto dal tetto e rimasto sul piazzale stordito e incapace d’essere volo. Il cane lo afferrò e in quel morso e in quello scuotimento c’era già il senso di una fine ineluttabile. Eppure corsi a vedere, negando l’evidenza di quella violenza, sperando di non trovare quella morte che già sapevo. Già… sperando. Sempre per quella difesa minima che possiamo permetterci quando è già difficile darci definizione plausibile del male.



All’inizio il nemico aveva forma di nebbia nei nostri racconti. Mai concreto, era da subito maledettamente cattivo, maledettamente efficiente nella sua pratica dolorosa e nell’altra valle dice che li hanno portati sulla riva del torrente e poi uccisi lasciando i corpi ad avvelenare l’acqua. Ma prima hanno bruciato, violentato, mutilato, deriso, rubato. A ogni nuovo racconto della stessa storia s’aggiungeva un particolare ennesimo, qualcosa che fino a quel momento non s’era riusciti neppure a immaginare. A riprova che anche con la fantasia il nemico ci superava. Una fantasia esercitata con la morte assegnata d’ufficio, ancora, una fantasia che noi non sapevamo eccitare nei nostri pensieri. Perché, ve l’ho già detto, l’assassinio era per noi il peggiore di tutti i peccati.



Ora sono mesi che questa guerra continua e non servono più i racconti, perché il fumo che si alza nero dagli altri villaggi lo sappiamo vedere anche senza indicarcelo con il dito puntato. Del resto tutti i racconti hanno perso la foga dei primi tempi. Ora quello che c’è da sapere lo leggiamo sulla faccia dei nostri che tornano. Le ferite sono sangue vero che azzera tutti i bastioni difensivi dietro cui abbiamo asserragliato i nostri pensieri. La realtà non lascia nessuno scampo ai dubbi. Non c’è più “sarà vero?”, sostituito da un lacerante “vorrei non lo fosse”. A darci conferma che anche da adulti dominare la paura è un bell’azzardo. E uccidere non è più una colpa incancellabile e la nostra regola più rigida si piega ogni giorno alla convinzione che monta dentro gli uomini del nostro villaggio. Uccidere non è più una colpa maledetta e basta, adesso è chiaro che la misura della colpa sta tutta nel colore del sangue che ora, mentre torni al villaggio, t'ha sporcato le mani. Ci sono i morti giusti e quelli sbagliati. Ci sono i morti. Quest'evidenza lacerante ci ha rubato i giorni e il respiro del sonno. Abbiamo paura di morire e paura della maledizione che i nostri uomini si portano addosso con il sangue dei nemici. Ci hanno fatto a pezzi. Ci hanno sbranato la libertà di non voler ricevere e dare dolore. La libertà appunto.



Poi i nostri uomini sono spariti. Non sono più tornati al villaggio. Al tramonto partivano e tornavano a giorno fatto. Restavano lì, buttati in un angolo a dormire con un respiro di cui avevamo paura di riconoscere l’alito. Le armi in piedi, appoggiate alle pareti, e i più piccoli che le spiavano in bilico sul divieto assoluto di toccarle, di pensarle, di sfiorarle. Gli uomini di giorno parlavano solo tra loro, a bassa voce. Mangiavano quel poco che si riuscivano a procurare le donne e poi dormivano. La nonna ci diceva di non fare rumore per non svegliarli ma noi avevamo visto mille volte i nostri padri, gli zii, i fratelli, i cugini e i vicini di casa buttati lì per terra con gli occhi sbarrati nel vuoto. Lo sapevamo che quello non si poteva chiamare sonno. E poi erano partenze e ancora ritorni. Quando li vedevano risalire verso il villaggio le donne da lontano tenevano il conto e cercavano di leggere nel passo pesante di quell’ultimo tratto di sentiero l’esito di quella notte ancora maledetta. I feriti già da lontano venivano valutati ma erano tornati e già era qualcosa. Poi c’erano quelli che non ricomparivano sulla strada del ritorno e vecchi e donne che piangevano di un lamento silenzioso, chè tutto ormai andava misurato sulla paura d’essere solo intuiti in quel lembo di terra che pensavamo nostro da sempre. Poi gli uomini, tutti gli uomini, hanno smesso di tornare e qualche donna ha preso le armi rimaste ancora al villaggio ed è stata inghiottita dall’orrore oltre la collina. E il fumo c’era sempre ma ora ne sentivamo anche l’odore.




