martedì 22 settembre 2020

ERAVAMO IN GAMBA

 



Per arrivare stavolta ho preso il 4. Una corsa di fine pomeriggio. Sono sceso alla fermata di quando tornavo da scuola. Il palazzo è ormeggiato al bordo del vialone a sei corsie. Viale Venezia. 398. Ci sono delle immagini dei giorni in cui i tedeschi, durante la seconda guerra mondiale, lasciano la città. Un po’ a piedi, un po’ sui camion, un po’ con carri tirati da bestie, un po’ in bici. Marciano guardando avanti verso Pasian di Prato e Venezia e tutto l’occidente possibile. Attraversano quel viale lì e io mi danno ogni volta a riconoscere i portoni e le tracce di quello che ancora resta di quel bianco e nero in ritirata. Poi ci sono altre immagini che mostrano i partigiani che entrano in città. Un po’ a piedi, un po’ sui camion, un po’ con carri tirati da bestie, un po’ in bici. Entrano in città e ridono e sventolano e credono che il mondo sarà un po’ loro. Si ripetono che ora saremo tutti migliori. L’umanità ha questo vizio di dirsi le bugie per tirare avanti. Sempre le stesse bugie. 

Ma, dopo un po’ che eravamo arrivati noi a vivere lì in Viale Venezia, hanno fatto lo spartitraffico. Prima le auto piombavano in città dall’autostrada col rombo di aerei che atterrano carichi di turisti tutto compreso. E era pericoloso quel viale. In velocità ne abbiamo visti fare a brandelli parecchi. Arrivavano le ambulanze e la polizia e si mettevano dei lenzuoli sui miseri resti sparsi. Ogni vita spezzata almeno quattro sudari lontani tra loro anche distanze considerevoli. Dipendeva dalla velocità. Le auto erano bolidi ferrosi e i corpi erano meno avvezzi all’urto perchè, da allora, non ricordo di aver visto ancora un uomo morire spargendosi lungo metri di agonia di asfalto. Una volta un tizio era alla fermata del bus ed è stato colpito con violenza dalla gamba di un altro investito. Cose che credi di aver dimenticato fino a quando non ti ritornano al gozzo mentre attraversi in quella roulette russa di traffico e alberi. Il trucco è passare la prima metà, fermarsi al centro e aspettare il momento buono per andare ancora dall’altra parte. Il momento pericoloso è quando stai lì fermo al centro e calcoli i tempi dei veicoli che arrivano. Soprattutto al buio. Me lo ripeto mentre attraverso e quasi sento lo spostamento d’aria di una gamba tranciata e roteante che mi passa alle spalle. Benedetta suggestione.













mercoledì 13 maggio 2020

treni



In treno. Partiamo da Torino a Udine. Siamo stanchissimi e fa freddo. Di fronte si siede un vecchio signore distintissimo. Siciliano. Dice di essere un dirigente di una squadra di calcio importante. Parla con voce roca e mi spiega che sta andando a Padova per una visita. Mi racconta la sua vita ma intanto chiede parecchio di me. Passiamo Padova e resta sul treno. Prosegue fino a Udine. Io a dirgli ma come e lui vabbè, sto ancora un po' con voi, sete bravi ragazzi. Lo accompagniamo in un albergo di fronte alla stazione. Notte e freddo. Abbiamo la moto parcheggiata e dobbiamo proseguire per Povoletto dove vivevamo allora. A questo punto il tipo è evidente che è uno strano. Ci invita a cena ma diciamo che abbiamo fretta di tornare a casa. La mattina mi chiama dall'albergo. Gli ho dato il mio numero che non dico di solito nemmeno se mi torturano i nazisti, ma ero curioso di sapere dove andavamo a finire. Dice che ha bisogno di vedermi. Telefono a Franchino e gli dico che vado a ficcarmi in un cazzo di guaio. Lui è un amico vero e ne abbiamo viste tante insieme e ora è andato avanti e mi manca. Si fa trovare davanti all'albergo con la moto. Non chiede nulla e non entra. Resta fuori sulla sua xt 500 e rido pensando che se dobbiamo scappare quella moto di sicuro non partirà al primo colpo di pedalina. Io sono arrivato con la mia Guzzi. Siamo messi bene. Il vecchio è in camera. In pigiama. Si è fatto portare la colazione in camera. Vuole vendermi pietre preziose. Gli dico che ha sbagliato tutto. Gli prendo l'agendina e tolgo la pagina con il mio numero. Ci guardiamo senza parlare. Sorrido e me ne vado e non ne saprò più niente. Per sempre. Train de vie



