"e io piangerò e saranno lacrime di silicone, perchè il futuro tutti ci svelerà per quegli androidi di prima generazione che siamo, difettosi nel chip dell'emozione." blughost
E mi squilla il telefono e lo sanno tutti che io non
rispondo quasimai, lo sanno
almeno quei tutti che provano a chiamarmi. Tranne rare eccezioni che conto
sulle dita di una mano, io, se mi chiami al cellulare non ti rispondo e quasi
mai ti richiamo. Non c’è un motivo, non c’è avversione, i più intimi sanno un
trucco per trovarmi lo stesso e mi parlano di sponda col rischio che io prenda
accordi e fissi orari senza sapere di averlo fatto. Ma questa è un’altra
storia. Il cellulare non lo odio affatto, ha uno schermo con dei bei colori e
mi piace quando si accende la notte mentre guido. Il cellulare lo dimentico per
giorni in giro, non l’ho mai perso o forse l’ho perso e ancora non me ne sono
accorto. Poi certe mattine parte la caccia al cellulare, che è inutile farlo
squillare che tanto sono sei giorni che sta da qualche parte buttato e avrà
smesso di respirare il litio delle batterie. Il cellulare che uso nella vita è
anche quello che uso per lavorare. Pazienza.Ci vuole pazienza. Di solito quando non lo trovo per dei
giorni sta sotto il sedile della macchina o in garage, tra i pezzi smontati di
qualche moto che un giorno rimonterò tutta e sarà uno spettacolo.
Poi capita che un giorno mi squilla il telefono. Un numero
sconosciuto, che nel mio codice etico da utente di telefonia mobile è la
tipologia assolutamente rifiutata. Numero privato, numero non in memoria… non
ce n’è, non ci sperare, dovessi mai premere il tasto della cornetta verde poi
la gola non riuscirebbe ad articolare il “pronto” che ti aspetteresti. Lascia
perdere. Invece una domenica mattina, fascia oraria tabù di suo, squilla il
cellulare e la sera prima chissà come ho perso la bassa tecnologia delle
comunicazioni che posso permettermi tra le lenzuola e quel cazzo di maledetto
trillo mi si pianta tra i ventricoli e gli altri icoli rischiando di uccidermi.
Scommettici che la mia suoneria è il vecchio squillo vintage dei telefoni di
una volta perché sono un uomo in bianco e nero e sogno di averci un cellulare a
gettoni. Squilla e io non ci vedo, ho perso la sensibilità dei polpastrelli,
sospetto l’amputazione notturna degli arti inferiori, mi chiedo perché mai la sera
prima mi sono mangiato uno sformato di topo vivo. Squilla e quell’altra accanto
scuote le chiappe e non per voluttà, per enfatizzare piuttosto lo stato tensivo
generato da quel suono lancinante che investe anche lei e che mi chiede con un
ringhio basso di placare. Squilla coi cani che escono da sotto l letto e mi
guardano con l’aria di dire “ma ti sembra l’ora”. Sapessi almeno chi è che
chiama ma non ci vedo, l’ho già detto, e rispondo sicuro di non sentirci neppure,
giusto per fermare la tortura di quel drin drin vibrato.
“Giorgio?”
Voce femminile dall’altra parte, sospesa nell’incertezza.
Conosce il mio nome. Qualcuno ha fatto il mio nome. Un infame di certo.
“Arughhh az”
Più o meno rispondo.
“Giorgio Olmoti?”
Armageddon, conosce tutto di me. I servizi segreti.
“Chi sei?”
Mi dice un nome e ride.
Resto lì, sdraiato nel letto con gli occhi di colpo sbarrati
e piantati nel soffitto dipinto con due mani di buio, che le tapparelle fanno
il loro sporco lavoro irreprensibilmente.
Già, la voce sua. Avrei dovuto riconoscerla. Così mi dico e
non parlo. E parla lei e ride che una amica comune chissà come, una che ora
vive dove vivo io e che non vedo mai, l’ha incontrata e le ha dato il mio
numero.
L’ultima volta che ci siamo sentiti sarà stato di certo da
un telefono a gettoni, che io il telefono a casa non lo avevo e ti chiamavo
dalla cabina del policlinico.
Nell’era di facebook e di internet e anche in grazia di
questo mio incessante vagare, ho ritrovato amici e compagni di scuola con cui
ho condiviso caffè leggendo a volte nel profondo dei nostri occhi che se non ci
eravamo più parlati per tutti questi anni forse un motivo c’era e quindi si parlava
di quegli altri di cui non si sapeva più nulla che è un bell’esercizio della
comunicazione a grado zero. Ma qui non c’è da parlare di scuola, di amici
comuni, di passi condivisi, che piuttosto ci siamo trovati di sguincio senza
cercarci e spaventati ogni volta. Nascosti senza che io avessi nulla da
nascondere. Avevo il mio motorino razza Ciao e ne ho ancora uno uguale, per
lealtà. E me lo sono chiesto dov’eri.
Mi chiedi se ho la moto, eccerto, se ho un cane, eccerto, se
ascolto ancora un mucchio di musica, eccerto, se ho figli, eccerto, se faccio
le fotografie, eccerto. Rispondo giusto a tutte le domande. Sono preparatissimo
su di me. Ma sei ancora completamente pazzo, ma canti per strada e ti vesti con
quella roba vecchia assurda. Quale roba assurda chiedo io. Ridiamo.
Toccherebbe a me fare le domande e dovrei chiederle se ha
trovato uno veramente ricco come sognava, se è ancora bella come me la ricordo,
se si ricorda come si disegna un tristallegro. Le mie domande fanno schifo e
salto il turno e apro la busta dei ricordi spiccioli. Perdendo a poco a poco
parole e confidenza. E restiamo così allora, ora ho il tuo numero e guarda che
ti cerco e ci dobbiamo troppo vedere.
La mattina davanti alla stazione ci arrivo col passo del
sorriso, che è un passo che m’è consueto e non pensare sia facile che il prezzo
della felicità è alto e paghi ogni giorno e lotti senza mai smettere. Sono
passati dei mesi da quella telefonata domenicale e siamo lì, in mezzo alle voci
e alla fretta, a un passo da quel posto dove trovammo un portafoglio che ci
regalò due giorni indimenticabili e sono passati trent’anni e lo dico senza il
conforto della prescrizione ma con la nostalgia del rischio. Del resto ci stavi
con me perché ero quello scasso della strada con gli anfibi e i pantaloni a
quadretti e il cappello dell’esercito confederato. Andiamo al bar e gli altri
ci lasciano da soli, perchè io sto con una donna meravigliosa che non ha mai
smesso di rispettare questa mia tensione verso le cose che accadono. Prendiamo
qualcosa che non ricordo e che non è nemmeno appiglio al passato, che allora
non ce l’avevo la fissa del chinotto per esempio. Non abbiamo nulla da dirci e
da condividere. Ha realizzato il suo sogno e non sogna più. Penserà lo stesso
di me. Probabile.
“S’è fatto tardi, ma ora ho il tuo numero e non mi scappi
più. Organizziamo una cena una di queste sere”
“Contaci”
Già... contarci... come fossero le pecore per un sonno che non sai
afferrare.
Oggi, ti piacerebbe forse, ma non ne sono sicuro davvero. La
gente sta scendendo in strada. Forse ti scapperà un sorriso e penserai che le
persone oggi fanno le cose per essere come la televisione, come le fotografie,
come il cinema e un po’ è anche colpa nostra se le urla arrivano così silenziose.
Oggi sta succedendo qualcosa e quindi già me lo immagino che dirai che non
succede nulla. Non è vero. Succede per esempio che tu stai morendo o sei già
morto da qualche parte e da qui in poi non sei mai esistito. Capita che non ho
idea del tuo reale dolore, mica una cosa morale ma piuttosto una maledetta
morsa nella carne, che provo a confrontare con la mia esperienza vaga mordendomi
la carne dentro le guance. Inciampo nel tuo ricordo e questo davvero mi
infastidisce, che preferirei caderti addosso sul serio e bestemmiare l’ingombro
del mio corpo goffo e delle tue ossa sottili. Che beffa che la mia ossessione per
la memoria debba misurarsi con l’indisposizione verso il ricordo ma è di più,
lo so che lo sai, è proprio che il ricordo in questo caso è un tabarro che
abbiamo imparato a far indossare alla vita quando non regala altre possibilità.
Stanno gridando ora nelle piazze e l’asfalto fa spazio agli schizzi di sangue
che hanno già prenotato il posto loro sulla strada del successo. Il problema è
tutto lì, nel successo che non è inteso come la possibilità di un bel rifulgere
in seno al tessuto sociale ma piuttosto come quello che è già capitato, già
accaduto. Inchiodati alla storia senza ragione di diventare più memoria, diresti
tu solo guardandomi, che le parole, le benedette parole sono danno e dannazione
di questo tuo respiro. Chissà se adesso c’è ancora il tuo respiro, ora intendo.
Non ci sei voluto stare al gioco del compianto sul povero cristo morto, troppa
iconografia scontata in saldo. Mi adeguo e non ho notizie ma stamattina, mentre
spiego a mio figlio cos’è uno sciopero, ti sento morire di quella morte che si
dimenticò di raccoglierti in montagna tanti anni prima. Aggrappato a un mitra
scarico. Cazzo, non ci sarai più. Se qualcuno verrà a dirmi che ancora vivi
nelle nostre scelte e nei nostri sorrisi, dovrà sapersi allontanare in tempo.
Balle, stai morendo o sei già morto. Maledetto bastardo. E le genti che
passeranno… passeranno appunto. Ognuno faccia la parte sua, questo certo che me lo devo ricordare. La tua faccia, quell'odore dei giorni in chiusura sono una cosa personale che non posso rischiare di perdere con l'azzardo dell'immaginario condiviso. Ora devo andare. In strada.
Allora, ti ricordi come funziona qui? Fai partire il pezzo e leggi.
Premessa. A Torino, negli ex mercati generali, ci hanno
ficcato una celebratissima iniziativa sull’arte contemporanea. A Torino ci sono
Artissima, Paratissima, Ganzissima e tutte ‘ste cose belle che contribuiscono a
costruire una robusta grammatica comune da spendere in coniugazioni d’azzardo
tra i tavolini della movida. Maledetto quello che ha deciso che un brulicare di
persone inerti bardate di bicchieroni di plastica caricati a ghiaccio e
qualcosa si dicono movida e fanno cultura metropolitana. Ieri era Paratissima
per me, che mi figuro sia una specie di festival dei calci di rigore a
giudicare dal nome. C’erano un mucchio di foto appese. L’ho già raccontato
altre volte che nel mio mestiere ci passa parecchio la fotografia e almeno una
volta al mese da vent’anni a questa parte, arriva uno a farmi vedere le sue
foto scattate in India e ogni volta mi mostra le stesse foto di quegli altri
prima di lui, passate in bianco e nero con un clic su un programma di
fotoritocco, che tanto basta. C’è un bramino a bordo Gange che l’ho visto così
tante volte presentato come uno scatto eccezionale, al punto da percepirlo come
un lontano parente. La suggestione è che anche lui sappia di me, dall’altra
parte del mondo con una scrivania ingombrata di foto mie e di altri, che mi
ritrovo di nuovo la sua faccia davanti e mi pare ammicchi e mi chieda di tacere
e reggergli il gioco dell’unico. Sono rupie meritate le sue. Ieri a
Paratissima, sulle pareti di quei padiglioni, ho contato quattro bramini. Lì
dietro Paratissima c’è il villaggio olimpico, che sono case vuote e mai
utilizzate e costruite con il fiotto caldo dei finanziamenti per le olimpiadi
invernali, sempre siano lodate, che arrivarono sulla città, che quando arrivano
i finanziamenti si dice che sono per la città e c’è questa cosa strana che tutti
i cittadini che conosco io, bada che non sono pochi, non si sono visti offrire
nemmeno un caffè. L’unica memoria sociale di quella stagione finanziatissima
sono i piumoni sgualciti che i vecchi volontari ancora indossano d’inverno e
non per vezzo ma piuttosto per necessità, come l’eskimo di Guccini. Andiamo
avanti. Dicevo che ci sono tutte queste fabbriche e queste aree che ancora
puzzano di un maledetto lavoro sporco durato decenni e poi ristrutturazioni
fatte nel tempi di un singhiozzo e acqua che trafila dai soffitti e crepe che
si aprono sotto il sole ma c’era da spendere i benedetti finanziamenti. Insomma
enormi leviatani spiaggiati sull’arenile di questa città regalata alpulsare frenetico del lavoro culturale
declinato in mille forme. Alla salute di Bianciardi perché qui sputano sulle
tombe ma lo fanno con la grazia della mano davanti alla bocca. A Paratissima io
ci sono andato ieri sera perché c’era l’ennesima presentazione di “La faglia”
che è un romanzo ambientato in una periferia di fantasia torinese, e la storia
è interessante ma soprattutto Massimo Miro, l’autore, è un catalizzatore di
energie sparse e organizza ‘ste serate con gente che parla, che suona, che
legge, che filma e proietta. Ci sono anche io in questo Barnum narrativo e
faccio Sgummo, che sarebbe uno dei personaggi del romanzo. Si parla di
periferie e città industriale e passato presente e piuttosto mi pare di notare
un occhio antropologico e un’attenzione sociologica negli altri che mi lascia
ammirato. Non ce l’ho quell’attitudine lì. Sono qui perché la periferia per me
non è una categoria storiografica e neppure un luogo dello spirito ma piuttosto
il contenitore di una fetta consistente della mia vita. Una cosa mica da poco
che mi ha condizionato al punto da farmi essere sempre periferia di qualcosa.
Senza rimpianti e senza rancori, con l’idea che un posto vale l’altro ma poi
sempre in periferia rimanevo. Senza il culto del perdente, che si vince a
prescindere da dove giochi, senza l’assunzione di un merdosissimo paradigma
vittimario perché ognuno fa i conti con la sua pelle. Insomma prendo il
microfono e leggo ‘sta storia di Sgummo e io non leggo quasi mai in pubblico,
parlare certo che parlo spesso a titoli vari ma leggere… roba d’altri poi.