Sono arrivati al villaggio la prima volta. Sono scesi dai camion e gridavano. Polvere sollevata e le poche bestie che correvano terrorizzate e bambini che piangevano. Tutti correvano senza sapere dove. Il prezioso contenuto delle pentole magre restava abbandonato al fuoco o rovesciato in terra e nemmeno i cani a lappare. Gridavano quegli uomini, coperti di panni tutti uguali e armi, molte più armi di quante ne avessimo mai solo sospettate oltre la collina. Non capivamo ma c’erano altri uomini, vestiti come i nostri, con la faccia e le mani come quelle dei nostri che non erano tornati ma non era un buon motivo per dimenticare. E poi c’erano quegli altri, come e peggio di tutti i racconti. Ce li avevamo davanti. Esistevano sul serio se esistevano quelle grida e la polvere e i bambini che piangevano. Erano pochi e davano ordini a quegli altri, gente come noi ma qualcosa ci diceva di non fidarci. Ci hanno radunati e qualcuno ha parlato nella nostra lingua. Volevano sapere dov’erano gli uomini, volevano che s’ammucchiassero le nostre provviste sui loro camion. Poi sono arrivati due di quegli uomini cattivi con la pelle chiara. Trascinavano mio zio. Era vecchio mio zio. L’hanno portato al centro dello spiazzo e hanno iniziato con le botte e non ci potevo credere a sentire quel rumore. Non lo sospetti fino a quando non lo senti che le ossa che si rompono hanno il rumore dei rami spezzati, della legna che si spacca alla fiamma la sera. L’hanno lasciato morto lì.




A volte non li vedevamo per settimane. A volte arrivavano e si fermavano qualche notte al villaggio. Mangiavano tra loro. Noi non esistevamo. Di giorno non esistevamo. Una sera vennero da noi mentre dormivamo con quel sonno che era stato dei nostri uomini che tornavano al villaggio. Mi trascinarono via. Mi portarono in una capanna e c’erano altre ragazze del villaggio. Ci strapparono i vestiti e nessuna gridava. Per la maledetta vergogna che nelle altre capanne capissero quello che ci stava per accadere. Sei soldati mi hanno afferrato e ridevano e puzzavano e si sono ficcati dentro di me e mi facevano male e graffiavano e mordevano e mi scavavano. Poi uno mi ha girata a pancia sotto e, con la bocca che mordeva la terra e mentre gli altri ridevano mi ha scavata ancora più forte e m’ha fatto morire le urla in gola. Ci hanno riportato all’alba alle nostre capanne. Nessuno mi ha detto nulla ma le donne sapevano. Lo sapeva anche il sangue che si raggrumava sulla tela povera di quello che restava del mio abito. E poi per altre notti, fino a farci andare da sole a testa bassa alle capanne dei soldati. A volte erano come noi, a volte erano quegli altri con la pelle chiara. Cattivi.




Un giorno è arrivata una macchina e sono scesi alcuni uomini che, a giudicare da come si muovevano gli altri, dovevano essere dei capi importanti di quelli lì, degli italiani. Già, a un certo punto avevamo iniziato a chiamarli così, senza idea di dove potesse mai essere la loro terra, la loro madre. Gli italiani erano lì e non si sapeva da dove fossero venuti. Una punizione certamente. Ci radunarono ancora e uno reggeva una scatola di latta che originariamente, ma non potevamo sospettarlo, era destinata ai biscotti. C’era scritto “Lazzaroni” su quella scatola. L’uomo che la reggeva l’aprì. Dentro c’era la testa di mio padre.