venerdì 17 aprile 2020

didattica di stanza



Del virus non mi sono mai azzardato a parlare in termini scientifici, non ho mai comparato dati e fatto ipotesi. Piuttosto per il mio mestiere la produzione di quei dati mi è sembrata surreale, priva di parametri plausibili che qua la differenza la fanno solo i vivi e i morti a ben vedere ma pure ho evitato di entrare nel merito. Ora però il ministero di tutte le scuole dice che grazie alla didattica a distanza si sono colmati i vuoti creati dalla logistica paralizzata dalla cattività domestica e siamo riusciti a rimetterci in bolla e siamo nel mio territorio e qualcosa vorrei dirla. Non sono un docente, faccio formazione ai docenti, lavoro da trent'anni sulla didattica e il digitale è una frontiera che ho iniziato a esplorare professionalmente all'inizio di questo millennio. Le opportunità della rete, i problemi metodologici, gli strumenti e la nuova gestione dei contenuti sono problematiche ciclopiche su cui ci si misura. In questi mesi la didattica a distanza è stato un'organizzarsi per bande come nella guerra di liberazione. Spunti partiti dal cuore e dalla necessità e ricollocati in ambiti dove c'erano competenze diverse, a volte fantastiche a volte imbarazzanti. Tutto riferibile a iniziative diverse, fossimo in editoria e quest'esperienza fosse un volume, dovremmo fare un lavoro di uniformità pazzesco. Avrebbe dovuto farlo il ministero. Le famiglie si sono misurate con questo alieno che è la didattica a distanza e che ha riempito per ore lo schermo dell'unico device di casa, quando c'era. Piattaforme diverse, utilizzo delle tecnologie a volte surreale ma un maledetto sforzo sostenuto da moltissimi e operazioni di raccordo formidabili da parte di enti e fondazioni e strutture didattiche di frontiera. E i ragazzi investiti da questo vento forte di tempesta digitale con il pericolo di confondere docenti e genitori in un'unica creatura mutante che chiedeva tabelline e vietava di stare in pigiama davanti a Zoom. Il ministero non ha fornito linee e nessuna sicurezza nemmeno sullo svolgimento eventuale delle attività. Ma ora dice che siamo in pari grazie alla didattica a distanza. Sembra di rivedere il film del Boom economico, con l'Italia che saliva a due a due i gradini della produzione e della ricollocazione sui mercati internazionali e la politica che non sapeva tenere il passo ma si metteva le coccarde al bavero guidando verso il burrone. Sembra ma mi auguro non sia. Non vorrei che quelli che sono partiti spontaneamente per combattere questa guerra vengano poi dimenticati dal trionfo e gli si lasci solo lo spazio di un giorno per ricordare e in quel giorno sia vietato cantare i canti di quella lotta per rispetto a chi restò zitto. Già, il benedetto rispetto del velenosissimo nulla.