Gratis per giunta. Non ho vantaggi da questa cosa, che nemmeno ce ne andiamo a
cena a ridere insieme, per me è importante stare attorno a un tavolo e ridere
insieme, vado lì e faccio Sgummo e a stento ho consapevolezza di chi ci sia sul
palco con me. Ma va bene così, che di cose mie sparse ce ne sono milioni e
Massimo Miro e il suo libro sono una bella cosa. Sta di fatto che ogni volta
son lì seduto che mi guardo attorno e penso che sul tavolo ci sono sempre mille
proposte brillanti per il lavoro sulle periferie e nell’esperienza mia tutto
quello che di brillante riguarda quella fetta estrema dei territori cittadini
finisce inevitabilmente sul bancone del “compro oro”. Bada che le periferie in
cui sono cresciuto io non sono torinesi ma dammi palazzi e puzza di miscela grassa
nelle strade e facce che ti inchiodano alla tua maledizione di essere “fuori
zona” e saprò trovare segno identitario.
Per dire, sabato mio figlio giocava nella palestra di via
Panetti. Dai, sfrutta la bella potenza delle tecnologie recenti e vai a vedere
dove sta piazzata a Torino ‘sta strada. L’immagine di Google Maps ti farà
vedere una bella zona verde, parco Colonnetti si chiama, bordata dalla salda
nervatura di viali dritti dritti che sembra siano lì per portarti a fare una
bella scampagnata fuori città. Certo, stai guardando dall’alto, dal punto di
vista di dio, e ci sta che da quel punto di vista ti sfuggano certe attenzioni
minime, certe sfumature, pare sfuggano anche al dio medesimo, soprattutto
oggidì che le sfumature di grigio le vendono al supermercato e te le regalano
per insistere sul tuo immaginario erotico bollito e sterilizzato. Bene, devi
sapere che sei nel cuore di Mirafiori, mica cazzi, Mirafiori, proprio quella
che aveva dato il nome alla meravigliosa FIAT 131 Mirafiori. Per inciso se giri
lì attorno su Google Maps ci vedi casa mia e ci vedi i resti del mammut della
fabbrica delle fabbriche.
Quando sono arrivato a Torino, stiamo parlando
dell’anno con la cilindrata portata a duemila tondi tondi, per Natale con Ste
siamo andati davanti ai cancelli della fabbrica delle fabbriche, con il nome
scritto grosso egrigio contro il grigio
del cielo e della terra. Lì, nel parcheggio vuotato dalla domenica, ho fatto
una foto a Ste con Dani di pochi mesi in braccio e lei aveva un cappottino nero
e lui un cappellone di lana fatto dalla nonna e la foto era in bianco e nero e
l’abbiamo stampata e mandata a tutti con gli auguri nostri dalla città della
fabbrica delle fabbriche. Da guardarsi ascoltando Vincenzina e la fabbrica
appunto. Non è un caso che dieci anni dopo ho scritto un libro, Cantastoria si
intitola se volete versare un contributo fattivo alla mia causa domestica, e
Vincenzina era il mio Virgilio che mi conduceva per cinquant’anni di storia
nostra, di imbarazzo nostro mnemonico, attraverso le canzoni. Tutto era partito
da quella fotografia. Fatta proprio dietro casa nostra, che ve lo dicevo che la
periferia per quelli come noi non è una possibilità o una maledizione, è e
basta. Insomma l’hai trovata via Panetti. Un capillare dell’arteria di via
Artom, una lingua d’asfalto che si infila nella topa verde di parco Colonnetti
e che dura qualche decine di metri, Uno pseudopodo urbanistico che muore nel
nulla di uno spiazzo di fango o di polvere, a seconda delle stagioni. Unica
meta plausibile un impianto sportivo che sta ormeggiato a bordo parco e che
comprende anche un palazzetto dove gioca mio figlio a basket. Il sabato lo
accompagno alla partita e Ste entra con lui e gli altri genitori mentre io
scelgo di andarmene in giro lì attorno e non devo dare spiegazioni perché nella
mia tribù lo sanno benissimo che ho questa maledizione che devo andare e
guardare e ascoltare e qualche volta raccontare a mia volta. Il cane è parte
integrante di questo passo. Stavolta però resto in macchina, nel mio vecchissimo
e indistruttibile pick up che è una seconda casa. In questo caso è un punto di
vista privilegiato. Mi sono parcheggiato di fianco al campo da bocce perché mi
piace sentire i discorsi dei pensionati, quasi tutti hanno versato il loro
tributo alla santa fabbrica delle fabbriche. C’è il sole, ho un paio di Zagor,
ho sempre qualche vecchio numero di Zagor sparso tra il bagno e il sedile
dell’auto, Tom Waits che fa piovere cani dallo stereo che mi sono montato da
solo sul magico pick up. Il cane acciambellato accanto. Se il cane sonnecchia
tutto filerà liscio. All’inizio di via Panetti ci sono quattro camper, un campo
nomadi improvvisato sulla strada con i panni stesi sulle recinzioni del parco,
ad asciugarsi a quello stesso sole che ci stiamo godendo io e il cane. Ho
vissuto quattro anni sul lembo di un enorme campo nomadi in un'altra città e
quella casa costava pochissimo perché nessuno ci voleva vivere e ancora me le
ricordo le grigliate e la musica e le retate. Bambini, un mucchio pazzesco di
bambini. Passano davanti al bocciodromo, due soprattutto, con le loro bici,
trionfo della cannibalizzazione. Uno più grosso, a occhio dodici anni come il
mio, va a prendere l’acqua con una tanica. A piedi nudi, sbilanciato dal peso
maledetto dell’acqua, nella mano sinistra stringe un telefonino di quelli che
quando li lanciano sul mercato la gente fa la fila per farsi colpire in fronte.
Mi fa ricordare una bellissima foto di Enzo Sellerio, scattata alla fine degli
anni Cinquanta circa in Sicilia e didascalizzata “baracca senza acqua ma con la
televisione” in cui si vede una ragazzina che esce con un secchio da una casa
sfondata e sbilenca sul cui tetto campeggia un’antenna televisiva. I ragazzini
che arrivano per giocare a basket scendono da macchine che sono già segnale di
famiglia e ordine, che poi vai a sapere come stanno le cose mi sussurra
l’esperienza di uomo che guarda. Incrociano i loro sguardi con quelli di quegli
altri stracciati con le bici e i panni stesi sul bordo del parco. Mi viene in
mente la sequenza di ladri di biciclette in cui il ragazzino protagonista con
la sua mozzarella in carrozza a filargli la tela della felicità a fior di
labbra, incrocia lo sguardo con l’altro, il bambino ricco, che conta il senso
della sua vita sull’avvicendarsi delle portate. Maledizione di tutta ‘sta
memoria di pagine e film e foto che mi porto ficcata in gola e che confondo in
questo mio scrutare. Insomma sto lì in bilico e per questa volta non sarò
agente di storia, di questa storiella mia a più voci, e resterò a fare quello col
finestrino sul cortile: Però, permettetemi, a ben vedere uno come me ficcato
dentro un vecchio pick up, con uno Zagor stretto tra le dita, una canzone rauca
che esce dagli sportelli e un cane che dorme tenendo l’occhio azzurro chiuso
visto dall’alto del vostro Google Maps fa già parte della giostra che cerco di
descrivere con distanza ma è questa mia attitudine ad essere storia e film e
foto e fumetto e uomo a mia volta. Con il sogno torbido e segreto di essere lo
Zagor delle mie periferie per giunta. Ormai lì in via Panetti, abbiamo
tracciato i confini di pertinenza, se non lo sapete facciamo così sempre nelle
periferie. Se metto la macchina qui dieci volte questo è il posto mio, se porto
il cane alle cinque al parco e sto in quel pezzo di prato non venirci col tuo
che si sbranano e questo è il posto mio, lo sanno tutti che è il posto mio. Un
fotografo un giorno s’è dedicato a raccontare le favelas attraverso i segni di
delimitazione degli spazi di pertinenza tra una baracca e l’altra. Ottima idea
ma non mi ricordo il nome del fotografo anche se l’ho conosciuto personalmente.
Stiamo lì e ognuno attiva l’attenzione degli altri ma la regola è non far
vedere che sei curioso e fare il vago. Tutti abili nell’esercizio d’estimo che
ci ha fatto intuire che non c’è preda tra noi che non si piscia dove si mangia,
ci godiamo il sole e il respiro di questo sabato pomeriggio. Nel palazzetto intanto
si vince, si perde. Come fuori. Poi arriva una macchina sportivissima e
teutonica, una cosa davvero fuori zona lì e penso subito “cazzo, il gran visir
degli spaccia viene a vedere i suoi topi che ballano”, che il parco, m’ero
dimenticato, è pure un supermercato stupefacente. Invece esce uno tutto
sportivoelegante e col capello giusto e tira fuori un paio di scarpe bicolori e
si cambia il mocassino e apre lo sportello e estrae una sacca da golf. Subito lo
raggiunge un altro, ancora una berlina in sfoggio di tecnologia teutonica che
brilla a quel sole che era il nostro sole fino a pochi secondi prima o ora per
suggestione pare che su di lui brilli di più. Si cambiano e tutte le altre
attenzioni della stradina si piantano sul bicolore di quelle scarpe e le mazze
e la borsa con le rotelle. Si avviano verso il lembo del parco e a questo punto
scendo anche io e scende il cane e lascio la macchina aperta e la musica che
continua orfana d’attenzione e me lo immagino che molti avrebbero chiuso l’auto
al posto mio premendo il telecomando e con le frecce che fanno l’occhiolino ma
il mio camioncino non ha nemmeno la chiusura centralizzata e lascio perdere.
Sul prato il comune, non ci posso credere, ci ha piazzato un campo da golf e
altri ne arriveranno con le scarpe bicolori e si eserciteranno al tepore di
quel sole. Ognuno adeguato all’altro in un equilibrio sospeso e surreale. Certo
i pericoli ci sono. Pensa tu se uno spacciatore inguattato nei cespugli in
fronte viene centrato alla tempia da una palla da golf. Rischia di restarci secco.
Secco sotto questo sole che scalda la periferia mia che non è un luogo dello
spirito ma piuttosto è lo spirito di tutti i luoghi. Buona fortuna a voi.
Non saprò mai rispondere a quelli che ti chiedono
qual è il libro che porteresti su un’isola deserta, razionalmente mi porterei
una buona lama di Maniago sulla suddetta isola e emotivamente ci vorrei la
femmina della mia vita, ma libri e dischi e cose così lasciamo perdere. Non ho
nemmeno una canzone da riferire a un momento preciso della mia vita e per uno
che ha fatto della memoria un’ossessione metodologica e un mestiere magari non
c’è coerenza ma tant’è. Ho estratto da certe pieghe profonde dello stomaco le
parole per un libro mio lasciandomi portare da quell’accordo insistito che
scava immagini ne La domenica delle salme
e non era nemmeno il libro che ho scritto su De Andrè, non era nemmeno un libro
sulle canzoni a ben vedere, e sull’argomento ho speso qualche boccia di
inchiostro. Eppure mi capita una cosa e mi capita da trent’anni almeno. Mi succede,
a far di conto per approssimazione col pallottoliere dei ricordi, da quando
vivevo al bordo assoluto della periferia, proprio dove finisce la città e avevo
il mio branco di amici, gente che ancora è la mia famiglia, e c’erano i nostri
anfibi e i motorini razza Ciao con gli adesivi che celebravano la musica nostra
e c’era quella sensazione di inadeguatezza in punta di rabbia. La musica che si
sentiva allora andava ascoltata forte, che le voci nostre erano poca cosa. Me
la ricordo quella musica lì ma, come dicevo, non la lego a un momento,
piuttosto la ripasso spesso anche oggi. C’è una canzone però, una in
particolare, che non ho mai reputato la migliore e nemmeno quella su cui
mettere un segno per riconoscere l’emozione. Stava lì nell’aria come tante
altre e se me la porto dentro non è perché me la son caricata con la passione
ma piuttosto perché me la sono beccata come un raffreddore, come una cosa che
non sai di portarti addosso fino a che i sintomi non dichiarano il danno loro.
Sta di fatto che nel corso della vita mi sono trovato spesso al bivio. Si
trattava sempre di scegliere tra cambiare facendo il compromesso di un sorriso
alla merda e restare quello lì, che allora avevo un giubbotto di pelle, gli
anfibi, una camicia a scacchi, un jeans sdrucito e un portafogli aggrappato a
una grossa catena mentre oggi ho un giubbotto di pelle, gli anfibi, una camicia
a scacchi, un jeans sdrucito e un portafogli aggrappato a una grossa catena.
Ogni volta che sono rimasto nel dubbio e sono arrivato vicino a perdere il
passo d’uso, non il migliore ma l’unico che conosco e quindi il più leale che
posso permettermi, ogni volta che mi sono detto che se avessi solo trovato che
lo schifo aveva un sapore schifoso ma che non si moriva di certo, quella cosa
succedeva e succede. Arriva in dissolvenza da chissà quali maledette volute del
mio cerebro sgualcito. Prima è una chitarra che picchia, dan dan dan dan… poi
una nota di basso a scivolare nel dubbio e quella voce che mi racconta il vento
in faccia che m’ha tenuto in vita fino a qui, che se era solo per il mero
miracolo biologico del mio corpo ero crepato da un pezzo. Quando la sento che
monta dentro di me, capisco che non ho scelta, che non c’è niente da scegliere,
che io sto dentro quelle pennate furiose, che quel Fender Precision che sta per
abbattersi sul palco in bianco e nero della copertina è lì a ricordarmi che io
non mi porto addosso nessuna morale di riferimento ma ho quella fottuta canzone
che s’accende come la spia d’emergenza del mio respiro. L’altro giorno, e ne ho
scritto da qualche parte, era l’ultimo giorno per concorrere al massacro del
concorso da insegnante, avevo compilato i moduli e me li rigiravo tra le mani e
in dissolvenza dan, dan dan, dan…. London Calling.
Premessa.
Ogni giovedi dalle 15 alle 16 su www.ondefurlane.eu c'è Convoy, trincea d'ascolto un programma in cui si parla, io parlo per la santa precisione di fotografia alla radio. Anche di fotografia a ben vedere. In appendice alla trasmissione carico sul blog il racconto di alcune delle immagini evocate dai microfoni, giusto per dare una possibilità in più alle fotografie di esistere oltre la mera nozione che ne abbiamo sfogliando le riviste e guardando sui muri delle città.
