"e io piangerò e saranno lacrime di silicone, perchè il futuro tutti ci svelerà per quegli androidi di prima generazione che siamo, difettosi nel chip dell'emozione." blughost
Ieri sera, nel parco a un passo da Fiat Mirafiori, la madre
di tutte le fabbriche, e a uno sputo da casa mia. Ieri sera nel parco dove
stavano accampati da giorni i fan di Vasco a pettinare la loro vita spericolata
e a far le cure per un fegato spappolato che non sapranno portarsi addosso con
lo stile che richiede, impegnati a mangiare le penne fredde che la mamma gli ha messo
nel contenitore di plastica ermetico. Ieri sera su quello spiazzo di ghiaia al
buio e i camper dei punk con i cani e la musica che da sempre stanno qui e sono
la possibilità di far due parole la notte quando porto i cani e mi sdraio sulla
panchina del parco a respirare il fresco. Ieri sera con quell’odore di griglia
che già arriva dal baraccone che montano ogni estate per ballare il liscio e
mangiare le costine e i vecchi si mettono la cravatta e escono dai palazzoni e
si accendono dispute e risse vere per le donne e per il vino. Ieri sera in
quello slargo lì, vicino al paradiso delle gattare e a un passo dal campo da
bocce e i tavoli in cemento con la dama pitturata sopra. Ieri sera con le
quattro giostre quattro che stanno lì, gestite da un’unica famiglia di zingari
e c’è il calcinculo, catenelle lo chiamano quelli che serbano pudore nelle
parole, e l’autoscontro, macchina da scontri lo chiama Ste che nelle parole
serba invenzione e anche per questo mi stordisce di meraviglia, l’ottovolante,
che mi costringe a dire tutte le volte a voce di megafono “volante otto,
recatevi sull’ottovolante”, e la macchina del pugno che se ho qualche problema
all’articolazione del polso sospetto sia per gli strapazzi di una gioventù in
cui il testosterone si misurava a caracche secche sul pallonazzo di pelle
sgualcita di quell’oggetto infernale. Ieri sera con mio figlio e i suoi amici e
con altra gente ci siamo dati appuntamento alle giostre, che già era buio e
l’occhio doveva trovare misura della luce possibile, adattando la pupilla al
pulsare delle intermittenze dei baracconi. Ieri sera c’erano i punk che mangiavano
lo zucchero filato e i cani che son corsi incontro ai miei, che tra vecchi
amici si è più felici di trovarsi quando c’è da far cagnara, la chiamiamo così a ragione, e non fa freddo. Ieri sera i
romeni erano vestiti a festa e ridevano a sentire le grida delle femmine loro
sul calcinculo e le gonne che svolazzavano a graffiare l’esordio di quest’estate
minchiona promettevano voglie. Ieri sera io e Ste ci baciavamo seduti sul bordo
della pedana degli autoscontri e ridevamo, che quando ci siamo incontrati io non
avevo nemmeno una casa ma solo un vecchio Ciao e a ritrovarci lì c’era da dargli
un cinque al destino. Ieri sera sono piombato su quel mondo in bianco e nero,
su quella memoria di un Italia perduta e di periferia, con il mio Ciao già
pronto per il viaggio, che tra due giorni attraverserò la pianura padana da
Torino a Udine sincronizzando il motore e il respiro su un tempo che non esiste
più, evitando le grandi città, dormendo in mezzo ai campi e fermandomi nei
paesini a chiedere ragione di una vita che hanno smesso di raccontarci o che
forse non esiste più. Lo vedremo. Ieri sera mio figlio e i suoi amici ridevano
sulla giostra e anche noi stavamo lì sospesi nel piacere assoluto di quel
fresco e di quelle parole leggere. Per tornare a casa ho ripreso il Ciao e l’ho
acceso in corsa, saltandoci sopra come facevo da ragazzino. Mi sono voltato
solo un secondo con un sorriso a Ste, che era il rinnovo di un patto notturno
che quella sera s’era giocato le sue carte migliori. Il miglior tributo a quel
regalo della macchina del tempo.