martedì 14 aprile 2020

Noli me Tangeri









Per strada se la presa comoda. Passeggiava senza grossi impacci. S'era ricordato di un suo amico che lo ospitava a Napoli e gli spiegava come camminare evitando d’essere importunato dai venditori di tutto. Bastava guardare avanti, senza consentire allo sguardo di posarsi sulle facce e sulle merci varie. E nessuno ti fermava, perché leggevano in faccia l'assenza di tracce di stupore. I segni di un avvezzo quotidiano tutelavano e ti confondevano tra gli indigeni. Nei vicoli di Tangeri, pareva che la cosa funzionasse davvero. Sempre escludendo i ragazzini che, a gruppi, lo circondavano. Per l'esotico che raccontava la sua faccia e per quel modo di portare in giro le ossa. 
Poi li vide. Forse i vestiti, oppure ancora il modo di camminare. Anche senza distinguerne a distanza le parole, capì subito che erano turisti italiani. E si fermò a guardarli mentre arrivavano. Erano sei, vestiti perfetti con certa roba firmata e i colori studiati e l’aria da scopritori dell’arca perduta. Pantaloni finto militari e sahariane e occhiali da sole fantastici, scarponcini da attraversamento del cataclisma e certe bisacce in fibra di canapa, col marchietto della maria, che già era una bella dichiarazione di trasgressione. Culi rubati alla poltrona di una banca. In vacanza per poterlo raccontare per tutte le sere d’inverno caricando il diaproiettore con le loro emozioni di celluloide in trasparenza. Facevano casino, ridevano guardando la gente e fotografavano. I maschi avevano certi tatuaggetti tribali, sui bicipiti curati nell’inverno alla macchina della palestra. Le femmine avevano i braccialetti alla caviglia e la pelle carica di creme depositate per strati geologici e le collanine comprate nella spiaggia del villaggio turistico. Già, perché si capiva a distanza che erano in libera uscita da uno di quei lager ridenti del tutto compreso. Posti organizzati dove ti acchiappano all’aeroporto e ti scaricano su un piazzale col sole che picchia e ti assegnano la tua baracca fintafavela, che fa tanto caratteristico, e ti portano a fare i giochi in spiaggia e poi a pranzo c’è lo spezzatino con polenta tipico di quelle lande esotiche, perché al posto delle carote ci hanno messo dei tocchi di mango e poi la sera ci sono i balli che dovrebbero stimolarti all’accoppiamento notturno nella casupola ma tanto nella notte li senti tutti che ansimano con quelle pareti sottili e capisci che c’è una gara di rantolo erotico e, se hai conservato un briciolo di dignità dopo il buffet libero, ti giri dall’altra parte e ti metti a dormire. Odiando il mattino che ti porterà animatori e beveroni ghiacciati con la frutta e l’ombrellino. 
“Chiediamo a questo qui” sentì dire “Sarà un americano”. Ancora quella maledizione dello spettro dell’americano che gli alitava sul collo. Gli sorrisero. “Hi man”. “Ciao”, rispose lui. “Capire italiano”. “Solo se parlato correttamente”. “Sei un grande. Troppo figo, capisce l’italiano.” “Già.” disse lui che già si era rotto i coglioni. “Sei pratico di questo posto?” chiese quello che aveva l’aria del capogruppo. “Abbastanza.” “Siamo qui a zonzo e stiamo cercando un po’ di roba buona.” Gli