Quando arrivò, il respiro degli italiani arrivò dal cielo e si rubò il nostro di respiro. I gas, i gas, gridavano tutti e quante parole nuove avevamo imparato in fretta. Ma la fretta non bastò a nulla. L’aria degli italiani uccise la nostra aria e al villaggio dopo non restò che fare i conti con la polvere. E una vecchia scatola di biscotti di latta incrostata di sangue.









martedì 4 giugno 2013

vita a noleggio



Nel 1951 Luchino Visconti racconta una storia che è una riflessione sui meccanismi mediatici e che a distanza di tempo rimane spietatamente efficace e forse più comprensibile di quando fu proposta nelle sale cinematografiche. Il film si intitola “Bellissima” e racconta di una madre, interpretata da Anna Magnani, che punta tutto sulla figlioletta per cercare di raggiungere il successo nel mondo dello spettacolo che in gioventù le era stato negato. Soldi spesi per lezioni di ballo e di dizione, per album fotografici, sarti e parrucchieri, che gravano su un magrissimo bilancio familiare e che scatenano le liti in famiglia. Ma la madre non sente ragioni e rincorre il suo sogno trasferito sulle spalle esili della bambina che in questo vorticare di eventi si ritrova spaesata e intimidita. Il film finisce a trallucci e vino, con la madre che capisce, di fronte al tragico provino della figlia in lacrime mentre tutti ridono, che ha sbagliato tutto e rifiuta sdegnosamente il contratto che pure le verrà proposto in nome della rinnovata armonia familiare.  Del resto se vi capita di passare da una scuola calcio dove si allenano i ragazzini leggerete la malata frustrazione di genitori urlanti che si picchiano tra loro e urlano al figlio “spaccagli le gambe” perché non riescono a far tornare i conti con la loro vita.





  Mi ricordo la prima volta che ho visto a un concerto di Bruce Springsteen un bambino cantare “Waitin’ On A Sunny Day”. In quella tourneé il Boss s’era inventato che a un certo punto prendeva un ragazzino dal pubblico e gli faceva cantare il ritornello e tutti impazzivano. 






 Negli States la cosa pareva plausibile ma poi arriva in Italia, in Francia, in Germania e puntuale c’è sempre un ragazzino che canta perfetto il ritornello. Ho visto il miracolo del sangue di cinquantamila che si scioglieva mentre una voce bambina cantava timida. E anche quest’anno davanti ai palchi ci sono sempre i ragazzini preparatissimi e allora penso a mio figlio anni dodici che si spacca le dita sulla chitarra ma se gli dici canticchia la canzoncina ti manda a fare in culo per timidezza certo, che a lui Bruce gli piace e gli piace il tiro della E Street Band e dorme abbracciato alla Telecaster. Però mi sono immaginato i genitori che stanno lì a far imparare il ritornello alla bimba e poi magari la portano sotto il palco e ne scelgono un’ altra o magari, probabilmente anzi, è tutto combinato e comunque quella piccolina o piccolino s’è dovuto imparare il suo ritornello e sta lì davanti col cuore in gola e di certo non è stata una sua idea. Proprio per niente. E non mi fa più sorridere e non mi piace neanche che gli altri, tutti gli altri fingano che sia una cosa spontanea. Non c’è più sorpresa ma una macchina scenica poco convincente, imbarazzante, ficcata dentro la polpa di uno degli spettacoli rock più belli di sempre. Insomma, non m’è sembrata una cosa bella questa volta la canzoncina. Troppo plasticosa. Come Obama che mangia il panino al fast food. Come il papa che si siede su una sediuccia al posto del trono e guarda che ora s’è fatta all’orologio da polso. Forse come Springsteen che arriva a Milano in treno. Ho ben presente quanto amo e ho amato le canzoni di Bruce. Ho ben presente a cosa fanno da preludio nella storia quelli che ti spiegano che sono come la gente normale. La gente normale non lo deve spiegare mai, la differenza è lì. Forse Elvis e Nixon non stavano sullo stesso palco ma forse ne muoiono oggi in Iraq come allora in Vietnam. I conti non tornano ma il conto del panino soprattutto chi lo paga. Ora se questo ragionamento me lo faceva un altro mi sarei incazzato ma me lo faccio da solo e il mio amore per quelle canzoni e fuori discussione per cui condivido serenamente. Però provo un disagio strano, lo stesso che provo tutte le volte che vedo le cose e mi sembrano troppo finte. O davvero credete che Mussolini falciasse il grano sul serio. No, vi conosco e me lo immagino che non ci avete creduto. Soprattutto non avete creduto alla gioia della bimba che tendeva il mazzo di fiori. Nemmeno in nome dello spettacolo.