Poi vi racconteranno del degrado e della violenza e della
disperazione della città ma sarà anche il caso che la smettiate di farvi
raccontare la vostra vita, che ne siete gli unici titolari e questo dovrebbe
bastare a farvi scendere in strada in una sera così. Non è l’arcadia, non è un
mondo ideale, i sorrisi erano in bilico sulla maledetta necessità di resistere,
ognuno a modo suo, ma ieri sera il tempo s’è fermato e per un momento ho
pensato che il mio Ciao è magico, è più di quello che sospetto.
All’ingresso del parco c’è la casermetta dei carabinieri ma
tutto quello che ho raccontato succede alle loro spalle e hanno la bella
delicatezza di non voltarsi mai.
Una storia che passa dalla
storia. Del resto c’è da aspettarselo da uno come me, che mischia vita e
mestiere nel gioco della memoria e del tempo. Mi sono inventato un lavoro in
bilico su fotografie che muoiono ogni giorno un po’ alla luce che volevano rubare,
lettere chiuse per decenni nei cassetti e di cui non c’è risposta certa,
canzoni incise anche solo su un muro, film girati e da girare con i fotogrammi
che portano il tempo del muscolo cardiaco del mondo. Troppe volte queste tracce
della memoria, la bestia imprendibile che mi ostino a inseguire da bella parte
della vita, mi hanno fatto prendere le misure alla mia storia personale, generando
a volte dolore e divertimento ma anche veli di un disagio che non so
concretamente restituire sulla pagina. Un imbarazzo narrativo che va oltre la
misura lecita di quello che per patto stabilito ho scelto di mettere in gioco
di me nel racconto corale che cerco nelle storie e per la storia. Un bagaglio
emotivo che ti si apre all’improvviso in mezzo alla strada, regalando al mondo
la misera intimità delle tue poche cose che credevi di poter celare.
Questa volta è andata peggio.
Credevo di essermi irrobustito e pure un po’ sterilizzato all’emozione e al
dolore che si genera dalla frequentazione delle tracce della memoria,
chiamateli documenti se volete riguadagnarmi a un briciolo di dignità
accademica ma sappiate che non ci tengo per niente. Sto lavorando da anni, ho
delle pagine mie che lo testimoniano, al racconto dell’Italia del Miracolo
economico, che già a chiamarlo così è chiaro che non c’era volontà politica e
istituzionale a generare quella bella disposizione italiana dell’epoca a
proporsi sui mercati internazionali con successo ma piuttosto si riteneva che
la cosa era capitata per intercessione divina. Altro che mano di dio tesa verso
le sue creaturine che brulicavano per la penisola come i vermi del formaggio in quei giorni, con la guerra che
era alle spalle ma ne sentivi ancora l’alito maledetto. Alla base del successo
di quell’Italia lì, che già bussava alle porte della voglia di rivoluzione,
c’era una manodopera a basso costo pescata dalla bella vocazione agricola di un
paese disteso in mezzo al Mediterraneo e privo di materie prime, deportata nel
triangolo industriale del Nord in massa.
Lavorando all’analisi dei flussi
migratori degli anni Sessanta a Torino mi sono imbattuto in una documentazione
tutta riferita agli archivi scolastici. A partire dagli anni Trenta, un po’
prima a ben vedere, erano state istituite in Italia le classi differenziali. Vi
si avviavano gli alunni cosiddetti “tardivi” che avrebbero fruito di un
percorso personalizzato per essere poi reintrodotti nella scuola ordinaria. A
queste classi accedevano originariamente bambini affetti da problemi che
venivano valutati da commissioni mediche e che passavano dal ritardo mentale all’
handicap fisico. Queste strutture potevano rivelarsi drammaticamente come l’anticamera
del manicomio. Sto procedendo grossolanamente ma giusto per darvi il quadro
generale della mia storia di oggi. Teniamo comunque presente che le
differenziali, che accoglievano quelli che venivano definiti “falsi anormali”
verrano abolite nel 1975. Insomma quando a Torino arrivano migliaia di famiglie
meridionali la città non è preparata ad accoglierle. Si costruiranno
rapidamente dei quartieri di periferia dominati da palazzoni tremendi ma
sostanzialmente si tratta di ridefinire antropologicamente il capoluogo
piemontese sulla base del radicale cambiamento e la città, le istituzioni, sono
assolutamente impreparate. Se negli anni Cinquanta le classi differenziali a
Torino erano una sessantina, a metà degli anni Sessanta sono 490. Cosa sta
succedendo? Capita che i ragazzini meridionali sono dialetti, abitudini e santi
patroni diversi che cadono tutti nel calderone ribollente dell’Italia del Miracolo.