altri ridacchiavano. “Che roba?” “Fumo.” “Ah, fumo.” “Si, siamo qui da tre giorni ma solo oggi siamo usciti dal villaggio e abbiamo deciso di metterci in caccia.” Come non detto, pensò Juri, abitanti di un villaggio turistico. Il villaggio duebale vaticinato da certi cervelli tritasperanze. “Forse posso darvi una mano.” Gli stava venendo un’idea. “Sei un grande.” Era già la seconda volta che il tipo gli diceva quella cazzata e nemmeno gli aveva chiesto altezza e peso e età. Parlava senza serie basi scientifiche a supporto delle sue tesi. “Quanto ve ne serve.” “In realtà pensavamo di farne una bella scorta perché al villaggio c’è un mucchio di amici che sarebbero contenti se tornassimo con un buon bottino.” “Prestami i tuoi occhiali da sole.” “Perché.” “Lo vuoi il fumo?” “Si.” Gli tolse gli occhiali fighi e se li infilò. “Quanto siete disposti a spendere.” “Questi bastano?” Il tipo gli aveva passato una manciata di banconote. Dollari. “Con un altro piccolo sforzo ve ne passo un panetto sano.” In realtà Juri non sapeva nemmeno quanto potesse pesare il panetto intonso ma sperò che gli altri non glielo chiedessero. Spaventati dalla solita paura di non sembrare gente di mondo. Infatti si frugarono nelle borse e gli allungarono qualche altra banconota. “Aspettatemi qui. La cosa è abbastanza semplice ma quella non è gente che si fida delle facce nuove.” “Vengo con te.” “Va bene, tieniti i tuoi soldi e lasciamo perdere. Se mi presento con te mi resta il tempo di sorridere appena e sono già morto. E uno che ride mentre stanno per fargli la festa, rischia di passare per coglione.” Gli altri parevano titubare. Poi il capobranco si fece risoluto. “Va bene, ti aspettiamo seduti a quei tavolini.” “Perfetto, quando arriverò mi siederò tra voi e faremo come se fossimo vecchi amici. Appoggerò la roba sul tavolo e tu” indicò una biondina con l’aria da segretaria tutta fotocopie e pompini “t’infilerai il panetto nella borsa.” “Intesi” rispose ora il leader, che pareva essere entrato nella parte della missione speciale e stava pure per sincronizzare gli orologi. 
Juri s’infilò gli occhiali, “Non preoccuparti per questi, poi te li restituisco. Mi servono per il giochetto.” L’altro sorrise come se avesse capito. E non c’era niente da capire. 
Un ultimo sorriso e Juri sparì tra i vicoli. In tasca aveva quello che avrebbe guadagnato in parecchi giorni di merci scaricate e caricate al porto. Sul naso un paio di lenti da sole griffatissime.
Nei giorni successivi Juri ci si mise di buzzo buono e fregò altri sei gruppi di connazionali. Sempre nello stesso modo. Con gli occhiali da sole sempre tra loro e lui. Lasciandosi invariabilmente inghiottire nel ventre dei vicoli, che ormai cominciava a considerare casa. Un drappello di turisti finto explorer li portò pure al negozio del vecchio a fare acquisti e poi li mollò senza truffa. Per non infierire. 
Ora sotto la sella aveva un bel gruzzolo e cominciò a agganciare i turisti per portarli a zonzo davvero e il vecchio gli passava la percentuale e il gioco del fumo lo faceva solo ai più stupidi e a quelli che s’intestardivano e insistevano e allora te la cerchi e sia fatta la sua volontà.