1936.
I
braccianti arrivano alla fattoria provenienti dalle contee vicine ma
anche dagli altri stati. In treno, viaggiando su carri merci presi al
volo, sempre con il rischio di essere scoperti e riempiti di botte da
quelli delle ferrovie. Altri arrivano in auto, non certo belle
macchine fresche di fabbrica, piuttosto rottami precari e rugginosi
che hanno preso il posto dei carri dei pionieri e sono mezzi di
trasporto ma anche letto e cucina e tetto. Per tutta la famiglia.
Gli accampamenti sono pieni di bambini laceri, almeno di quelli che
ancora non sono stati avviati al lavoro agricolo. Sono ormai anni che
quella multiforme comunità si sposta inseguendo i ritmi della
stagione agricola. Declinando l’esistenza soltanto al presente.
Dorothea
Lange si aggira per anni tra quei volti segnati ed è parte di quella
comunità, Di più, è la possibilità offerta alla memoria di quella
gente disperata. La Lange va in giro aggrappata
con ostinazione a suo apparecchio fotografico, con l'ossessione della
realtà, in contrapposizione alle foto finte e stucchevoli dei
pittorialisti, i fotografi che volevano realizzare foto che
sembrassero quadri. Se ne va in giro, Dorothea, portandosi addosso
il segno della poliomelite trasformata nel vantaggio di un passo
diverso per un'attenzione diversa. Ha la premura di raccontare le
cose più fragili, ben sapendo che sono quelle che possono
dissolversi da un momento all'altro. Si è dedicata per la parte più
consistente della sua esperienza fotografica, a documentare il reale,
senza infingimenti, senza espedienti. Le sue foto compaiono nelle
riviste dell’epoca e sono il racconto di quei giorni drammatici,
comprensibile anche da chi non sa leggere.
I
braccianti si sono radunati nell’area della California dove in quel
periodo si raccolgono i piselli destinati all’industria
conserviera. Chilometri e chilometri di monocolture. Sistemati ancora
una volta alla meglio. Al campo c’è anche Florence Owens
Thompson,. Trentadue anni e sette figli sono le cifre significative
dell’esistenza di questa donna. Dorothea è un’abitudine per
quella gente e ormai nessuno fa più caso alla fotografa dal passo
incerto che si aggira tra i rifugi di fortuna. Nessuno si mette in
posa e quello sguardo fissato nel vuoto, incorniciato tra i corpi
avvinghiati dei bimbi è il racconto potentissimo di quell’epoca.
Al punto da diventare una delle icone del Novecento, e una delle
pietre miliari della storia della fotografia di tutti i tempi.
Dorothea Lange, Madre migrante, California, 1936
1984
Il
campo profughi di Peshavar è una distesa infinita di tende. Sono
cinque anni dall’intervento massiccio dell’esercito sovietico.
Sono cinque anni dall’arrivo dei carrarmati con la stella rossa.
Gli elicotteri con il loro palpito di morte, hanno cominciato a
volare sui villaggi. Bombe, agguati nella notte, uomini che partono
dal villaggio senza più tornare. Questa storia Sharbat Gula la
conosce bene. Lei è una Pashtun, il suo è un popolo fiero che
resiste in quelle terre martoriate da una guerra eterna. Cambiano i
contendenti ma è sempre guerra e sempre tragedia per le vittime
indifese. Sharbat Gula è solo una ragazzina ma ha già dovuto fare
i conti con un’esistenza segnata dal dolore. Ha perso la sua
famiglia ed è arrivata al campo profughi in Pakistan dopo mille
traversie. Quel giorno è nella tenda che lì usano come scuola,
giusto per non perdere la speranza di un ritorno alla normalità.
Steve Mc Curry ha scelto di raccontare con le sue foto la tragedia
della guerra. Beirut, Jugoslavia, Cambogia, Filippine, guerra del
Golfo, Afganistan sono gli scenari in cui realizza i suoi scatti,
sempre caratterizzati da un uso intensissimo, drammatico del colore.
Ha imparato a vestirsi come i soggetti che intende ritrarre,
lascandosi assorbire dall’ambiente che lo circonda, diventandone
parte. Ha appreso la lezione dei grandi maestri di reportages e si
muove nel campo profughi con lo stesso rispetto di Dorothea Lange
tra i braccianti, tra gli ultimi. Il ritratto di quella ragazza,
ancora non lo sa, diventerà di lì a poco una delle più famose
copertine di tutti i tempi. Diciassette anni dopo tornerà sui suoi
passi e ritroverà Sharbat, ora madre. L’esercito dell’unione
sovietica se n’è andato, anzi è sparita dagli scenari
internazionali la stessa Unione sovietica, ci sono stati i talebani,
poi gli americani con i loro alleati e i terroristi islamici e di
nuovo gli integralisti. Tutti carichi di armi e rabbia. Il tempo,
quel tempo lì fatto di guerra e dolore e paura, ha segnato il volto
della donna ma gli occhi sono ancora quelli rubati sotto la tenda a
Peshavar e raccontano come nessuna immagine di soldati saprebbe fare
il dramma di un’esistenza senza pace.
Steve
McCurry ha imparato a raccontare la storia dal basso facendo suo il
linguaggio dei reporter che per primi hanno scelto di occuparsi della
foto sociale. Ha saputo condividere la lezione della Lange e ha
deciso di raccontare attraverso gli occhi di chi subisce.
L’ombra di mio padre due
volte la mia, lui camminava e io correvo…
A
dire il vero l’ombra accanto a me, quella di mio nonno Romolo, aveva l’aria di
essere abbondantemente oltre il rapporto uno a due. E io giusto l’ombra mi
ricordo di quel nostro andare sotto un sole che la memoria non riesce a
collocare ma che l’esperienza fa cadere necessariamente in agosto, che quella
era la stagione in cui caricavamo armi e bagagli per una delle rare visite ai
nonni. La casa sta ancora lì, col balcone che guarda il Tirreno. Quando nonno
aveva smesso di andare per mare la sera si sedeva lì e guardava le barche
passare e i mercantili giù in fondo e il tramonto che faceva il gradasso alle
spalle dell’arco muto che ancora stava in piedi. Le case popolari costruite in
pizzo in pizzo alla villa di Nerone, in bocca alle pendiche, in uno scenario
che ho vissuto e sento mio più per i racconti di mio padre che per averlo
sentito davvero sotto i piedi. Ci sono tornato a Anzio a vederla la casa dei
nonni. Dopo una serata romana in cui in un colpo m’avevano fatto un contratto
per un libro e davanti a una pizza avevamo siglato un patto segretissimo io e
Ste. La notte, salutati tutti, invece di prendere il raccordo verso nord e
tornare a casa m’ero puntato sulla Pontina, quella maledetta strada che mio
padre ogni volta cannava l’uscita e noi arrivati verso Spinaceto entravamo in
tensione e gli contavamo i metri che mancavano e lui si incasinava sempre. Mio
padre si perdeva solo sulla strada di casa sua. Ste in macchina dormiva. All’epoca
avevo una sgangheratissima Ford Scorpio e quando l’ho svegliata eravamo lì,
davanti al mare e davanti ai miei ricordi. Via Bengasi corre verso le
sterpaglie e il mare parallela ai muri tisici di una caserma e poi c’è il bar
da Ringo, che allora si chiamava così e ora non credo, con i cinturoni e i
cappelli di un west in odore di Cinecittà appesi ai muri. Mio padre era bravo a
scuola, parecchio bravo ma i mezzi di famiglia erano davvero limitati. Lui
studiava e lavorava già da piccolo piccolo e la notte d’estate faceva il
garzone sulle barche da pesca dei turisti e questi stronzi colla fiocina e la
lampara riuscivano a infilzare solo le razze che se ne stanno immobili sul
fondo. Toccava a mio padre, Peppino, bimbo d’un pugno d’anni, prendersi la
briga di togliere quelle bestie dall’arpione e, per chi non lo sapesse, le
fottute creature se le tocchi ti ficcano in corpo una scossa mica da ridere. I
turisti invece si sbellicavano di quello schiavetto che saltava e gridava
davanti agli occhi dei loro figli bambini. Per un pugnetto di lire misere. Alla
fine per continuare a studiare gli restavano il seminario e l’esercito e lui ha
scelto la seconda opzione e io guardando il muro crostoso della caserma che
correva parallelo a casa sua mi sono sempre immaginato che con quella scelta
gli era bastato scavalcare e andare da quell’altra parte, non la migliore delle
parti di certo ma quello c’era. Comunque io quella notte sono arrivato di
fronte a quel mare e ho deciso che volevo un figlio. Punto. Poi siamo andati al
porto e in fondo in fondo, dove muoiono le voci e le luci, c’era ancora la
baracca della grattachecca e me ne sono rimasto lì a vedere all’alba le barche
che rientravano e mi sono ricordato delle reti ammucchiate sotto casa di mio
nonno e lui ormai immobile nel letto che bestemmiava perché mia nonna voleva
buttare tutto.
Ritorniamo
a quell’ombra che è uno dei miei primi ricordi d’infanzia. Un caldo tremendo e
io e nonno. Forse l’unica volta che ce ne andiamo in giro da soli. Camminiamo
sulla strada verso il porto. Giorno di mercato. Giriamo per le bancarelle e io
ho sempre avuto una fascinazione per i mercati e a un certo punto ci fermiamo
davanti a uno che vende giocattoli. Ero stato addestrato a non guardarli i
giocattoli. A non desiderarli. Con l’aria che tirava nei conti di casa nemmeno
il desiderio ci si poteva permettere. Nonno parla con il tipo dei giocattoli,
discutono animatamente. Non mi chiede niente. Ripartiamo verso casa. In ordine
di apparizione il mare, la spiaggia, la striscia di asfalto, il sole, l’ombra
di mio nonno resa enorme da quella roba lì che si era caricato sulle spalle. Un
calessino rosso di metallo tutto perfetto e lucido, tirato da un asinello di
gomma con la faccia che rideva e i pedali e le ruote cromate. Non osavo alzare
lo sguardo. Non riuscivo nemmeno a pensarci che quell’attrezzo mi riguardasse.
Nonno continuava a non parlare e con quella forza sua si portò il calessino in
spalla fino a casa senza battere ciglio. Era famoso per la forza nonno. Al
tedesco che faceva lo stronzo lo aveva ficcato nella vetrina del bar nonno.
Aveva fatto le guerre e pure anni da ganzo in America nonno. I fascisti avevano
una santa paura di nonno. Leggeva i libri, tutti i libri del mondo, con la
lente nonno.
Insomma
arriviamo a casa, nonno molla il calesse nel corridoio e dice a mio padre che
quella cosa lì è per me. Nonno e papà si parlavano pochissimo. A me non dice
niente. Sono impazzito. Non osavo nemmeno salirci. Soprattutto non ricordo come
abbiamo fatto a caricare l’aggeggio e a riportarcelo a casa per seicento e
rotti chilometri da emigranti.
Nella
mia stanza il calessino la faceva da padrone, che c’era il letto, un tavolo, il
pallone ancora doveva arrivare, e insomma a livello di arredamento tra casa mia
e il riformatorio non c’era distanza. Però io mangiavo meglio, immagino.
Passano i mesi e quasi ci parlo coll’asinello che ero ancora figlio unico e
fuori c’era freddo e un dialetto difficile e l’asinello sapeva di quell’odore
di alici che stavano nei barattoli sul balcone di nonno.
In
quel tempo avevamo trovato un asilo di lusso, l’unico disponibile e i miei mi
mandavano lì a fiato corto di busta paga. Per natale le maestre convocano tutte
le mamme e i papà, per cui nel caso mio solo la mamma che il papà era
mimetizzato in qualche bosco a fare la guerra fredda. Dice che tutti i bambini
devono portare un loro giocattolo da dare a piccini meno fortunati. Mia mamma,
povera donna che sapeva farci sentire in una favola di sapori e profumi con il
poco che girava in casa, torna a casa e me la immagino che gira per le stanze e
pensa “e ora cosa gli diamo ai bambini poveri”. Ci state arrivando da soli, lo
sento. La mattina mi presento all’asilo con il calessino mio e le briglie erano
state decorate con uno di quei festoni argentati che si mettono sull’albero di
natale. Me lo ricordo che ero paralizzato da dolore. Ne avevamo parlato e non
avevo più fiato e lacrime. Eravamo in una città nuova dove nessuno ci parlava e
dove cercavamo una minima connessione sociale e quella storia dei bambini
poveri rischiava di mandare tutto a rotoli facendoci perdere punti importanti.
Per
giorni sono andato all’asilo e sono rimasto lì a guardare il mio asinello e il
calesse e l’ombra di mio nonno sotto il fottuto albero di natale. Per i bambini
poveri mi ripetevo. Senza osare domandarmi quanto poveri si doveva essere per
essere poveri.
Tutte le notti della mia vita mi sono addormentato con accanto un vecchio coltello con il manico d'osso smozzicato e arrugginito. Quello che nonno si era portato in tasca tutta la vita. Quando me l'ha dato di nascosto non avevo certo l'età per averci una lama ma ho giurato che quella non me l'avrebbero mai portata via. Prova a toccarla se non ci credi.
In un’altra vita di questa stessa vita qui. A
Genova stavamo in galleria con una lunga sequenza di tavoli colmi di libri
scontati da vendere. Pagine fuori catalogo e cataloghi senza giudizio
s’ammassavano in un bailamme che era la vera ricetta vincente della nostra
scommessa commerciale. A dire il vero noi non si rischiava niente che la merce
era di uno che arrivava coi furgoni e certi peruviani da combattimento e
metteva in piedi la fiera del libro a prezzo smezzato e ci lasciava lì un mese,
in una città qualsiasi. Quella volta c’eravamo io, Corrado e un altro che non
lo conosco abbastanza bene da immaginare che abbia ancora piacere a essere
ricordato in quel mestiere che per lui era una parentesi e per noi
un’abitudine. Sta di fatto che dormivamo in una pensione nei vicoli del centro
storico di quelle che se ammazzi gli scarafaggi e li consegni alla signora al
tavolo delle chiavi, che parlare di reception pare brutto e dequalificante, ti
scalano un tot dalla tariffa giornaliera. Alla fine quasi andavamo a guadagnarci
che tornavamo alle cinque della mattina e trovavamo la camera occupata da una
torma kafkiana di scarrafoni. Alle otto e mezza di mattina levavamo i teli dai
tavoli e s’attaccava a vendere. Due, tre ore di sonno addosso e gli anni giusti
per saperle portare e stare lì a dare musica al circo di strada di quei giorni.