Capita che le famiglie meridionali, inseguite dai cartelli che minacciano di
non volergli affittare quelle soffitte che giusto loro e la loro disperazione
potrebbero abitare, vivano in condizioni precarie, maledettamente precarie. Capita che non è che
arrivando in città si venga automaticamente assorbiti dalla fabbrica e ci sono
centinaia di persone che conducono vite in bilico, che fanno i conti con una
quotidianità in cui non c’è garanzia di quel pane che pure nelle preghiere si
invoca. Capita che i ragazzini crescano in quelle periferie, nel caso torinese
anche il fatiscente centro storico viene colonizzato, lasciati in mezzo alla
strada mentre i genitori si misurano con il tempo maledetto della macchina
produttiva. Capita che a scuola ci si vada poco e male e i compiti non si
riescono a fare in quelle stanze ingombre di odori e rumori e voci e parole che
non sono mai le stesse del libro, alla faccia del fare gli italiani. Capita che
le maestre e i maestri guardino con ripugnanza, tutta testimoniata dalle
relazioni dell’epoca, a quei poveri cenci che ricoprono i ragazzi e alla pelle
macchiata da regimi dietetici poco mirati. Capita che i ragazzi rispondano
male, vedendo nell’istituzione scolastica il riverbero di quel potere
oppressivo che costringeva i padri ad affrontare l’alba fredda ogni giorno.
Capita insomma che le classi differenziali, ricordiamolo ancora anticamera di
esistenze tragiche e segnate, siano riempite di questi ragazzini portatori di
un disagio di cui sono solo la voce più debole. E sfogliando le note con cui si
condanna un bambino a ripetere l’anno alle differenziali leggo che il piccolo, si
sottolinea con grande enfasi che è figlio di genitori separati, sa fare di
conto e legge ma si atteggia sconvenientemente con i suoi dieci anni, avendo
come riferimento, cito testuale, Celentano e i Beatles. La cosa potrà anche far
sorridere e chi ora immagina questo piccoletto che gira per i corridoi della
scuola cantando Yellow Submarine fa
un errore grossolano. Dietro quella relazione scolastica c’è tutto un racconto
complesso.
Anche l'abito fa il monaco; la blusa nera e i calzoni d'oltreoceano
costituiscono una specie di immunizzazione morale di quell'esercito di
gaglioffi.
Con queste parole il ministro di
Grazia e Giustizia Guido Gonella tuona dalle pagine della rivista Oggi del 17 settembre 1959. Promotore di
una legge mai approvata contro il teppismo Gonella si fa portavoce di una
diffusa inquietudine che trova conferme in alcune pellicole proiettate nelle
sale cinematografiche e sulle pagine di volumi come Giovani al doppio gin. I titoli dei giornali frequentemente
segnalano con allarme che la situazione sta tragicamente degenerando. Il
Messaggero del 27 maggio 1959 ai lettori sgomenti propone il seguente titolo:
Aggredisce per strada una signora tentando di strapparle le vesti poi
va a giocare a flipper.
Il bravo cittadino, padre di
famiglia, legge queste cronache recandosi al lavoro con il tram. "Mi chiedo, di questo passo, dove andremo a
finire" mormora mentre attorno a lui altri scuotono la testa. E,
ancora, destano preoccupazione le canzoni diffuse dagli infernali juke-box,
antenati commerciali degli store on line dei nostri giorni, che consentono
l'ascolto di un brani grazie alla moneta che si inseriva nell'apposita fessura.