sabato 11 aprile 2020

ho fatto un sogno






Ho fatto un sogno e era uno di quei film che ti tolgono il respiro e ci finisci dentro e corri come fossi inseguito dai segugi di Tindalos e ti svegli sudato e nel corridoio senti i segugi di Tindalos che ti hanno trovato. Ho fatto un sogno e ero in una stanza di casa mia e ci invecchiavo e non rivedevo mai più i milioni di posti che ho chiamato casa in questi anni. Ho fatto un sogno e le strade erano svuotate come in un film postapocalittico fatto da un maestro del neorealismo. Ho fatto un sogno e c’era uno scheletro al bancone del bar che aspettava il resto nell’ombra di una bolletta non pagata e Hopper rideva e tu non sai chi è Hopper perché non sai mai un cazzo. Ho fatto un sogno e Bob Dylan era l’Omero di questo presente e Leonard Cohen il maestro di cerimonia e Nick Cave il ministro della cognizione del dolore. Ho fatto un sogno e gli amici miei artisti dopo il primo smarrimento erano quelli che avevano saputo ancora una volta trovare il modo, segno che in caso di disastro nucleare sopravviveranno le blatte e gli artisti e forse anche di me la morte non saprà che farsene. Ho fatto un sogno e la gente moriva da sola, senza saper posare sul comodino le ultime parole, morsa dal dubbio di non lasciare memoria, ignorando il dolore dei cari che non si vorrebbe sopportare ma che ci spetta e ci aspetta. Ho fatto un sogno e nelle case rimanevano cani e gatti a leggere l’odore di un mondo diverso che arrivava dalla finestra e quel vecchio se lo sono portato via e non torna il suo passo nelle stanze e la coperta sul divano dove lui e i suoi animali facevano i ricordi crociati. Ho fatto un sogno e c’era la più grande potenza del mondo, la culla della democrazia, che prendeva gli ultimi, la schiuma della terra, e li metteva in file ordinate ad occupare uno spazio pertinenziale di enormi parcheggi. Un rettangolo sotto il sole nel quale circoscrivere le tue coperte, i tuoi cartoni e il tuo odore. Piazzati come auto vecchie nei parcheggi vuoti dei centri commerciali. Una sintesi mostruosa di angoscia novecentesca sospesa tra fordismo e sterminio di massa, perché l’orrore parte sempre dalla disposizione ordinata dei letti a mille e mille. Ho fatto un sogno e in quello stesso paese c’erano le fosse comuni perché la morte di massa ha un senso come il consumo di massa. Ho fatto un sogno e ogni giorno si riscrivevano le pagine del Milione con il racconto dei pipistrelli mangiati golosamente da quelle genti così lontane e così pericolose. Ho fatto un sogno che da quel paese arrivavano notizie confuse e all’inizio sembrava fosse un racconto tra i tanti che riempiono la rete e dice che se esci di casa ti sparano in testa e dice che muoiono a migliaia e dice che è una cosa fatta in laboratorio e dice che hanno già il vaccino ma lo tireranno fuori per farci i soldi a pacchi quando al mondo gli si stringerà il culo dalla paura e dice che non muoiono mai i cinesi e non sai mai quanti sono e insomma io non mi sono mai fidato. Ho fatto un sogno e agli albori dell’ecatombe c’erano quelli illuminati e progressisti che consumavano tutto l’ardore dei loro pensieri precotti, buoni da spendere all’aperitivo, organizzando cene sfrontate nel ristorante cinese sotto