Avevamo una sequenza fissa di ospiti abituali, in genere completamente fuori di
senno e se conoscete qualcuno che lavora in libreria vi confermerà che la
pagina attrae il matto oltre ogni ragione plausibile. C’era uno che diceva di
fabbricare pistole a casa sua e ci invitava la sera da lui ma non abbiamo mai
avuto occasione la sera di ricordarci l’indirizzo. La russa enorme con gli
occhiali spessi che era laureata in storia di qualcosa e s’ingozzava di tutti i
pezzi di focaccia che la gente aveva a un certo punto iniziato a portarci.
Senza ragione. Come tutto lì attorno. La russa enorme che una sera si mise a
sedere al tavolo nostro della trattoria e cominciò a gridare insultandomi e era
uguale alla tipa di dancer in the dark ma più grassa e più triste e mi diceva
qualcosa di infervorato che passava da una mia idea sbagliata si Hegel e io
m’ero limitato a ordinare un bicchiere di qualcosa senza chiederle se ne voleva
uno anche lei. Del resto quella era una amicizia privilegiata di Corrado e non
volevo sovrappormi. Di mio avevo una pattuglia di ragazzini marocchini che
vendevano le rose in giro e che facevano pausa da noi al bar e ci bevevamo il
tè freddo e si parlava del sugopronto che erano dei barattoli che tu vai a casa
e anche se tua madre è dall’altra parte del mondo e tu hai undici anni ti
attrezzi col fornellino e mangi una cosa proprio buona. All’inizio offrivo
sempre io che a dire il vero offriva il boss ma lui non lo sapeva. Poi i
ragazzini hanno cominciato la sera, quando tiravamo i teli sui libri, ad
arrivare coi dolci di miele e certi biscotti al cioccolato e si chiudeva la
giornata di lavoro insieme. Oltre a loro arrivavano altri che avevamo
raccattato nei vicoli e ora uno è un comico famoso e alla televisione fa la
torta di riso e si chiama Andrea Ceccon con la fidanzata che ci portarono una
sera a casa loro a mangiare la trippa. Poi c’era Gigi Picetti che aveva un
locale che era casa nostra in quei giorni e quando me ne sono andato m’ha
ficcato nello zaino, lo stesso che ho adesso per la santa coerenza, una paccata
di vecchi Urania. Il socio di Gigi aveva una scacchiera e giocava da solo e
Corrado tutte le sere gli spostava un alfiere o un cavallo ma lui continuava
non se ne dava per inteso. Poi c’era una donna mora di cui non ricordo il nome,
che da giovane aveva avuto una carriera di canzoni e che cantava sempre quella
cazzo di canzone del Che.. tu mano gloriosa y fuerte… tutte le sante sere. La
mattina arrivava anche una donna sulla quarantina e noi verso le undici si era
già a far di scherma coi gin tonici e mi afferrava il braccio e diceva che lei
aveva i poteri per curare e mi teneva stretto e diceva “lo senti il calore che
trasmetto”. Poi c’erano quelli che volevano parlare di libri e lì io e Corrado
si gioca in casa ma ci piaceva inventare certe trame più belle di quelle
ficcate in quelle pagine con lo sconto. Il migliore però era un algerinio
nichilista che stava delle ore a parlare con noi di filosofia e politica e
vecchie moto e che a pranzo si mangiava i panini con la mortadella con noi e i
ragazzini delle rose passavano e lo guardavano come fosse il demonio e una sera
due me l’hanno detto di starci attento che se io mangio maiale vabbè ma se lo
fa un arabo dev’essere matto sul serio. Ce ne ho messo del mio per rassicurarli
che non ero in pericolo. Del resto io mi riprometto sempre di starmene
finalmente buono buono e poi succedono le cose e mi infilo nei guai a piedi
pari e un’altra sera a quello stronzo che aveva tirato un calcio gratis a uno
dei ragazzini delle rose gli ho spiegato la maledizione della vita. Poi sono
arrivati quelli colla giacca giusta e io a cantargli “lo so che in fondo vieni
dalle capre per imparare questo bel mestiere, però se almeno prima eri pastore
adesso sei ridotto a fare il cane”. Come se nulla fosse. Di nuovo nei soliti
guai nostri. E di nuovo fratelli che diventavano fratelli lì in mezzo alla
strada che è terra nostra e terra di nessuno. Noi prendevamo una percentuale
sugli incassi e ogni sera la toglievamo dal mucchio e lasciavamo quasi tutta la
parte spettante al boss da un’altra parte. Poi si andava a cena col disavanzo e
si cenava in parecchi in riva al porto che poi il cuoco ci portò che era quasi
l’alba a casa sua e aveva una nicchia tutta dedicata al duce e noi si bevve con
lui gli ultimi giri senza differenze e senza rancori, che aveva un mobile bar
caricato a sogno proprio di fronte all’altare fascista e noi si beveva dando le
spalle. La notte nei vicoli i topi enormi ti fissavano senza spostarsi e noi
per entrare alla pensione dovevamo suonare perché la signora si rifiutava di
darci le chiavi. L’ulttima mattina dovevamo smontare tutto. Vado al bar a fare
colazione e non trovo più i soldi, tutta la mesata di soldi. Torno alla pensione
e faccio un casino. Ammetto di aver sfondato la porta della camera a calci
insieme a Corrado, ammetto di aver creato un certo disordine. Niente soldi. Li
ho maledetti tutti. Per strada ho incontrato due dei ragazzi delle rose e gli
ho raccontato la mia storia, l’ultima storia perché sapevamo già che non ci
saremmo più rivisti e tra gente di passo non è un grosso problema. Uno dei due
ragazzi m’ha guardato e s’è messo a piangere per me. Poi ho guidato il camion
tutta la notte e siamo tornati in veneto a scaricare i libri restanti e i
tavoli. La sera ero di nuovo a casa e raccontavo a Ste dello sbalestrato che
aveva un occhio solo perché l’altro l’aveva perso facendo un numero di tiro a
segno nelle televisioni private con la balestra e raccontavo del pesce spada
buonissimo e poi ho aperto lo zaino e uno degli Urania è caduto a terra e
dentro ci avevo nascosto i miei soldi e me ne ero dimenticato. Poi s’è fatto
l’amore parecchio che me l’ero sognato tutti quei giorni lì. Perché così vanno
le cose. Vanno e basta. Dove sono tutti ora. Io son qui a suonare sempre la ballata dell'assenza.
Fatti e persone di questa storia son frutto
della fantasia. Ti conviene crederci.
Giorgio Olmoti, dopo pranzo nell'afa di agosto, Udine, 2012
Un'amica una volta mi disse che ad andare al cinema con me si provava un velo di imbarazzo perchè sembrava che in sala tutti guardassero lo schermo e io continuassi a guardare la gente. Un maledetto vizio che m'ha portato a interessarmi più alle cucine che alla sala pranzo, ai camerini piuttosto che alla ribalta. Ogni volta che incappo in un "tempo tecnico", un inciampo nella natura umana che la governa, di una qualche macchina narrativa, mi incuriosisco e m'affascino. Il re è nudo e dio non esiste, e non esiste il racconto ufficiale, rimangono le frasi di strada e una memoria collettiva nutrita di invenzioni e dolore e risate senza nessun artificio che le renda immortali. Uscivo da una trattoria dove avevo trovato rifugio al maledetto caldo di questo agosto barricandomi dietro una birra ghiacciata e mi sono imbattuto in questa scena. Quando si dice una giornata al calor bianco
Carlo Naya, nato a Tronzano Vercellese nel 1816 e morto nel
1882 a Venezia, lega alla città lagunare la sua fama di fotografo. In realtà
compì i suoi studi universitari a Pisa e viaggiò molto in Italia e all’estero
ma è effettivamente a Venezia che la sua attività di fotografo ebbe chiaro
compimento professionale. Normalmente dedicato al racconto della città secondo
uno schema narrativo riconducibile all’esperienza dei vedutisti, subisce il
fascino del fermento che si muove tra le vie strette della città che i suoi
magnifici scorci non sanno certo raccontare. Nella sua produzione affiorano
dunque reperti di quella che oggi chiamiamo foto sociale, racconti di marginalità,
di piccoli commerci di sussistenza. Una foto notissima, risalente al 1865 e
che, colorata, ritroviamo anche nel catalogo di Giorgio Sommer è quella dello
scrivano e traduttore di piazza. Realizzata a Napoli questa immagine è una
sintesi efficacissima del suo tempo. Siamo agli albori dell’unità d’Italia e il
meccanismo di costruzione dell’identità nazionale è ancora lungi dall’essere avviato
secondo la strategia che prevede l’attivazione di percorsi scolastici minimi
estesi a ampie fasce della popolazione, così da poter costruire una lingua
condivisa sulla babele di altre lingue e dialetti che suonano avverse al
concetto stesso di unità. Il grado di scolarizzazione in quello che fino a
pochi anni prima era il dominio borbonico era piuttosto basso e per leggere le
lettere, per scriverle alle persone care che s’erano avviate verso i flussi
migratori, toccava chiedere aiuto a persone istruite. Lo stesso valeva per la
gestione burocratica della propria vita, documenti, ingiunzioni, chiamate alla
leva, tutto quel sistema complesso che oltre la scolarzzazione puntava alla
costruzione a tappe forzate di un identità condivisa. Nei vicoli napoletani
Carlo Naya fotografa dunque questo scrivano e traduttore ambulante mentre offre
i suoi servizi professionali a una donna. Il personaggio ha un aspetto strano,
marca la sua immagine di studioso ponendo l’accento anche sui modi e l’aspetto
secondo una divertente strategia di marketing. La donna, nella posa cercata
dall’artista, guarda allo scrivano come al maestro di porta di un mondo
misterioso e irragiungibile.
Sembrano memorie di un tempo lontano.
A Torino quando il tempo è
propizio un ragazzo tunisino sposta il suo ufficio all’aperto e riceve i suoi
clienti. Permessi di soggiorno, curricula, libretti di lavoro. C’è una piccola
fila ordinata in attesa nel tardo pomeriggio e c’è un vassoietto con i biscotti
per ingannarel’ansia. Guardandolo mi sono ricordato di Carlo Naya e del mio
rifiuto di pensare “le immagini di un tempo” preferendo piuttosto pensare che
le immagini hanno tutto il tempo che vogliono. Con buona pace di quelli che non
seppero spiegarsi a suo tempo perché il mio racconto per immagini dei giorni
del boom economico passasse dai vicoli delle città percorsi dall’acquaiolo e dall’impagliatore
di fiaschi. Le fabbriche c’erano, certo che c’erano, perché i racconti valgono
tutti. Tutti appunto. E questo me lo son fatto scrivere da un signore alla fermata
del tram. Per pochi spiccioli in cambio. Tenetene il debito conto.
Giorgio Olmoti, Scrivano e traduttore, Torino, 2012
Una
domenica se ne stava seduto fuori, con la birra a scaldarsi tra le
dita "ma io ci sono abituato, che in Africa la birra la tiri
fuori del frigo e già puoi cuocerci la pasta tanto bolle e...".
Ancora occhi al cielo. Con la coda dell'occhio percepì un movimento.
Dal vicolo. Si voltò e lo vide. Un cazzo di volpino spellacchiato
con le occhiaie. Con addosso, ficcato nel pelo, l’odore di pizzelle
fritte e brodo di polpo. Juri allungò la mano e lo accarezzò. Col
sorriso. L'altro era venuto fin lì per lui. Era l'ultimo della
grande famiglia di volpini che anni prima s'era accanito a sterminare
con distrazione. Il cane alzò la zampina. Come per grattarsi. Si
sentì un rumore di zip. Da sotto alla pancia spuntò una Fox calibro
22, canna cortissima. Gli sparò due colpi in pancia. La birra cadde
e Juri rotolò giù dalla sedia del bar. Prima di andarsene il cane
alzò la zampa e gli pisciò sulla schiena. Mentre rantolava riuscì
ancora ad assicurare che non era niente e che in Africa tutti i
giorni gli sparavano nella pancia. Quelli che alzarono gli occhi al
cielo lo videro già lì. In strada rimase la Guzzi e l'adesivo del
Camping Gabugo. Luccicante come appena attaccato.
L'arrivo
in Paradiso non è cosa da poco. Le anime si beccano una maledetta
attesa e poi via, quattordici ore di volo. Nel viaggio la gente beve
e mangia dei tramezzini di maionese e carne strana. Volpino pensò
Juri, che ancora sorrideva all'idea di come s'era fatto fregare da
quel rognoso cagnetto pistolero. Certe anime, dall'accento sembravano
argentini, passavano il tempo a chiedere del cibo, delle croste di
pane, di lebbra, qualsiasi cosa. L'angelo stuart gli tirava i
croccantini del cane. Alle anime gli viene un pelo lucidissimo.
L'anima di un sordo si sparava la musica a palla nelle cuffiette e
non sentiva nulla, che era morto mica miracolato. Un cieco, per
buggerarlo, guardava un film col dvd portatile e sorrideva. Juri se
ne stava tranquillo, col bicchiere di Cabernet sospeso tra due dita.
A ogni sorso vedeva il rosso che scorreva giù fino alla pancia,
attraverso l'anima trasparente e poi fino a terra. Il pavimento era
una merda. Una vecchia si sentì male ma nessuno la soccorse. Tanto
morire non si poteva più. La ragazza accanto a Juri si masturbava da
due ore con un barattolo di yogurt da mezzo chilo. Per fare l’amore
con il sapore. In bagno c'era uno che s’inchiappettava l'angelo
stuart. E non era neppure arabo. In businnes class viaggiano le anime
dei volpini morti. "Mi dovrebbero solo ringraziare di avergli
fatto il biglietto". Un tipo nell'altra fila sospirava.
"Qualcosa non va?" chiese lui, che si sentiva scemo
considerando che a uno appena morto non sono domande da farsi.
"Cazzo, sono morto e non ho mai visto gli elefanti dal vero".