Cantanti stranieri, presto imitati anche dalle nostre nuove leve canore, con i
loro brani si contrappongono alla consolidata linea melodica della canzone
tradizionale. I testi poi, almeno quelli in italiano, sembrano un oltraggio
sistematico alla morale. Una provocazione continua proposta lì a bella posta
agli adulti che passano davanti a quei juke box con la fretta che quei giorni
di esplosione della produzione e del mercato impongono. Siamo in pieno Boom
economico, a metà tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, e l'Italia è ai vertici
dei mercati internazionali. La produzione di elettrodomestici, l'industria
automobilistica, il settore del petrolchimico e delle materie plastiche sono
alcuni dei settori che decretano il successo italiano nel mondo. Tra il 1959 e
il 1963, mentre nell'aria suonano i juke box, si quintuplica la produzione di
autoveicoli. Nello stesso periodo un milione e mezzo di frigoriferi prodotti e
634.000 televisori ci raccontano che oltre alla produzione sono di certo
aumentati i consumi. Fino alla seconda guerra mondiale, dalle cui tragiche
macerie si cercava di rinascere in quegli anni, l'individuo era destinato
sostanzialmente a dividere la sua esistenza in due fasi: il mondo dell'infanzia
e quello degli adulti. A partire dagli anni Cinquanta i consumi vengono
pilotati su specifiche categorie che, fino a quel momento, si può dire non
fossero riconoscibili nel tessuto sociale. Le casalinghe sono le destinatarie
di elettrodomestici e alimentari di produzione industriale, ma anche di riviste
e cataloghi a loro espressamente dedicati. Attorno ai bambini si costruisce un
fiorente mercato di articoli per l'infanzia, giocattoli, alimenti e
manualistica riferita ai temi dell'educazione e dello sviluppo. La vera novità
sono però i giovani. Fino alla seconda guerra mondiale, dalle cui tragiche
macerie si cercava di rinascere in quegli anni, l'individuo era destinato
sostanzialmente a dividere la sua esistenza in due fasi: il mondo dell'infanzia
e quello degli adulti. A volte la prima fase era decisamente e drammaticamente
ridotta per lasciare subito spazio al mondo del lavoro. I giovani si collocano
dunque in una sorta di terra di mezzo tra queste due fasi temporali
dell'esistenza. A partire da questo momento, i giovani, in tutto il mondo
occidentale, diventato una realtà fortemente connotata. Vogliono parlare in
maniera diversa dai loro padri, vogliono vestirsi e pettinarsi diversamente dai
loro padri, vogliono leggere libri e giornali e ascoltare musica diversa da
quella che ascoltano i loro padri, vogliono mangiare cose diverse dai loro
padri, vogliono avere una vita sentimentale diversa da quella dei loro padri. E
il nostro ragazzino finito nelle spire tragiche delle scuole differenziali?
Agli occhi della commissione giudicante non c’è sacmpo per quel suo atteggiarsi
seguendo il modello proposto da Celentano e dai Beatles, e ricordiamo che il
Celentano di allora si scatena a Sanremo, sul palco sacro della tradizione
canora, e s’agita scosso da movimenti pelvici gridando di ventiquattromila baci
mentre la Pizzi è ancora lì a ringraziare per i fiori ricevuti e ad avvincersi
come l’edera. In fondo alla relazione leggiamo RESPINTO. Chissà dov’è ora, con
quei pochi anni più dei miei.
E poi ho letto le schede di
ragazzine in sospetto di prostituzione, ed era il sospetto a turbarmi, e ancora
giudizi che erano evidentemente la traccia tragica di menti segnate e contorte,
quelle di chi giudicava.
D’un tratto occuparmi di storia e
storie ha cominciato a farmi male, a ficcarsi in una piega profonda del mio
vivere che forse non sopportavo. Per giorni ho ripensato a quel timbro in fondo
ai fogli. RESPINTO. Era una cosa che sapevo misurare con bella memoria
personale ma in quel caso era un oltraggio tragico alla possibilità che tutti
dobbiamo spendere per dirci uomini.E mi sono ricordato che avevano chiesto ai miei genitori, io sono nato nel 1965, visto che arrivavo così da lontano, se non volevano che in prima elementare fossi alleggerito dalla pressione didattica frequentando le belle e simpatiche differenziali, sospettandomi di un dialetto e di un accento che nemmeno avevo ma che gli piaceva immaginare visto che lì di gente che arrivava dal sud non ce n'era e non gli sembrava vero di fare come nelle grandi città. Nel nome delle circolari che arrivavano in bisbiglio. Strategia da campo di concentramento. I miei rifiutarono e da allora mi bastava chiedere di andare al bagno per sentire la maestra dire "avete sentito ragazzi, loro il gabinetto lo chiamano bagno". Giusto perchè la differenza la volevano vedere anche forzando la realtà al loro delirio didattico.