casa. Si facevano i selfie e morta lì. Ho fatto un sogno e gli ottusi che sono il cemento dell’oggi, bardati delle loro armature di luoghi comuni e conoscenze comprate al discount della miseria umana, continuavano a dare la colpa a quelli che arrivavano con i gommoni e a spartirsi in gruppi ideologici imbarazzanti dove il senso delle loro idee era tutto nelle loro paure oscure. Ho fatto un sogno e quelli che parlavano di razza pura erano gravati dalle peggiori tare e quasi mai avevano figli. Ho fatto un sogno dove la gente da un pezzo aveva preso a confondere le opinioni con le conoscenze e ti sapevano spiegare tutto ma poi scoprivi che a quel tutto corrispondeva il solito nulla rassicurante del naufragio perenne che chiamiamo i nostri giorni. Ho fatto un sogno e la politica era sincronizzata con il mondo con la stessa nozione del tempo che ha un protozoo, immobile nella sua evoluzione da milioni di anni. Facevano decreti e litigavano ancora e prendevano tempo ma dicevano di prendere decisioni, nemmeno buoni a inventare un cazzo di modulo inutile per dichiarare che stai camminando verso il lattaio. Ho fatto un sogno e tutti stavano aggrappati alla rete e la gente faceva le videochiamate perché nelle settimane il dubbio si era insinuato e cominciavi a non credere al tuo mondo di prima come non t’ha mai convinto nemmeno dio. Ho fatto un sogno e c’era il pontefice massimo che benediceva la piazza vuota e una via crucis a galleggiare nel vuoto di tutto, forse la cosa più vera su cui abbiamo potuto contare in questo tempo rubato al tempo. Ho fatto un sogno e le pubblicità si erano tutte riposizionate sull’oggi e tutto quello che avresti potuto desiderare e consumare era buono per uscire vincitori da questo impaccio della morte di massa, che di questo si tratta diciamocelo. Ho fatto un sogno ed era un amico mio che prendeva un pugno di monete, le ultime, e andava a compraqrsi i vini migliori e un uovo di pasqua per guardare in faccia ai sogni. Anche al mio sogno. Ho fatto un sogno e erano le risate che mi faccio la notte rimanendo sul balcone a parlare con Ste mentre le finestre di fronte restano accese fino a tardi e i vicini hanno fortunatamente smesso di mettere le canzoni a tutto volume. Ho fatto un sogno e un runner inseguiva un proprietario di cane che inseguiva un anziano ribelle che inseguiva un bimbo con il monopattino che inseguiva un pusher che inseguiva un taxista che al mercato mio padre comprò. Ho fatto un sogno che i medici morivano e gli infermieri morivano e gli ambulanzieri morivano e certi si arricchivano vendendo milioni di mascherine ciucche che non sarebbero arrivate mai. Ho fatto un sogno che tutto il potere ai vigili e quello era l’incubo peggiore. Ho fatto un sogno che ho sognato dii nuovo che si muore soli e questo è il distillato di questi giorni che sono nostri come una scomoda eredità di un parente pazzo. Ho fatto un sogno e in quel sogno una’ombra era destinata a morire sola ogni giorno allo stesso modo, come muore Hattie Carroll, lasciando dieci figli a casa e un lavoro schifoso da cameriera in un posto lurido. Ho fatto un sogno e mio figlio sorrideva e era passata la tempesta e lui partiva in moto per il mondo e la moto non era la mia, quella la guidavo io.