Lui lo guardò stupito. L'altro lo scambiò per un arabo ammiccante e
gli sparò un cartone in faccia. In pieno viso. Cazzo, se il volo era
per il Paradiso, c’era da chiedersi com’è che si andava
all’inferno. "A ognuno è assegnata una Moto Guzzi"
rispose al suo pensiero lo stuart sorridente.
All'atterraggio
la situazione era ormai precipitata. Il pilota si faceva la ceretta
alle gambe e aveva affidato i comandi a due volpini rosso amaranto,
variante rara del volpino giallo volpino. L'hostess portava vino a
tutti, cani e morti. Al momento di allacciarsi le cinture la
sorpresa. Le suddette non c'erano più. Tutti si voltarono verso gli
argentini, che sorrisero imbarazzati. Le avevano mangiate loro.
Bastardi. I passeggeri furono fissati al sedile con delle gomme
masticate in fretta dal personale di bordo. Per i volpini in businnes
class si agì con fretta e approssimazione, alla faccia dell'esborso,
e li appiccicarono allo schienale con i fogli collosi, che servivano
al pilota per farsi la ceretta. Juri non si perse d'animo, si legò
al suo posto con la cintura di pitone e cinse la vicina col braccio
porco. "stai tranquilla" le soffiò nell'orecchio "a
te penso io". Lei aveva smesso di cosarsi col barattolo dello
yogurt ma non trovava più il cucchiaino e si frugava con insistenza.
"Lo cerchiamo dopo, con calma" fece lui con l'occhio a
milleunanotte "ora reggiti a me". Porca puttana. Lei si
resse a lui ma quella non era propriamente una maniglia. Lui sorrise
disinvolto ma dentro, nell'anima, soffriva e sudava. L'aereo prese
terra, lei strinse e lui perse i sensi. Quando rinvenne lei se ne
stava andando via con quell'altro, che le raccontava di quando era
andato a vedere gli elefanti dal vero. Cacciaballe. Sulla scaletta
c'era una lunga fila di maialini rosa che a bordo non aveva notato.
Guardò meglio. Erano i volpini che avevano abbandonato le pellicce
sul sedile. Sui fogli della ceretta. Si infilò la mano in tasca e lo
trovò. Il benedetto cucchiaino.
Li
ammucchiarono in una sala col pavimento in linoleum che imitava il
cotto fiorentino. Angeli in divisa passavano colla gamba veloce, le
ali solo per figura, con fogli in mano e fretta da fax imminente. Un
angelo mototaxi se ne stava appoggiato a una colonna da parecchio. Li
fissava. Dall'altoparlante una voce impartiva ordini in mille lingue,
a lui tutte sconosciute. "Ben arrivati allo scalo di Paradiso. I
signori passeggeri sono pregati di passare al controllo anime prima
di accedere alla sala ristoro". Questa era nella sua lingua. Poi
in spagnolo. Gli argentini si precipitarono verso il corridoio che
portava al controllo. Col miraggio del ristoro. Se ne andarono in
blocco, vocianti, lasciando scoperto un pezzo di pavimento col
linoleum tutto morsicato. Mentre correvano uno si fermò e si chinò
a fare una carezza a un volpino spellicciato. Che ricambiò muovendo
la codina. Fu un attimo e l'argentino si ficcò il botolo in bocca.
Tutto d'un boccone. La coda rimase fuori e continuò a muoversi. Poi
sparirono alla vista.
Juri se la
prese comoda. Vide una poltroncina libera e si lasciò sprofondare.
Il verso strozzato era quello tipico del volpino schiacciato. Lo
conosceva bene. Si rialzò e il cagnetto era lì, che muoveva la
coda. Juri gli tirò una sberla e lo sbattè giù. E quello
continuava a guardarlo e a muovere la coda. Lo schiacciò col tacco
del campero pitonato e quando rialzò il piede quello era ancora lì.
E sempre agitava la coda. Porca troia, pensò Juri, siamo già morti
e quindi in 'sto cazzo di posto i volpini non possono più crepare.
Ma almeno che stiano alla larga. Calcio di punta e il volpino volò
attraverso la sala. In una frazione di secondo un angelo vestito da
Elvis si materializzò davanti a lui. "Ha inavvertitamente
calciato il suo volpino". "Mio volpino"."Già,
come crede di poter tirare avanti in Paradiso senza un volpino da
amare".
Come
sarebbe a dire un volpino da amare. Forse Juri aveva capito male e il
tipo intendeva un volpino da mare. Guardò il botolo scodinzoloso e
cispo che gli saltellava tra i piedi. Già. Un volpino da mare. Gli
si ficca un tubo nel sedere e s’immette aria a mille atmosfere e
quando il volpino è bello gonfio ci si va in spiaggia a
pavoneggiarsi nell'acqua col galleggiante peloso. E sai che successo
con le straniere statuarie che affollano le spiagge di questo posto.
Tutte generose, altrimenti che cazzo di Paradiso è. "Prego,
tocca al suo gruppo. Avviatevi verso il comparto 62". Il gruppo
di chi? Ma lui era arrivato da solo. Non intenderanno quella masnada
d’apocalittici che avevano volato con lui. E poi gli argentini
erano già andati. E mentre pensava, Juri era già al comparto 62.
Intruppato con certi altri mai visti prima, tutti col volpino
regolarmente tra i piedi. Una donna grassa, avvezza già in vita, il
suo lo teneva in braccio. "I signori sono pregati di accomodarsi
e di attendere il loro turno". Ma per cosa?
Le
poltroncine rosse attendevano il calco delle loro chiappe timorose.
Con rassegnazione di mestiere.
E
quando il suo nome echeggiò nella sala, con l'altoparlante che
piegava in leggerissimo larsen, sempre una ferita per il suo orecchio
viziato da certe chitarre sopraffine, quasi non ci credeva. Non il
nome di comodo che quel “Luca Rambo” in paradiso non se lo
bevevano, ma proprio quello vero, cui non era quasi più avvezzo.
Cercavano proprio l’originale. Chiamando a gran voce. Come
all'anagrafe, come dal salumiere, in ragione di turno e pazienza. In
fila per il paradiso. Si alzò e anche il volpino, il suo volpino, si
riscosse con lui. Quel gesto sincrono gli procurò uno strano
piacere, una fitta di nostalgia. Prima fischiò e poi se ne rese
conto. Il volpino zampettò dietro di lui, brontolando un ringhio di
possesso agli altri botoli che, tra le gambe dei loro assegnatari, lo
guardavano rispondere al richiamo che era già infinita confidenza.
Un angelo con la felpa verde bottiglia gli sorrise e gli fece un
cenno. Andiamo a vedere cosa cazzo vogliono da me, si disse Juri.
Pentendosi subito d'aver pensato cazzo in Paradiso. Poi sorrise
pensando che il cazzo era stato la sua penisola breve nel mare più
prossimo al paradiso quando era in vita. "Venga, non abbia
paura". Ogni volta che uno gli diceva "poverino" o
"non aver paura" a lui montava una rabbia sorda. Da quando
era piccolo ed era poverino e pieno di paura. "Fottiti angelo
dei miei coglioni". L'altro sorrise e fece per accarezzarlo.
Scansò con una finta di corpo e piantò gli occhi negli occhi del
cazzo d’angelo. A monito. Rifallo e ti piscio in tasca. Il volpino
scoprì i denti. L'angelo, che doveva essere un modello difettoso,
gli allungò un calcio. Se è vero che un angelo non muore mai a
quello lì gli diedero parecchi giorni di mutua. Lo portarono via
reggendolo dalle ali, la felpa sporca di miele d'acacia, che è in
pratica lo stucchevole sangue degli angeli. "Lascia stare i
vecchi animali della strada e non sfiorare nemmeno coi pensieri i
loro volpini" gli soffiò nell'orecchio Juri. Prima di
staccarglielo con un morso. L'orecchio d'angelo ha un sapore di petto
di pollo e i capelli d'angelo già li aveva mangiati con la minestra
da piccolo.
"Ho
riconosciuto la citazione dal film. Lascia stare i vecchi animali.
Carino. Credo che la sua pratica sarà da rivedere". A parlare
era un altro angelo, più alto e con la cravatta. Per un colpo allo
sterno concavo di un angelo, ficcato col gomito, basta una frazione
di secondo. Già fatto.
Ovvero
della totale impunità. Così si immaginava già il sottotitolo di
una storia che titolo non ne aveva e nemmeno penne per scriverla, che
il Paradiso non ne è provvisto. A saperlo si sarebbe portato le sue
e qualche boccetta d'inchiostro. Oppure solo la china e per scrivere
avrebbe strappato penne alle ali degli angeli, che lì erano come i
vigili urbani e per questo gli stavano pesantemente sui coglioni. Per
conferma, bastava buttare un occhio all'angelo bancario con cravatta
che rantolava ai suoi piedi. Dell'impunità dicevamo. Appena
piantato, di simpatia, il gomito nella leggera consistenza
dell'angelo capì due cose: primo gli angeli pesano poco e li sbatti
giù con una certa facilità e hai pure l'illusione di sentirti Bruce
Lee, secondo in Paradiso sono tutti buoni, lui era lì per un
disguido, e più che rimbrottarlo dolcemente non potevano. Cominciò
a saltare per la sala come faceva nei bar quando s'era bevuto pure il
sudore della madonna dopo l'annunciazione. "Aiemabaicher"
gridava e si cercava il coltello col manico d'ulivo nella tasca. E
infatti era lì. Le teste di cazzo non l'avevano nemmeno perquisito.
Cercò di sfidare un tizio a una gara di flessioni ma il tipo
scuoteva la testa e sorrideva dolcemente. Uno buono davvero. E lui in
vita aveva avuto contatto con un solo tipo di buoni: i buoni pasto.
Saltò sul bancone del centralino e cominciò a fare gesti osceni,
scuotendosi forte il pacco a due mani. Si sentì un plin plon come i
segnali di attenzione delle stazioni e si aprì una tenda. Ne uscì
una tipa vestita come un sogno erotico motaro, tutta di pelle sua e
pelle di giubbotto e giarrettiere e la benedetta aquila guzzara
tatuata su una tetta quasi tutta scoperta. "Ciao" disse
lei. Lui saltò giù e corse a guardare se aveva le ali e era il
trucco becero dell'angelo travesto. Niente ali ma un culo con due
chiappe disegnate col CAD, che per guardarle toccava averci gli
occhiali da sole. "Il capo ti vuole parlare. Seguimi".
Tanto il coltello l’aveva. Andò.
Il
corridoio era buio e l'unica luce era quella emanata dalle chiappe
della tipa. Davvero. I loro passi, sul pavimento in lastre di marmo,
rimbombavano come se sotto fosse vuoto. Uguale a quando da ragazzino
correva a piedi nudi per i venti metri quadri del suo appartamento,
per la gioia di quelli del piano inferiore. Spesso alle sei del
mattino, che quando sei piccolo non c'è tempo da perdere. Arrivarono
in una sorta di stanza d'attesa. Sul soffitto, volte a vela. Sedie
coperte da velluto giallo appoggiate alle pareti. Al centro un
tavolino con ammucchiate sopra riviste diverse. Le stesse di quando
vai dal dottore. Per tutti i gusti e mai nulla che t’interessi
davvero, che le sfogli e pensi che se devi affidare la tua salute ad
uno che legge quella roba sei fottuto. Alle pareti un enorme tela
raffigurante una scena di caccia o roba simile. Non ci prestò molta
attenzione all'inizio. Poi, visto che la tipa l'aveva fatto sedere,
era sparita dietro una porta e nessuno veniva a chiamarlo, cominciò
a guardarsi in giro. Come al cesso, che, se non aveva niente da
leggere, non ci riusciva e alle brutte si passava tutte le etichette
dei vari flaconi sparsi e una volta si sparò pure l'opuscolo dei
testimoni di geova. Lo sguardo di Juri si posò di nuovo sulla tela.
Al centro una tigre con la zanna in bell’evidenza e su di lei si
avventavano certi volpini fieri, che sembrava che nel frangente
avessero pure la meglio. Minchia. Si ricordò e guardò in terra. Il
suo volpino se ne stava lì, sotto la sedia. Appena si sentì
osservato, drizzò le orecchie e mosse la coda. Guardandolo con
l'occhio da volpino complice. Non si era mai allontanato da lui e,
ora che ci ripensava, quando lui aveva fatto il diavolo a quattro
nella sala, il botolo l'aveva spalleggiato e s'era dato da fare
abbaiando con quella voce stridula e insistente che è tipica della
razza. A questo punto era chiaro che il volpino stava dalla sua parte
ma non era da escludersi il doppio gioco. Doveva stare in guardia con
quelle bestie lì.
"Vieni
pure" disse la tipa. Juri sperò di aver capito bene. La luce
tremula e violacea delle chiappe si trasformò in un lampeggio rosso.
"Mi scusi ma questi pensieri non sono consentiti". "Quali
pensieri?" chiese lui, che s'era fatto rosso a sua volta ma
senza lampeggiare, che ci vuol tecnica. "Mi ha capito
benissimo". Già, come se Juri non avesse sgamato che lì non
avevano modo di fermarlo. Perso per perso. Planò sulla schiena della
tentazione di carne e finirono sul tappeto a volpini geometrici.
Sotto lei non aveva niente. Già, per quanto Juri spingesse e
premesse, lei era liscia e priva d'accesso anche minimo. Giocando la
panchina, lui aveva tentato un adatto tra le chiappe. Si tirò su con
la faccia delusa. Lei non aveva smesso di sorridere. E continuò
anche mentre gli faceva il pompino. Tutta quella bontà lo stava
uccidendo. Poi lei si rimise in piedi e pescò un pacchetto di
sigarette che teneva nascosto nella scollatura. "Fumi?".
"No". Il volpino abbaiò e lei gli allungò la cicca.
L'altro si frugò nel pelo del sottopancia e tirò fuori un
accendino. Juri si ricordò che, allo stesso modo, quell'altro
bastardo cisposo l'aveva freddato davanti al bar.Cazzo,
pensò, era ovvio che, se mi assegnavano un volpino, il mio doveva
essere uno sbandato. Cominciava a fargli simpatia. Il volpino
scaracchiò e tirò uno sputazzo sul muro.