Dovrebbero andare a cercarli
adesso quei ragazzi che a migliaia riempivano le classi differenziali in quei
giorni. Per chiedergli scusa. Ma non avrebbero nessun presente decente da
offrire in riscatto e allora restano le storie e l’unico desiderio mio di
ritrovarci davanti al bar d'abitudine, che stando al faldone e con buona pace dei dati sensibili è a un passo dalla casa di quel ragazzo di allora, per
una birra insieme. Alla faccia delle categorie storiografiche. E per ribadire
che io preferivo i Rolling Stones. Ce lo diremo come due Baradel, seduti uno di fronte all'altro mentre il vento non gira ancora.
questa storia la vorremmo raccontare in giro appoggiandola alle canzoni di Loris Vescovo, facendola vivere su un palco dove si muovono danze e immagini. è la storia di una guerra e di tutte le guerre, senza spazio e tempo ma tutto quello che si racconta è accaduto davvero e l'abbiamo ritrovato tra i documenti che accompagnano con dovizia di particolari la fine di una guerra che non è mai la fine della guerra. stateci vicini.
Da piccole mia nonna ci ha insegnato a
distinguere il bene dal male attraverso i suoi racconti, che erano un
intreccio fitto di parole a fil di voce, con le sue dita mosse
nell’aria come mantidi tese ad afferrare la nostra attenzione. Il
bene era tutto concentrato nelle storie di solidarietà, di lealtà,
di generosità, di dignità, tutte parole con un accento che scoppia
in fondo per dare clamore a quello che devono evocare. Il male era
una massa densa e scura di gesti che andavano dal sorriso negato alla
morte inferta. Ci voleva poco a capire che il marcatore del male, una
sorta di prova del nove quando ti afferrava qualche dubbio etico,
passava tutto dal dolore degli altri che avrebbe potuto essere anche
il tuo dolore.
Uccidere, assassinare, strappare alla
vita, colpire, tagliare, smembrare. Il delitto orrendo, quello
maledetto di cui non ci si deve macchiare mai. Assolutamente. Questa
idea ce la portavamo dentro piantata a cuneo, qualcuno canterebbe,
tra l’aorta e l’intenzione. Sembrava una certezza
incancellabile. Fino a quando s’è cominciato a parlare del nemico.
All’inizio erano vaghe allusioni, più un dirselo per bisbigli,
guardandosi attorno per vedere se ad ascoltare c’erano i più
piccoli. In ragione del fatto che i bambini non sanno dominare la
paura. Così si diceva tra adulti. Nei giorni successivi però il
nemico s’è imposto nei nostri gesti quotidiani come una presenza
carica di angoscia ma sempre con quel sospeso che non sai afferrare.
Dentro, in fondo alla pancia, dove va a frugare la bestia fottuta
della paura, scattava un meccanismo di difesa piuttosto elementare
che ti sussurrava “vedrai che non è vero”.
Un giorno vidi il cane dei vicini
precipitarsi su un uccellino, un nidiaceo caduto dal tetto e rimasto
sul piazzale stordito e incapace d’essere volo. Il cane lo afferrò
e in quel morso e in quello scuotimento c’era già il senso di una
fine ineluttabile. Eppure corsi a vedere, negando l’evidenza di
quella violenza, sperando di non trovare quella morte che già
sapevo. Già… sperando. Sempre per quella difesa minima che
possiamo permetterci quando è già difficile darci definizione
plausibile del male.
All’inizio il nemico aveva forma di
nebbia nei nostri racconti. Mai concreto, era da subito
maledettamente cattivo, maledettamente efficiente nella sua pratica
dolorosa e nell’altra valle dice che li hanno portati sulla riva
del torrente e poi uccisi lasciando i corpi ad avvelenare l’acqua.