domenica 22 marzo 2020

Di passaggio





Nel 1987 tutta la mia famiglia se n’è andata da Udine, Mio padre è stato trasferito prima a Perugia e poi a Roma, a finire la carriera militare spiaggiato, come si usa in quel mestiere lì delle armi, in qualche corridoio del ministero. I giorni del trasloco sono stati un frenetico imballare e impilare e impacchettare e pennarelloni per scrivere sulle scatole. Tutto quel tira e molla del trasloco. Io e mio fratello, nel fiore di quella demenza che non ci avrebbe mai abbandonato, ci immaginavamo le facce dei traslocatori quando avrebbero letto “testa impagliata della nonna” o “peli, unghie, tazze della colazione”. In quei giorni lì abbiamo buttato tutti i giocattoli di quando eravamo piccoli varcando la soglia verso l’età adulta come in un rito di passaggio di qualche tribù africana. Buttammo i soldatini Atlantic, che erano una sorta di Lilliput della vita lavorativa di nostro padre e da bambino pensavo mi fossero assegnati d’ufficio dal Ministero dei Beni ludici e che i figli dei fruttivendoli giocassero con dei fruttivendolini e i figli dei medici con dei medicini. Furono eliminati anche i Big Jim, quegli ometti di silicone che dovevano essere la variante maschia della Barbie e  avevano un tasto sulla schiena che gli provocava un su e giù del braccio che avrebbe dovuto essere un colpo di karate, ma che più probabilmente era stato la nostra palestra didattica verso l’atavico gesto onanistico. Un natale me lo avevano regalato anche a me lo sportivissimo Big Jim, nella versione base, ovvero, un triste tarchiatello anabolizzato in mutande, senza accessori e vestiti e mezzi di trasporto. Nelle pubblicità su Topolino questo personaggio era un’arma potentissima di americanizzazione delle giovani menti europee. Vestiva con camicie a scacchi e ampi cappelli da cowboy e aveva sempre un fucile o un pistolone in mano e elicotteri, barche, camper, rifugi atomici e catene di fast food. Lontanissimo dalla nostra realtà. Era difficile pensarlo alle prese con un Garelli tre marce e una rosetta con il salame ungherese. Come quando ti serve una foto per illustrare una famiglia italiana a pranzo e l’agenzia ti manda dei sanissimi californiani che pasteggiano mangiando tacchino ai mirtilli bevendo latte. Tu lo sai che quella foto non è plaiusibile ma è come se riconoscessi in quei gesti che non ti appartengono il segreto della loro potenza mondiale. Siamo culturalmente sudditi del mondo di Big Jim. E i vestiti del muscoloso bambolotto erano carissimi e il mio si dovette adattare a certi pantaloni di velluto a coste, cuciti da mia nonna utilizzando indumenti frusti miei. Praticamente il mio Big Jim era inabile a qualsiasi movimento, ingessato in pesantissimo pantaloni stretti alla vita da un pezzo di elastico di mutanda che su di lui facevano un tragico effetto cinto d’ernia. Quando andavo in cortile a giocare con gli altri il mio Big Jim, con i pantaloni di velluto a coste grossissime e l’elasticone alla vita e una canotta ricavata dal tulle di una bomboniera azzurra sembrava uscito da una rivista per soli uomini che gli piacciono gli altri uomini. Una sorta di grottesca replica di un set di  Robert Mapperthorpe in scala. Senza contare che mia nonna aveva scarsa dimestichezza con la lavorazione dei pellami, per cui il mio amico di silicone e velluto a coste girava a piedi nudi. Il fucile lo aveva ricavato mio padre da uno stecchino del ghiacciolo di legno. Lo aveva sagomato ed era venuto anche bene, che mio padre passava l’estate a intagliare pugnali e kriss malesi per me e i miei amici e il suo era anche un talento. Sta di fatto che quando arrivavo dai miei amici con il mio Big Jim conciato in quel modo finiva sempre che dovevo fare a botte per difendere l’onore mio e del mio bambolocchio estroso. Fino a quando tornò mio zio da un viaggio a New York e mi portò in regalo la versione americana di quel gioco lì, che avevo abboffato la uallera a tutta la mia famiglia con la storia che ero un appassionato di quei personaggi avventurosi. Il postino un giorno mi recapitò una grossa scatola e lo zio poi confessò di averla rubata rischiando la sedia elettrica perché in America se ti beccano a rubare in un negozio di giocattoli è un attimo e ti friggono. Dentro c’era un capo indiano che quanto a altezza e muscoli gli dava la pastina a Big Jim che, sia detto per inciso, era il solito complessato bassotto che si bombava di sostanze per darsi un tono, ma era pure più tappo di quello sfigato di Ken, il fidanzato ufficiale di Barbie. Insomma il mio capo indiano era un colosso come quello che volava sul nido del cuculo e parimenti forte. Aveva un set pieno di accessori, ricostruzione fedelissima di tutto l’armamentario di un vero capo Cherokee. Sembrava che più che un giocattolo quel set fosse una sala dello Smithsonian Museum a cui avevano collaborato antropologi, storici e John Wayne in persona. Sta di fatto che ogni volta che scendevo in cortile con il mio gigante con le trecce sentivo il peso di essere diverso. Tutti prendevano in giro il mio pupazzo piumato e nulla valeva spiegare cos'era un wampum o come si accendeva un kalumet. Alla fine andò in fondo a un baule e perse le mani in qualche zuffa con i soldatini in quel mondo di plastica dei miei giochi che sarebbe piaciuto a Lemuel Gulliver. Poi venne il trasloco e il Big Jim nel suo sudario di velluto a coste e il capo indiano con le mani mozze, come un Guevara della rivoluzione dei giocattoli, e i soldatini e le biglie finirono nei bidoni della spazzatura. A dire il vero non me ne resi conto, credo che mio padre si occupò di sopprimere l’ombra dei miei passi di bambino senza dirmi niente. E così tutta la famiglia è partita e io sono rimasto solo a Udine e ho trovato un cane nero, il primo di quella razza nera e spettinata che ha fatto la guardia all’ombra dei passi da uomo.