L'angela/o
si avviò verso la porta sul fondo, facendo cenno di seguirla/o. Lui
si riabbottonò. Come sull'aereo s'era visto il vino scendergli giù
per la trasparenza dell'anima ora s'era goduto lo spettacolo del suo
cazzo opalino in azione. Gli scappava da ridere a pensarci. Che a
dire il vero le mani, la faccia e tutto il resto mantenevano una loro
consistenza lattiginosa, un pallore accentuato su una carne in pasta
vitrea. Dio bono. Era lui ma confezionato con quei plexiglas delle
lavagne luminose, quelle per guardare le dia. Da vivo aveva
fotografato degli opali e, a seconda di com’erano attraversati
dalla luce, cambiavano colore. Fotografarli rendendo giustizia era
stata un'impresa. Ora anche lui si ritrovava a cambiare i riflessi,
sensibile alle fonti luminose e trasparente come può esserlo un
sacchetto del supermercato. Poteva ben dire di averci un cristallo di
boemia tra le gambe. Ridacchiò. L'altra si voltò e sorrise a sua
volta. Cazzo, è vero, quella gli leggeva i pensieri. Il volpino tirò
una scoreggia significativa. "Vabbè che ognuno ha quel che si
merita ma 'sto volpino che mi avete assegnato è proprio una
chiavica". Il cane scodinzolò e ansimò festoso. Come fanno i
volpini che vogliono essere simpatici. "Ma va a cagare"
disse lui. "Fottiti" rispose il volpino. Basito. "Ma
tu parli". Il cane starnutì e tossì, che quasi si strozzava.
Doveva essergli costata fatica quella prova.
Appena
l'angelo/a appoggiò la mano sulla porta, che aveva lo stipite dorato
giusto per stare in tema con lo stile carico della sala, le chiappe
gli/le si spensero. "Fai silenzio adesso e parla solo quando ti
sarà richiesto". "Dillo al cane piuttosto" rispose
lui, indicando il volpino. Entrarono in una sala buia, rischiarata
appena da certe lampadine verdi, lungo il muro. "Non ci posso
credere, le lucine che mi lasciavano accese in camera quando ero
piccolo". "Ti avevo detto di stare zitto". Dicendo
così l'angelo/a si girò e gli tirò un pugno nella bocca dello
stomaco. Lui si piegò con un verso strozzato. "Vacci piano"
gorgogliò il volpino "lo vuoi ammazzare". "Stai zitto
che ne ho anche per te". Il cane abbassò le orecchie e
tossicchiò, sempre per lo sforzo che gli costavano le parole ma
anche per l'imbarazzo. Cazzo, la musica era cambiata. Pareva che lui
e il volpino si fossero giocati l'impunità. "Ve lo dico per
l'ultima volta". Allora erano proprio le lucine di quando sua
madre veniva nella stanza e minacciava Juri e il fratello col "non
voglio sentire volare una mosca" e lui, che pure lo sapeva
quanto l'avrebbe pagata cara, non riusciva a trattenersi e lasciava
partire nell'oscurità un lungo e intenso "ZZZZZZZZZZZZZZ".
Come la mosca. Interrotto dalle sberle ogni volta. E ogni volta lo
rifaceva. E suo fratello a ripetergli che era troppo scemo. E lui a
pensare che l'onore delle mosche era salvo. E lo fece.
"ZZZZZZZZZZZZZZ". L'angelo/a si girò e aveva la faccia
incazzata davvero. Partì con un calcio al volto ma stavolta lui era
pronto e si giocava il carico intero di tutte quelle altre sberle di
quando era piccolo. Era motivato insomma. Si piegò di lato e affondò
a sua volta col pugno ficcato nelle palle. Che stavolta stavano lì,
al loro posto. Miracoli del Paradiso, cambi stanza e ti spunta
l'uccello. L'angelo si piegò e lui gli caricò una mazzata a due
mani sulla nuca. L'altro stramazzò a terra. O adesso o mai più. Gli
alzò il gonnellino e tra le cosce c'era un'inequivocabile fica. 'Sto
cazzo di sesso degli angeli era davvero un problema. Avrebbe potuto
giurare che prima aveva colpito un bel groppolone di palle e stecca e
ora…quasi, quasi. Non fosse stato fresco di pompino una botta
gliela dava. Anzi, ora che ci pensava…. Il volpino, a uso di quella
razza lì, si aggrappò alla gamba dell'angela e cominciò a simulare
l'amplesso. "Sarei curioso di vedere il tuo pedigree" disse
lui, guardando il cane con disgusto. Tra le cosce dell'angela era
rispuntato l'uccello. Ma nessuno ci badò più di tanto.
"Non
ti sembra di andarci troppo pesante?", chiese la voce. Lui si
guardò attorno. Cercava gli altoparlanti o roba simile. "Mi sei
simpatico, forse proprio per certe tue reazioni, ma dovresti
moderarti un po'". "Ma chi cazzo sei?". "Ogni
cosa a suo tempo. Segui l'angelo guida". Si girò. L'angelo/a
s'era rimesso in piedi e lo guardava sorridendo. Alla faccia di tutte
le mazzate che s'era portato a casa. "Andiamo" disse con la
voce ferma, indicando col dito sottile una delle porte. Passarono
oltre, in una sala poco illuminata. Distinse le note di Sultan of
swing. A volume insinuante. Odore di fumo. Nel senso di canne.
Per terra un casino di lattine, giornali e confezioni vuote di cibi
sintetici. In fondo alla sala un mucchio di televisori accesi, messi
uno sull'altro. Alla rinfusa. Col volume al minimo. E colori e
bianco e nero. E tutto quell'odore di canne al vento. Da ogni schermo
un film o uno spettacolo diverso. Da un megaschermo, di quelli da
partita dei mondiali in piazza duomo, si vedeva una nota
presentatrice di documentari sugli animali che teneva in grembo un
volpino. Era nuda e il pelo biondo della passera si confondeva con
quello del cagnolo. E lei sorrideva, guardando gli spettatori, quei
milioni di pupille dilatate, dritto negli occhi e pareva agitarsi
parecchio, colla lingua che guizzava agli angoli della bocca e il
sedere che strofinava i cuscini pervinca della poltrona. Dietro di
lei, sul palco, Jimi Hendrix, doveva essere un sosia pensò lui, che
ci dava dentro con Foxy Lady e risultava pure bravino. Quasi come
quello vero. "E' quello vero" disse la voce. Lui si girò
di scatto per trovarsi davanti a una tenda di velluto nero. "Con
quello che mi è costato averlo nel mio paradiso, ci mancava pure che
non suonasse come si deve". "Ma chi cazzo sei". "Tu,
come potrai intuire, non mi sei costato molto. Uno di quei lotti che
ti vendono i trafficanti d'anime da strada, roba tagliata male, con
una decina di vecchi barbogi mischiati a certe anime gaglioffe messe
lì a far peso. Gli altri, i titolari degli altri paradisi intendo,
si fanno tentare raramente, che poi a rimettere ordine ci vuole il
suo tempo, ma, visto e considerato che il rischio di beccarsi proprio
i peccatori veri, gli assassini matricolati, i proprietari di reti
televisive, i dittatori cannibali, è decisamente basso, quella è
merce ambitissima ai piani inferiori, io qualche pacchetto tutto
compreso me lo faccio rifilare di tanto in tanto. Non ci crederai ma
lo trovo divertente. Quando smistano gli arrivi mi diletto a
individuare i difettati, quelle anime che non sono mai state grandi
in niente ma nemmeno si sono distinte giocando nella nazionale del
male. Te ti si sgama subito, caro mio. Avrei potuto dare un occhio
alla tua esistenza e la cosa non mi riesce complicata da quando
faccio il salvataggio dati. Prima, ai tempi di Miracle 3.1 per
intenderci, era un casino. Toccava affidarsi alle mie stanche meningi
o a certi appunti che prendono le segretarie angelo ma…". Una
suoneria, una di quelle trillanti che partono al cinema, nel buio
della sala, o in treno, negli scompartimenti addormentati. "Scusa
un attimo" disse la voce. A fissare la tenda nera c'era poco
guadagno da aggiungere allo stupore che a Juri correva in circolo a
tutta pressione. Guardò di lato e vide il volpino. Aveva un joystick
tra le zampe. Juri si voltò col riflesso condizionato, tipico di chi
il diploma se l’era preso alla sala giochi Automatic di via
Cividale, verso lo schermo. La bionda nuda lottava contro il Jimi
Hendrix. Lei lanciava dei raggi fotonici dalle tette e lui rispondeva
con certi bemolle e diesis che partivano dall'amplificatore a raffica
e distorti a morte. "Se vince lui se la chiava" rugnò
basso il cane. "E se perde?" "Se lo chiava lei".
Per forza, se la sua non era un'anima veramente pura, anche il
volpino assegnato doveva essere di scarto. Magari gli altri parlavano
fluenti e senza tutto quello sforzo e non si sognavano nemmeno di far
accoppiare col videogioco una presentatrice di documentari, la sua
preferita, e un chitarrista, il suo preferito. Dall'altra parte della
tenda si sentiva gridare. Ma in una lingua sconosciuta. "Mi
piace venire qui a giocare" il volpino prendeva confidenza colle
parole "con questo schermo si vede da dio" e scoppiò in
una serie di singhiozzi che gli fecero cadere il joystick di mano. Il
mentecatto volpino stava ridendo, pensò lui. Poi il cane s'accorse
che nel gioco le mazzate continuavano anche da sole, afferrò il
joystick ma ormai la bionda stava sferrando un ultimo fatale colpo di
clitoride laser al chitarruto che pure, nel tentativo di parare,
aveva usato la sua Stratocaster come scudo. E la chitarra prese fuoco
e le dita presero fuoco e tutto fu cenere. La bionda fece segno di
vittoria con le due dita, poi ne ritrasse una e col dito rimasto
alzato rese palese che di lì a poco si sarebbe apprestata a
riscuotere il suo premio.
"Spegni
quella porcheria" tuonò la voce dietro di loro. Press the green
button. Game over. Il volpino aveva abbassato le orecchie. Tutta la
sua aria da volpinastro vissuto era sparita in un lampo. Il tipo
dietro la tenda doveva averci il suo carisma. La tenda si mosse,
dietro stava avvenendo qualcosa di convulso. “Come cazzo funziona
qui… mai una volta… Angela, Angelaaaa. Possibile che qui non
funzioni mai un cazzo di niente. E io continuo a firmare spese di
manutenzione”. “Lasci fare a me”. La voce era quella suadente
della tipa/o che lo aveva accompagnato fin lì. Ora che ci pensava,
mentre il volpino si accaniva col videogioco e l’altro dietro la
tenda cercava di dargli ragione della sua condizione attuale,
l’angela era sparita. Si sentì un cigolio e la tenda pesante si
scostò. Come un sipario. Si capiva che tutto era preparato per
stupire. Un occhio di bue si accese ronzando sul soffitto. “Eccomi
a te” sentì dire. E non distinse niente che non fosse un pezzo di
pavimento d’assi. Polveroso quanto basta. “Luceeehh” la voce
aveva preso una piega decisamente isterica. L’occhio di bue si
mosse e non sembrava troppo convinto di quale fosse il suo compito.
Poi, tremulo, si piantò sulla poltrona vuota. “Aspetta, ho
dimenticato il piviale… spegni… si va bene, a ‘sto punto tanto
vale che mi metto in mutande e ci faccio una figura migliore.
Richiudi quella cazzo di tenda. Mai una volta che riusciamo a farla
bene ‘sta scena della rivelazione. Scusami ora la rifacciamo”.
Questa doveva essere rivolta a lui. “Siamo pronti” sussurrò
l’angelum, che andava meglio declinarlo neutro e scansare i dubbi
sul genere. La tenda si scostò di nuovo e partì una specie di
sigla, una musica simile all’inno dell’Atalanta. Sempre che si
riuscisse a fare l’orecchio all’abbaiare ossessivo. Già, il coro
lo facevano dei cani, parecchi a giudicare dal casino, ma da come
s’interruppe di colpo il pezzo lui intuì che era roba
preregistrata. Fu la luce. L’occhio di bue si piantò sulla
poltrona di prima, che ora era occupato da un pupazzone indefinibile.
Juri strinse gli occhi, cercando di distinguere qualcosa. Aveva di
fronte un enorme volpino, una roba più vicina a un carro del
carnevale di Viareggio che all’animale che in quegli anni aveva,
volente o nolente, imparato a distinguere anche a distanze
considerevoli. Il grottesco cane era avvolto in un paramento
pesantissimo e poco lavato, con lustrini e brillocchi che se la
godevano con la luce potente del faro puntato. In mano, a guisa di
scettro, stringeva un osso dorato di gomma e il capo era cinto da una
sorta di corona con le luci come quelle degli alberi di Natale.