Ma prima hanno bruciato, violentato, mutilato, deriso, rubato. A ogni
nuovo racconto della stessa storia s’aggiungeva un particolare
ennesimo, qualcosa che fino a quel momento non s’era riusciti
neppure a immaginare. A riprova che anche con la fantasia il nemico
ci superava. Una fantasia esercitata con la morte assegnata
d’ufficio, ancora, una fantasia che noi non sapevamo eccitare nei
nostri pensieri. Perché, ve l’ho già detto, l’assassinio era
per noi il peggiore di tutti i peccati.
Ora sono mesi che questa guerra
continua e non servono più i racconti, perché il fumo che si alza
nero dagli altri villaggi lo sappiamo vedere anche senza indicarcelo
con il dito puntato. Del resto tutti i racconti hanno perso la foga
dei primi tempi. Ora quello che c’è da sapere lo leggiamo sulla
faccia dei nostri che tornano. Le ferite sono sangue vero che azzera
tutti i bastioni difensivi dietro cui abbiamo asserragliato i nostri
pensieri. La realtà non lascia nessuno scampo ai dubbi. Non c’è
più “sarà vero?”, sostituito da un lacerante “vorrei non lo
fosse”. A darci conferma che anche da adulti dominare la paura è
un bell’azzardo. E uccidere non è più una colpa incancellabile e
la nostra regola più rigida si piega ogni giorno alla convinzione
che monta dentro gli uomini del nostro villaggio. Uccidere non è più
una colpa maledetta e basta, adesso è chiaro che la misura della
colpa sta tutta nel colore del sangue che ora, mentre torni al
villaggio, t'ha sporcato le mani. Ci sono i morti giusti e quelli
sbagliati. Ci sono i morti. Quest'evidenza lacerante ci ha rubato i
giorni e il respiro del sonno. Abbiamo paura di morire e paura della
maledizione che i nostri uomini si portano addosso con il sangue dei
nemici. Ci hanno fatto a pezzi. Ci hanno sbranato la libertà di non
voler ricevere e dare dolore. La libertà appunto.
Poi i nostri uomini sono spariti. Non
sono più tornati al villaggio. Al tramonto partivano e tornavano a
giorno fatto. Restavano lì, buttati in un angolo a dormire con un
respiro di cui avevamo paura di riconoscere l’alito. Le armi in
piedi, appoggiate alle pareti, e i più piccoli che le spiavano in
bilico sul divieto assoluto di toccarle, di pensarle, di sfiorarle.
Gli uomini di giorno parlavano solo tra loro, a bassa voce.
Mangiavano quel poco che si riuscivano a procurare le donne e poi
dormivano. La nonna ci diceva di non fare rumore per non svegliarli
ma noi avevamo visto mille volte i nostri padri, gli zii, i fratelli,
i cugini e i vicini di casa buttati lì per terra con gli occhi
sbarrati nel vuoto. Lo sapevamo che quello non si poteva chiamare
sonno. E poi erano partenze e ancora ritorni. Quando li vedevano
risalire verso il villaggio le donne da lontano tenevano il conto e
cercavano di leggere nel passo pesante di quell’ultimo tratto di
sentiero l’esito di quella notte ancora maledetta. I feriti già da
lontano venivano valutati ma erano tornati e già era qualcosa. Poi
c’erano quelli che non ricomparivano sulla strada del ritorno e
vecchi e donne che piangevano di un lamento silenzioso, chè tutto
ormai andava misurato sulla paura d’essere solo intuiti in quel
lembo di terra che pensavamo nostro da sempre. Poi gli uomini, tutti
gli uomini, hanno smesso di tornare e qualche donna ha preso le armi
rimaste ancora al villaggio ed è stata inghiottita dall’orrore
oltre la collina. E il fumo c’era sempre ma ora ne sentivamo anche
l’odore.
Sono arrivati al villaggio la prima
volta. Sono scesi dai camion e gridavano. Polvere sollevata e le
poche bestie che correvano terrorizzate e bambini che piangevano.
Tutti correvano senza sapere dove. Il prezioso contenuto delle
pentole magre restava abbandonato al fuoco o rovesciato in terra e
nemmeno i cani a lappare. Gridavano quegli uomini, coperti di panni
tutti uguali e armi, molte più armi di quante ne avessimo mai solo
sospettate oltre la collina. Non capivamo ma c’erano altri uomini,
vestiti come i nostri, con la faccia e le mani come quelle dei nostri
che non erano tornati ma non era un buon motivo per dimenticare. E
poi c’erano quegli altri, come e peggio di tutti i racconti. Ce li
avevamo davanti. Esistevano sul serio se esistevano quelle grida e la
polvere e i bambini che piangevano. Erano pochi e davano ordini a
quegli altri, gente come noi ma qualcosa ci diceva di non fidarci. Ci
hanno radunati e qualcuno ha parlato nella nostra lingua. Volevano
sapere dov’erano gli uomini, volevano che s’ammucchiassero le
nostre provviste sui loro camion. Poi sono arrivati due di quegli
uomini cattivi con la pelle chiara. Trascinavano mio zio. Era vecchio
mio zio. L’hanno portato al centro dello spiazzo e hanno iniziato
con le botte e non ci potevo credere a sentire quel rumore. Non lo
sospetti fino a quando non lo senti che le ossa che si rompono hanno
il rumore dei rami spezzati, della legna che si spacca alla fiamma la
sera. L’hanno lasciato morto lì.
A volte non li vedevamo per settimane.
A volte arrivavano e si fermavano qualche notte al villaggio.
Mangiavano tra loro. Noi non esistevamo. Di giorno non esistevamo.
Una sera vennero da noi mentre dormivamo con quel sonno che era stato
dei nostri uomini che tornavano al villaggio. Mi trascinarono via. Mi
portarono in una capanna e c’erano altre ragazze del villaggio. Ci
strapparono i vestiti e nessuna gridava. Per la maledetta vergogna
che nelle altre capanne capissero quello che ci stava per accadere.
Sei soldati mi hanno afferrato e ridevano e puzzavano e si sono
ficcati dentro di me e mi facevano male e graffiavano e mordevano e
mi scavavano. Poi uno mi ha girata a pancia sotto e, con la bocca che
mordeva la terra e mentre gli altri ridevano mi ha scavata ancora più
forte e m’ha fatto morire le urla in gola. Ci hanno riportato
all’alba alle nostre capanne. Nessuno mi ha detto nulla ma le donne
sapevano. Lo sapeva anche il sangue che si raggrumava sulla tela
povera di quello che restava del mio abito. E poi per altre notti,
fino a farci andare da sole a testa bassa alle capanne dei soldati. A
volte erano come noi, a volte erano quegli altri con la pelle chiara.
Cattivi.
Un giorno è arrivata una macchina e
sono scesi alcuni uomini che, a giudicare da come si muovevano gli
altri, dovevano essere dei capi importanti di quelli lì, degli
italiani. Già, a un certo punto avevamo iniziato a chiamarli così,
senza idea di dove potesse mai essere la loro terra, la loro madre.
Gli italiani erano lì e non si sapeva da dove fossero venuti. Una
punizione certamente. Ci radunarono ancora e uno reggeva una scatola
di latta che originariamente, ma non potevamo sospettarlo, era
destinata ai biscotti. C’era scritto “Lazzaroni” su quella
scatola. L’uomo che la reggeva l’aprì. Dentro c’era la testa
di mio padre.
Quando arrivò, il respiro degli
italiani arrivò dal cielo e si rubò il nostro di respiro. I gas, i
gas, gridavano tutti e quante parole nuove avevamo imparato in
fretta. Ma la fretta non bastò a nulla. L’aria degli italiani
uccise la nostra aria e al villaggio dopo non restò che fare i conti
con la polvere. E una vecchia scatola di biscotti di latta incrostata
di sangue.