L’odore attorno era quello tipico di cane bagnato. Gli occhi del
megavolpino, addobbato come il papa, erano sporgenti in una maniera
innaturale. Anche per quella razza lì, che pure pare abbia le
pupille come biglie impazzite. Nel grande flipper della vita. “Vieni
pure avanti” gli fece quello, con la zampa che gli faceva segno
d’appropinquarsi. Come i volpini che danno la mano. Juri si
avvicinò e lo vide meglio. La medesima zampa il volpinazzo se la
ficcò nella mutanda e cominciò a frugarsi mentre, posato l’osso
scettro, con l’altra mano si dava da fare a scavarsi l’orecchio
col tagliacarte. “Allora, scommetto che eri curioso di
incontrarmi”. “ A dire il vero non sospettavo esistesse niente di
simile a te” rispose Juri. “Già, mi dimenticavo che sei pure
ateo. Va bene, tagliamo la testa al toro, io sono dio.” Rimase a
guardarlo per studiare un qualche segno di stupore ma dopo tutto
quello che gli era capitato nulla più poteva creargli grandi
stravolgimenti, nemmeno un volpinone polveroso e maleodorante che
sosteneva d’essere dio. “Forse per te sarò maleodorante ma sappi
che tra i volpini il mio odore è considerato paradisiaco.” S’era
dimenticato che quell’altro poteva leggere nel pensiero. “Faccio
portare qualcosa da bere? David”. Comparve un tipo parecchio zarro,
con la sciarpa della Juve al collo, la faccia devastata dall’acne e
lo sguardo spento. E lui per un momento s’era immaginato che gli
sarebbe comparso quell’altro, quello che aveva fatto un culo tanto
a Golia. Ma no, a giudicarlo così, questo David qui, appena entrato
in scena, a nominargli Golia avrebbe risposto che non gli piacevano
le liquirizie. “Dio fa” disse, con voce ottusa, confermando il
sospetto iniziale. “Non ti sopporto” squittì isterico il dio
volpino “sono sette anni che lavori alla centrale logistica e tutto
quello che sai dire è sempre e soltanto dio fa. Ma cosa cazzo vuoi
che faccia, dillo una santa volta. Sono il creatore, l’essere
supremo, ho un curriculum di novanta cartelle e parlo pure diverse
lingue. Non ti basta.” E, per rafforzare la stizza, il volpinone
che diceva d’essere dio afferrò un busto di pietra che teneva
sulla scrivania, una scultura che magari aveva pure il suo bel valore
di mercato, e la lanciò contro la parete di fronte. Colpendo il
monitor gigante. Che esplose con grande fragore. “Dio fa” disse
il mentecatto guardando il disastro. “Forse tu puoi capirmi”
disse il dio volpino rivolto a Juri “sono anni che ripete solo
quella frase e non mi è chiaro nemmeno cosa intenda. Per lui sono
stato più di un padre, l’ho accolto nella mia casa, l’ho fatto
dormire nel mio letto.” Pausa. Il volpinazzo struffo mentre citava
il letto aveva avuto un sussulto e era rimasto lì, con la zampa
sospesa nel gesto. “Lasciamo stare. Avremo modo di conoscerci
meglio. E tu, vacci a prendere una bottiglia di quel Merlot che ci
siamo accaparrati con l’arrivo nel nostro Paradiso di quel
viticultore friulano.” Tutta la scena era stata recitata con il
cane-dio che aveva una voce stridulisterica che nei picchi peggiori
si perdeva nelle frequenze degli ultrasuoni. Quelle dei fischietti
per i cani, pensò lui. L’altro, il dio volpino, aveva ripreso
quello che avrebbe dovuto essere un sorriso e lo guardava con un
certo compiacimento. “Allora cosa te ne pare.” “Di cosa?” “Ma
di tutto questo, è ovvio.” “Mi pare che se questo è il Paradiso
è parecchio approssimativo e forse sarebbe bene che qualcuno
scendesse da quegli altri, quelli aggrappati ai rosari, quelli che
grattano con la zampa pentita alla grata del confessionale, quelli
che non desiderano la donna d’altri, quelli degli atti impuri, e
gli dicesse almeno di rilassarsi che, se aspirano a venirsene qui a
passare l’eternità, è bene che sappiano che i lavori sono ancora
in corso e proprio di pace eterna ancora non si può parlare.”
Mentre diceva queste cose gli scappava pure da ridere. L’altro
invece aveva preso una piega seria del muso e si scovolinava con
frenesia le narici col tagliacarte. “Capisco quello che vuoi dire,
ma sai quanto costa mantenere tutto questo. Noi produciamo cultura.
Noi siamo cultura.” Queste ultime due frasi, scandite con l’occhio
vitreo, dovevano essere una sorta di copione fisso. “Che cultura”
chiese lui. “La cultura” rispose l’altro. E rimase lì con lo
sguardo fisso. Si riprese con un sussulto, aprì una scatola di legno
che teneva sul tavolo e si strofinò un unguento dal forte odore
balsamico sulle guance. “I paradisi sono come centri commerciali.
Per i primi era tutto facile. S’imbastiva un piano di mercato,
s’inventavano dei testi sacri, si trovava il modo di veicolare con
l’apparato di messia, profeti e maestri e si acchiappava una bella
fetta della torta. Volenti o nolenti tutti dovevano passare da lì, i
paradisi e relativi inferni erano un passaggio obbligato. I primi dei
erano ancora poco abili nell’attività promozionale ma poi c’è
stata l’era dei grandi comunicatori, tipi tosti col senso
dell’umorismo, che sono arrivati a dire ai loro adepti che per
accedere al paradiso bisogna tagliare la punta del pisello ai bimbi o
negarsi il piacere di un salsicciolo o di una fetta di pancetta
coppata. Giusto per vedere se quegli altri, gli uomini, arrivavano a
seguire qualsivoglia comandamento o dettame. Roba da pazzi. A
pensarci ancora non ci posso credere. Poi c’è stata, per così
dire, una certa liberalizzazione del mercato. Le necessità dell’uomo
moderno si sono andate via via definendo sulla base di sottili
divisioni sociali e politiche. All’interno delle fedi massa c’è
stato un proliferare d’altri credo. Più o meno plausibili. C’erano
quelli che cercavano la forza interiore, quelli che rifiutavano la
trasfusione, quelli che trombavano le galline. Un universo indistinto
e confuso. E ogni volta c’era da inventarsi un paradiso plausibile,
visto che la gente non poteva concepire come ricompensa gli eterni
cori angelici. Almeno non dopo la comparsa sulla terra dei Rolling
Stones. Per non parlare delle novantanove vergini. T’immagini la
fatica di spulzellarle tutte. O il casino di farsi il bagno in un
fiume di miele. Mancavano solo le case di marzapane e si faceva
tombola. A questo punto, superato col minimo dei voti l’esame
d’ubiquità, decisi di discutere la mia tesi dal titolo “Il dio
cane. Teoria e tecnica della comunicazione della fede volpinica”.
La media era bassa e lo stesso relatore poco convinto ma a me
interessava quel pezzo di carta per potermi mettere in proprio. Mio
padre aveva investito tutto in un’area che il piano regolatore non
aveva ancora inserito nelle zone da adibire a paradiso. Unsi gli
ingranaggi giusti e mi mossi a tutti i livelli e nel giro di quello
che per voi possono essere settecento anni e per noi sono nulla di
fronte all’eternità, mi ritrovai titolare di una licenza
d’esercizio divino. A quel punto, e siamo ai giorni nostri, anzi
per meglio dire tuoi, che per me la scansione cronologica ha un altro
sistema convenzionale di calcolo, mi ritrovai titolare di un’area
paradisiaca. A quel punto c’era da stipulare le convenzioni con i
campi profughi del purgatorio e, più in giù, con qualche istituto
di pena eterna. Per farlo c’era da definire premi e peccati. Mi ci
misi d’impegno ma non ero mai stato bravo in materie umanistiche e
la mia dottrina, una volta ultimata, mostrava gravissime lacune ed
era in alcuni punti contraddittoria. La commissione apposita me la
bocciò quasi totalmente, salvando le parti di premessa sul culto del
Sacro Volpino e dando per buoni anche certi presunti manoscritti
antichissimi che avevo confezionato con l’aiuto di un vecchio
stampatore che nei suoi giorni migliori era riuscito a piazzare una
dozzina d’efficacissime tavole a Nostrosignore, uno dei più
quotati sul mercato. I rotoloni sul culto del dio cane, con tanto di
disegni esplicativi, che poi il resto era scritto in un misto di
lingue morte e col quoziente intellettivo medio che regna sulla terra
c’era poco da fidarsi che qualcuno ne capisse il senso al volo,
furono piazzate in una cantina di un supermercato. Sperando in un
fortuito ritrovamento. Li usarono per incartare certi pacchi, che
furono spediti chissà dove. Allora provammo con gli scavi
archeologici. Una spedizione in Turchia ci sembrò l’ideale.
Cercavano una grossa barca che, secondo loro, aveva contenuto due
esemplari di qualsiasi essere vivente e che si era poi incagliata in
mezzo alle montagne. Ci sembrò, e parlo al plurare, che all’epoca
si era unita ai miei sforzi quella che poi sarebbe diventata mia
moglie, che gente disposta a credere a certe fregnacce poteva
sicuramente prestare attenzione a dei veri manoscritti svelatori di
culto. Piazzammo i rotoli al centro del loro percorso, proprio in
mezzo del sentiero. Li trovarono le due guide curde e li infilarono
nei loro zaini. Forse pensando di sottoporli all’attenzione degli
archeologi. Non lo sapremo mai perché i due furono massacrati
dall’esercito regolare turco. I loro corpi, bagagli compresi,
furono gettati in un profondo crepaccio e dei rotoli non s’ebbe
notizia. Ammesso che si siano salvati dai colpi di mitra. A quel
punto ero rimasto senza copie e con quello che mi erano costate non
me la sentivo di rischiare ancora. Rimasi per giorni a pensare e alla
fine ebbi l’illuminazione. Altri dei avevano affidato la diffusione
del loro prodotto a rappresentanti, di volta in volta identificati
come profeti. Uno dei successi migliori era stato però quello
ottenuto mandando sulla terra un rappresentante di culto regolarmente
iscritto all’ordine ma pubblicizzandolo come figlio di dio. Decisi
di fare le cose in grande. Con mia moglie le cose andavano bene ma,
considerato che sono dio e le leggi le faccio io, presi altre
centododici concubine e mi diedi da fare. Le cucciolate non si fecero
attendere. E io cominciai a invadere la terra di volpini che dovevano
morire in nome mio. Come redentori. Per non disperdere il verbo
scelsi alcuni soggetti cui destinare il messaggio e ogni volta che un
volpino moriva inascoltato, e comunicare non era facile, un altro era
pronto a sostituirlo. Dotai ognuno di un volpino custode ma visto gli
inconvenienti cui andavano incontro i miei figli, portatori del
guaito sacro, decisi di assegnare il suddetto alle anime solo una
volta che le stesse fossero giunte in paradiso. Per ora non ho ancora
ottenuto molto seguito, anche se le gesta di un mio figliolo inviato
nel deserto australiano e venuto in contatto con alcuni aborigeni
fanno ben sperare. Così sono costretto a comprare le anime per
popolare il mio paradiso, scegliendo tra i lotti di quelli che non si
sono troppo applicati in nessuna fede e anche lì, come nel tuo caso,
a volte ramazzo anime dubbie, solo perché sono state comunque
oggetto di tentativi assidui di redenzione, a suo tempo, da parte dei
miei innumerevoli figli. Tu sei uno di questi.” Juri rimase in
silenzio. Non c’era motivo di non credere al volpinone
spelacchiato. Soprattutto dopo tutto quello che aveva già visto.
“Perché avete scelto me?” chiese. “Oh, è la parte più
semplice. Prendevo le guide del telefono, aprivo una pagina a caso e
piantavo un dito sul nome tenendo gli occhi chiusi. Pura fortuna.”
La chiamava pure fortuna. Tutto quel morire di volpini. “Ma allora
come si spiega quel volpino che mi ha fatto fuori.” “Quando
qualcuno accetta di entrare nel mio paradiso, lo fa accogliendo tutti
i precetti del mio credo e ti assicuro che sono cose blande rispetto
a certe altre fedi guerriere. Poi si ha diritto a esprimere un
desiderio. In un certo senso la tua morte era il premio per qualche
nuovo assunto in cielo. Ma nulla ti sarà svelato prima del tuo
ingresso. Accetti d’essere anima nel paradiso del Dio Cane?” Chi
avrebbe potuto volere la sua morte come ultimo desiderio in terra. “E
se non volessi?” “Ti rispedisco ai campi di raccolta del
purgatorio.” La prospettiva non gli pareva molto allettante.
“Vabbè, accetto” “Ne ero sicuro, sei uno sveglio. Ora il tuo
volpino ti porterà alle camere di catechesi. Rilassati e tutto
passerà veloce. A breve sarai membro ufficiale del nostro paradiso.
Complimenti per la scelta. Ora scusami che ho da accogliere un
mucchio di argentini famelici che non so come cazzo sono finiti qui e
se non mi sbrigo mi mangiano tutta la tappezzeria. Ci rivedremo alla
Grande Cagnara.” Il siparione calò e si sentì un tramestio misto
a ringhi e frasi sconnesse in una lingua impossibile.
Seguì
il volpino lungo un corridoio con le pareti dipinte verde fluo. Chi
si occupava dell’immagine doveva fumare qualcosa di veramente
potente. Arrivarono in un salone che sembrava la sala d’attesa
della mutua, con certe seggioline, scomode per principio e dei
divisori che erano il confine marcato tra un reparto e l’altro, o
tra un malanno e l’altro. Dopo di lui entrarono schiamazzando una
trentina di individui scalmanati. Sembrava una tifoseria scalcagnata
che entra in un autogrill. Li riconobbe. Erano gli argentini. I loro
volpini, coperti da segni di morsi recenti, si affannavano a tenerli
a bada e ci sarebbero voluti dei pastori maremmani. Uno lo riconobbe
e accennò a salutarlo ma lui si girò dalla parte opposta. “Fai
bene a non cagarli, sono uno dei peggiori lotti che il rimba abbia
mai tirato su.” “Il rimba?” “Si, noi lo chiamiamo così il
tuo dio volpino.” “Ma non è il padre di tutti voi.” “Di
quasi tutti, ma va a sapere, le mamme certo non sono delle sante e
quelli del reparto infernale sono dei demoni.” “Ma adesso parli
abbastanza bene.” “Hai accettato di entrare in Paradiso e questo
è il primo passo. Continuo a emettere i miei uggiolati e versi
volpineschi ma adesso tu li capisci. Prima, quando mi sforzavo di
parlare il tuo linguaggio, per poco ci lasciavo le tonsille.” “Ma
i volpini hanno le tonsille.” “E che cazzo ne so io, chiedilo a
un veterinario. La preparazione di base di un volpino custode è in
proporzione a quella del suo destinatario e quindi io non so un cazzo
di niente.” “Grazie.” “Figurati.”
Intanto il
volpino s’era fatto largo nella calca ed era arrivato davanti alla
porta dove c’era un’angela del tutto simile a quella che lo aveva
guidato al suo arrivo. Si guardò attorno e vide che come lei ce
n’erano altre trenta almeno. Si risparmiò il saluto. “Che c’è”
disse lei guardandolo fisso negli occhi e attivando quella voce
vellutata che lo mandava in delirio ormonale “fai finta di non
riconoscermi. Eppure mi pareva che non ti fossi del tutto
indifferente.” “Scusa, ma siete tutte uguali.” “Davvero
carino” mormorò lei con un sorriso sarcastico “Lo porto dentro”
le disse il volpino.” “Allora si è deciso.” “Pare di si.”