Nel 1951 Luchino Visconti racconta una storia che è una
riflessione sui meccanismi mediatici e che a distanza di tempo rimane
spietatamente efficace e forse più comprensibile di quando fu proposta nelle
sale cinematografiche. Il film si intitola “Bellissima” e racconta di una
madre, interpretata da Anna Magnani, che punta tutto sulla figlioletta per
cercare di raggiungere il successo nel mondo dello spettacolo che in gioventù
le era stato negato. Soldi spesi per lezioni di ballo e di dizione, per album
fotografici, sarti e parrucchieri, che gravano su un magrissimo bilancio
familiare e che scatenano le liti in famiglia. Ma la madre non sente ragioni e
rincorre il suo sogno trasferito sulle spalle esili della bambina che in questo
vorticare di eventi si ritrova spaesata e intimidita. Il film finisce a
trallucci e vino, con la madre che capisce, di fronte al tragico provino della
figlia in lacrime mentre tutti ridono, che ha sbagliato tutto e rifiuta
sdegnosamente il contratto che pure le verrà proposto in nome della rinnovata
armonia familiare.Del resto se vi
capita di passare da una scuola calcio dove si allenano i ragazzini leggerete
la malata frustrazione di genitori urlanti che si picchiano tra loro e urlano al
figlio “spaccagli le gambe” perché non riescono a far tornare i conti con la
loro vita.
Mi ricordo la prima volta che
ho visto a un concerto di Bruce Springsteen un bambino cantare “Waitin’ On A
Sunny Day”. In quella tourneé il Boss s’era inventato che a un certo punto
prendeva un ragazzino dal pubblico e gli faceva cantare il ritornello e tutti
impazzivano.
Negli States la cosa pareva plausibile ma poi arriva in Italia, in
Francia, in Germania e puntuale c’è sempre un ragazzino che canta perfetto il
ritornello. Ho visto il miracolo del
sangue di cinquantamila che si scioglieva mentre una voce bambina cantava
timida. E anche quest’anno davanti ai palchi ci sono sempre i ragazzini
preparatissimi e allora penso a mio figlio anni dodici che si spacca le dita
sulla chitarra ma se gli dici canticchia la canzoncina ti manda a fare in culo
per timidezza certo, che a lui Bruce gli piace e gli piace il tiro della E
Street Band e dorme abbracciato alla Telecaster. Però mi sono immaginato i genitori
che stanno lì a far imparare il ritornello alla bimba e poi magari la portano
sotto il palco e ne scelgono un’ altra o magari, probabilmente anzi, è tutto
combinato e comunque quella piccolina o piccolino s’è dovuto imparare il suo
ritornello e sta lì davanti col cuore in gola e di certo non è stata una sua
idea. Proprio per niente. E non mi fa più sorridere e non mi piace neanche che gli altri, tutti gli altri fingano che sia una cosa spontanea. Non c’è più sorpresa ma una macchina scenica poco
convincente, imbarazzante, ficcata dentro la polpa di uno degli spettacoli rock più belli di sempre. Insomma, non m’è sembrata una cosa bella questa
volta la canzoncina. Troppo plasticosa. Come Obama che mangia il panino al fast
food. Come il papa che si siede su una sediuccia al posto del trono e guarda
che ora s’è fatta all’orologio da polso. Forse come Springsteen che arriva a
Milano in treno. Ho ben presente quanto amo e ho amato le canzoni di Bruce. Ho
ben presente a cosa fanno da preludio nella storia quelli che ti spiegano che
sono come la gente normale. La gente normale non lo deve spiegare mai, la
differenza è lì. Forse Elvis e Nixon non stavano sullo stesso palco ma forse ne
muoiono oggi in Iraq come allora in Vietnam. I conti non tornano ma il conto
del panino soprattutto chi lo paga. Ora se questo ragionamento me lo faceva un
altro mi sarei incazzato ma me lo faccio da solo e il mio amore per quelle
canzoni e fuori discussione per cui condivido serenamente. Però provo un disagio strano, lo stesso che provo tutte le volte che vedo le cose e mi sembrano troppo finte. O davvero credete che Mussolini falciasse il grano sul serio. No, vi conosco e me lo immagino che non ci avete creduto. Soprattutto non avete creduto alla gioia della bimba che tendeva il mazzo di fiori. Nemmeno in nome dello spettacolo.