“Passa.”
Entrarono
in una stanza più piccola, con un tavolo e una sedia. “Mettiti
tranquillo, sarà cosa di un attimo.” disse il volpino.
Attese
diversi minuti. Una porta sul fondo si spalancò ed entrò
indaffarata un’altra angela con un cortissimo camice aperto
generosamente sulla scollatura. Lui sorrise indeciso. “Buongiorno e
benvenuto al corso di catechesi.” “Buongiorno a lei.” “Forse
potremmo darci anche del tu, considerato che non è la prima volta
che c’incontriamo, ” fece lei ammiccante. “Ah, scusa, sei di
nuovo tu, credevo fossi addetta all’accesso alla stanza.” “Tutti
così voi uomini. Aspetta che mi faccio portare la tua
documentazione.” Premette sul pulsante di un interfono a muro e
disse “Pratica 4544LG.vol”. La porta si aprì di nuovo e entrò
un’angela del tutto identica alla prima, vestita di una
aderentissima salopette in latex rosso con i glutei scoperti.
“Buongiorno” disse l’angela segretaria. “Salve” “Sono
contenta che ti sei calmato, ho avuto il mio bel daffare a tenerti a
bada prima.” “Ma allora era lei” “Puoi darmi del tu, in fondo
ci conosciamo abbastanza bene o forse hai bisogno di un promemoria”
e così dicendo l’angela si girò mostrandogli il culo scoperto.
“Anche con me ha detto di non ricordare”, disse ridendo l’angela
dottoressa. “Fanno tutti così.” “Già.” Lui le guardava
stordito. “Lasciale perdere, si divertono a fare le troie ma non
sono cattive” ringhiò da sotto il tavolo il suo volpino. “Va
bene, passiamo alla sua pratica. Credo che il trattamento di base per
lei sia più che sufficiente. Non per altro ma mi pare piuttosto
frenato nel recepire le novità. Se ci fossero problemi, possiamo
incrementare con una serie di sedute Igaf, ma credo non ce ne sarà
la necessità.” Poi l’angela si abbassò sotto il tavolo e disse
al volpino “Portalo al padiglione di Esperia.” La vide sparire
sotto il mobile e di lì a poco distinse gli armeggi che preludono al
pompino. Lasciò fare. Per pura cortesia.
Il
padiglione Esperia era un parco pieno di piante belle e rare e
panchine e fontanelle. Sembrava di stare in una di quelle località
termali dove la gente si aggira con degli enormi boccali di acqua
putrida che però fa parecchio bene alla salute. Tutti hanno l’aria
di stare in paradiso e sorridono malgrado il disgustoso odore della
spremuta di zolfo che pure sono costretti a trangugiare. Quell’aria,
per quelli che stavano lì, era pertinente. Si trovavano in Paradiso.
Senza nemmeno la scocciatura del boccale d’acqua termale. “Aspetta
qui” disse il volpino, indicando col muso un’altalena. Juri non
sapeva se si trattasse di un ordine da mettere in relazione con la
catechesi o più semplicemente era l’ennesima puttanata del suo
volpino scarto. Senza sapere né leggere né scrivere si mise a
sedere sulla tavoletta di legno e si lasciò dondolare mollemente.
Non era riuscito mai a farla andare a dovere l’altalena. Nemmeno da
piccolo, quando s’ingaggiavano dei duelli in parallelo a chi
arrivava più in alto, lui restava con le gambe anchilosate che
s’irrigidivano per imprimere il giusto moto pendolare. Senza
successo. Per non parlare del timore sacro che gli incutevano gli
scivoli. Attese parecchio e si stufò pure di dondolarsi. Si sdraiò
sull’erba e poco alla volta si lasciò andare al sonno.
L’alito
del volpino direttamente inalato a pochi centimetri dal naso non è
il migliore dei risvegli ma per uno che si era addormentato anche nel
tubo di scolo delle fogne di Saragozza fu sopportabile. Tanto morire
non si poteva. “Alla buon’ora” gorgogliò il volpino, che
adesso gli pareva pure di riuscire a distinguere nel brulichio
d’altri cagnastri lì attorno. “Sono andato a cercarti una
somministratrice del Sacramento Unico ma c’era la riunione
sindacale e me ne sono andato allo spaccio a bere qualcosa.”
“Potevi chiamarmi.” “Non ti allargare. Va bene che sono il tuo
volpino custode ma mica posso portarti allo spaccio dei volpini. Se
non altro perché è a misura nostra e per entrarci dovresti
strisciare.” “Se vuole qualcosa di fresco ci sono io” disse
l’angela somministratrice di sacramenti che il botolo s’era
trascinato dietro. Tutta nuda. Aveva il cazzo e le tette. Ancora
l’incredibile sesso degli angeli. Stavolta Juri cercò di non
cascarci. “Ciao, ci si reincontra continuamente oggi” disse
gioviale. “Cerca di non prenderti troppe confidenze” rispose
lei/lui con l’aria d’essersi innervosito/a e una inequivocabile
erezione cominciò a cambiargli la volumetria di certa parte del
corpo. Juri s’ammutolì. “Bando alle ciance” intervenne il
volpino “ ora tu riceverai il Sacramento Unico e diventerai
ufficialmente un’anima di questo Paradiso. “Ma in cosa consiste“
chiese lui titubante, senza smettere di guardare il cazzo dell’angelo
che cresceva a dismisura. “Rilassati, vedrai che ci farai
l’abitudine e alla fine ti piacerà.” L’esperienza carceraria
di Juri non era trascorsa invano. Si alzò in piedi e si mise in
posizione difensiva. A gambe larghe e con la guardia alta. “Stammi
lontano.” L’angelo sorrise e il pene, rosso come un giaggiolo, si
ritirò repentino e fu inghiottito dal ventre che si trasformò in
un’inequivocabile passera rasata. Con tanto di tatuaggio sul monte
di Venere. Poi l’angela si voltò, mostrandogli le terga e
abbassandosi a frugare in una borsa sportiva che si era portata
dietro. E ora era proprio palese che si trattava di una femmina.
Questi cazzo di angeli cominciavano a fargli perdere la pazienza. Lei
si risollevò. “ Strano” disse “pensavo che avresti
approfittato di me.” “Ne ho le palle piene di approfittare.
Ditemi cosa c’è da fare e tagliamo la testa al toro.” “Come
vuoi” l’angelo stringeva in mano una scatoletta simile a quelle
grosse di cibo per cani. Si sedette a terra con il barattolone in
grembo, frugò ancora nella borsa e tirò fuori un apriscatole.
Armeggiò col coperchio e quando la scatola fu aperta gliela porse.
“Mangiala tutta. Questo è il tuo Compito. Il mistero si compia in
Terra e in Ciotola e oltre ogni segno del Cane Assoluto. Ululiamo al
cielo.” Nel barattolo c’era davvero cibo per cani. L’odore era
inequivocabile e ributtante. L’etichetta recitava “con carne” e
c’era da chiedersi cos’altro era il resto, se quello che pareva
uno spezzatino aveva la carne come special guest. “Non ho nessuna
intenzione di farlo.” “Allora non sarai idoneo” intervenne il
volpino “e verrai spedito di corsa al purgatorio, che nel tuo caso
è un campo profughi al confine col paradiso israeliano.” “Vorrai
dire il paradiso degli ebrei.” “Macchè, quella è una roba
seria. Certi israeliani si sono inventati il credo del territorio e
quelli di loro che abbattono una casa con una ruspa o stroncano con
una raffica un bimbo vi accedono senza problemi.” Cazzo, non era il
caso di finire in quel purgatorio. “Avete almeno una forchetta e
qualcosa di forte da bere.” “A te la posata” fece l’angelo
sorridente “e una fiaschetta di ambrosia, la bevanda degli dei.”
“Avrei preferito una bottiglia di Refosco.” “Fa parte del rito”
ringhiò basso il volpino.
A dire il
vero i bocconi di cibo per cani non erano male, masticando sentiva il
trito fino di ossa, probabilmente di qualche incredibile bestia
morta, scartata da tutti i macelli del reame. Se questa era la prova,
si poteva anche superare. “Mangia, mangia” disse il volpino con
ghigno canzonatorio “vedrai che bel pelo lucido ti verrà, vincerai
un bel po’ di concorsi e ti accoppierai con le più premiate della
tua razza e i tuoi figli saranno venduti a peso d’oro.”
“Fottiti.” Juri afferrò la fiaschetta di ambrosia e bevve un
grosso sorso. Quella si che era merda pura. Un sapore stucchevole che
andò a impastarsi con quello dei bocconi per cani. Con esiti
devastanti per le sue papille. “Dio cane che schifo.” “Vedo che
comincia a fare effetto, hai invocato il tuo Dio Giusto. Bene, sei
pronto.” Posò in terra il barattolo. “Che fai,” intervenne il
volpino, “la scatoletta la devi finire.” Mai una volta che si
faceva i cazzi suoi quello stronzo di cane.
E furono
minuti lunghi anche per uno che si stava garantendo la pace eterna.
Forse.
L’angelo
era identico a tutte quegli altri/altre che avevano impegnato la
scorta ormonale di Juri e allo stesso tempo l’avevano riempito di
dubbi sul sesso reale di quelle creature paradisiache. “Ora sei
pronto” disse solenne, sollevando appena la minigonna in pelle
nello slancio del declamare. “Hai dimostrato d’essere degno e sei
fortunato. Da lunedi scatta la nuova selezione e questa puttanata
della scatoletta del cibo per cani verrà sostituita da un test
psico-attitudinale di miglior serietà. Ora varca pure la Porta ma
prima ti chiedo di esprimere il tuo desiderio, dono del nostro
Eccelso agli illuminati. Non dirlo, pensalo soltanto e se possibile
ti accontenteremo. Facciamo del nostro meglio ma non è che possiamo
fare miracoli.”
Ad
accompagnare Juri alla porta ci pensò il volpino. Attraversarono un
campo da golf con l’erba arancione e poi salirono su un trenino a
carbone. Viaggiarono per una mezz’ora circa. “Scendiamo, è la
nostra fermata. Sbrigati.” “La stazioncina sembrava quella di
Ferrandina e di tutti quei paesini dove hai la sensazione di varcare
un labilissimo confine mai tracciato davvero ma presente e le facce
impassibili di quei pochi attorno non ti vogliono dare la
soddisfazione della conferma. Passarono la sala d’aspetto.
D’aspetto triste. Passarono l’androne. Passarono il parcheggio
dei taxi. Parecchio vuoto. Camminarono su una strada in mezzo a campi
di soia, con certe cimici di campagna che affollavano il bordo della
strada e schiacciandole producevano un lezzo insopportabile.
Arrivarono infine a un cancello in ferro battuto. Il volpino spinse
col naso su una tastiera componendo una combinazione. Sbagliata. La
porta rimase chiusa. Riprovò altre volte, sudando di lingua, come
suda un cane di quella razza lì. Al quinto tentativo la porta cigolò
e si aprì. Col lampeggiante giallo del cancello elettrico a
segnalare il pericolo di organi in movimento.
“Eccoci
arrivati” disse il volpino affannato “ora prosegui sempre dritto,
il Paradiso è lì. Io passo all’ufficio accettazione a sbrigare
due pratiche, ci rivediamo dopo.” Lui fece un cenno di saluto ma
l’altro si era già voltato e zampettava verso un edificio, simile
a una piramide di Tikal, che stava in fondo a un viale alberato. Juri
s’incamminò sotto il sole porco che lo faceva scoppiare di caldo.
Proprio di essere in paradiso non sembrava. Poi vide un faro in
lontananza. Di giorno. Una moto. Ebbe un’intuizione. Una speranza.
Il suo desiderio. La Guzzi, perché ora ne distingueva il pulsare,
stava trottando verso di lui. Gli veniva incontro e se avesse avuto
la coda l’avrebbe mossa frenetica. La guidava qualcuno nascosto da
un casco integrale nero. L’ennesimo angelo, pensò lui. La moto si
fermò davanti al suo sorriso. Il pilota mise il cavalletto e smontò.
Si tolse il casco. “Isabel” riuscì a dire lui, guardando la
ragazza che rideva e rimaneva lì, a pochi centimetri. “Che ci fai
qui col mio desiderio.” “Sono qui per consegnarti la tua Guzzi,
il tuo desiderio d’Illuminato e allo stesso tempo riscuoto il mio.”
“Il tuo cosa?” “Il mio desiderio,” disse lei con la faccia
divertita “Ho dovuto aspettare che passassi da questa parte
dell’esistenza. Ora tocca a me” e lo baciò con certe labbra
calde che una morta non dovrebbe avere.
Fine
“Ma
scusate, voi siete stato generosissimo, però a questo punto io che
devo fare.”
“Dovete
giocare, e, se vincete, a me va l’otto per cento.”
“Ma
tutti questi fatti, tutta questa gente, io adesso come mi regolo.”
“Quello
che potevo fare l’ho fatto.”
“Abbiate
pazienza, ma, se proprio mi volevate aiutare, mi raccontavate un
sogno piccolo, che non vi faceva fatica, e io mi pigliavo belli belli
i numeri miei. Sicuri. Con tutte le cose che mi avete raccontato che
posso fare io.”
“Ma che
andate trovando, siete venuta a cercarmi un sogno e io ve l’ho
dato. Non potete pagare e io vi ho riferito questo sogno qui, che lo
tengo pronto da un sacco di tempo ma che nessuno lo chiede. Se
tenevate le possibilità veramente, vi facevo un sogno pulito che
c’era solo da capare cinque numeri e quelli sicuro che uscivano.
Voi vi dovete accontentare.”
“Almeno
datemi qualche parere.”
“Che
volete che vi dica, non ho mai giocato in vita mia. Non è serio.”
“Tutti
quei fatti, gli elefanti, la nave, la ragazza, le bombe, se ci penso
esco pazza.”
“Non
saprei come consigliarvi, giocate come vi sentite e vedrete che
farete bene.”
Detto
questo, l’uomo si congedò con un cenno, infilò il casco e partì
con la sua vecchia moto scassa, lasciandosi ingoiare nel ventre
antichissimo della città. La donna avrebbe potuto guardare la
scritta sul serbatoio ma gli passò di mente. La testa affollata
d’altri ingombri.