Una
domenica se ne stava seduto fuori, con la birra a scaldarsi tra le
dita "ma io ci sono abituato, che in Africa la birra la tiri
fuori del frigo e già puoi cuocerci la pasta tanto bolle e...".
Ancora occhi al cielo. Con la coda dell'occhio percepì un movimento.
Dal vicolo. Si voltò e lo vide. Un cazzo di volpino spellacchiato
con le occhiaie. Con addosso, ficcato nel pelo, l’odore di pizzelle
fritte e brodo di polpo. Juri allungò la mano e lo accarezzò. Col
sorriso. L'altro era venuto fin lì per lui. Era l'ultimo della
grande famiglia di volpini che anni prima s'era accanito a sterminare
con distrazione. Il cane alzò la zampina. Come per grattarsi. Si
sentì un rumore di zip. Da sotto alla pancia spuntò una Fox calibro
22, canna cortissima. Gli sparò due colpi in pancia. La birra cadde
e Juri rotolò giù dalla sedia del bar. Prima di andarsene il cane
alzò la zampa e gli pisciò sulla schiena. Mentre rantolava riuscì
ancora ad assicurare che non era niente e che in Africa tutti i
giorni gli sparavano nella pancia. Quelli che alzarono gli occhi al
cielo lo videro già lì. In strada rimase la Guzzi e l'adesivo del
Camping Gabugo. Luccicante come appena attaccato.
L'arrivo
in Paradiso non è cosa da poco. Le anime si beccano una maledetta
attesa e poi via, quattordici ore di volo. Nel viaggio la gente beve
e mangia dei tramezzini di maionese e carne strana. Volpino pensò
Juri, che ancora sorrideva all'idea di come s'era fatto fregare da
quel rognoso cagnetto pistolero. Certe anime, dall'accento sembravano
argentini, passavano il tempo a chiedere del cibo, delle croste di
pane, di lebbra, qualsiasi cosa. L'angelo stuart gli tirava i
croccantini del cane. Alle anime gli viene un pelo lucidissimo.
L'anima di un sordo si sparava la musica a palla nelle cuffiette e
non sentiva nulla, che era morto mica miracolato. Un cieco, per
buggerarlo, guardava un film col dvd portatile e sorrideva. Juri se
ne stava tranquillo, col bicchiere di Cabernet sospeso tra due dita.
A ogni sorso vedeva il rosso che scorreva giù fino alla pancia,
attraverso l'anima trasparente e poi fino a terra. Il pavimento era
una merda. Una vecchia si sentì male ma nessuno la soccorse. Tanto
morire non si poteva più. La ragazza accanto a Juri si masturbava da
due ore con un barattolo di yogurt da mezzo chilo. Per fare l’amore
con il sapore. In bagno c'era uno che s’inchiappettava l'angelo
stuart. E non era neppure arabo. In businnes class viaggiano le anime
dei volpini morti. "Mi dovrebbero solo ringraziare di avergli
fatto il biglietto". Un tipo nell'altra fila sospirava.
"Qualcosa non va?" chiese lui, che si sentiva scemo
considerando che a uno appena morto non sono domande da farsi.
"Cazzo, sono morto e non ho mai visto gli elefanti dal vero".
Lui lo guardò stupito. L'altro lo scambiò per un arabo ammiccante e
gli sparò un cartone in faccia. In pieno viso. Cazzo, se il volo era
per il Paradiso, c’era da chiedersi com’è che si andava
all’inferno. "A ognuno è assegnata una Moto Guzzi"
rispose al suo pensiero lo stuart sorridente.
All'atterraggio
la situazione era ormai precipitata. Il pilota si faceva la ceretta
alle gambe e aveva affidato i comandi a due volpini rosso amaranto,
variante rara del volpino giallo volpino. L'hostess portava vino a
tutti, cani e morti. Al momento di allacciarsi le cinture la
sorpresa. Le suddette non c'erano più. Tutti si voltarono verso gli
argentini, che sorrisero imbarazzati. Le avevano mangiate loro.
Bastardi. I passeggeri furono fissati al sedile con delle gomme
masticate in fretta dal personale di bordo. Per i volpini in businnes
class si agì con fretta e approssimazione, alla faccia dell'esborso,
e li appiccicarono allo schienale con i fogli collosi, che servivano
al pilota per farsi la ceretta. Juri non si perse d'animo, si legò
al suo posto con la cintura di pitone e cinse la vicina col braccio
porco. "stai tranquilla" le soffiò nell'orecchio "a
te penso io". Lei aveva smesso di cosarsi col barattolo dello
yogurt ma non trovava più il cucchiaino e si frugava con insistenza.
"Lo cerchiamo dopo, con calma" fece lui con l'occhio a
milleunanotte "ora reggiti a me". Porca puttana. Lei si
resse a lui ma quella non era propriamente una maniglia. Lui sorrise
disinvolto ma dentro, nell'anima, soffriva e sudava. L'aereo prese
terra, lei strinse e lui perse i sensi. Quando rinvenne lei se ne
stava andando via con quell'altro, che le raccontava di quando era
andato a vedere gli elefanti dal vero. Cacciaballe. Sulla scaletta
c'era una lunga fila di maialini rosa che a bordo non aveva notato.
Guardò meglio. Erano i volpini che avevano abbandonato le pellicce
sul sedile. Sui fogli della ceretta. Si infilò la mano in tasca e lo
trovò. Il benedetto cucchiaino.
Li
ammucchiarono in una sala col pavimento in linoleum che imitava il
cotto fiorentino. Angeli in divisa passavano colla gamba veloce, le
ali solo per figura, con fogli in mano e fretta da fax imminente. Un
angelo mototaxi se ne stava appoggiato a una colonna da parecchio. Li
fissava. Dall'altoparlante una voce impartiva ordini in mille lingue,
a lui tutte sconosciute. "Ben arrivati allo scalo di Paradiso. I
signori passeggeri sono pregati di passare al controllo anime prima
di accedere alla sala ristoro". Questa era nella sua lingua. Poi
in spagnolo. Gli argentini si precipitarono verso il corridoio che
portava al controllo. Col miraggio del ristoro. Se ne andarono in
blocco, vocianti, lasciando scoperto un pezzo di pavimento col
linoleum tutto morsicato. Mentre correvano uno si fermò e si chinò
a fare una carezza a un volpino spellicciato. Che ricambiò muovendo
la codina. Fu un attimo e l'argentino si ficcò il botolo in bocca.
Tutto d'un boccone. La coda rimase fuori e continuò a muoversi. Poi
sparirono alla vista.
Juri se la
prese comoda. Vide una poltroncina libera e si lasciò sprofondare.
Il verso strozzato era quello tipico del volpino schiacciato. Lo
conosceva bene. Si rialzò e il cagnetto era lì, che muoveva la
coda. Juri gli tirò una sberla e lo sbattè giù. E quello
continuava a guardarlo e a muovere la coda. Lo schiacciò col tacco
del campero pitonato e quando rialzò il piede quello era ancora lì.
E sempre agitava la coda. Porca troia, pensò Juri, siamo già morti
e quindi in 'sto cazzo di posto i volpini non possono più crepare.
Ma almeno che stiano alla larga. Calcio di punta e il volpino volò
attraverso la sala. In una frazione di secondo un angelo vestito da
Elvis si materializzò davanti a lui. "Ha inavvertitamente
calciato il suo volpino". "Mio volpino"."Già,
come crede di poter tirare avanti in Paradiso senza un volpino da
amare".
Come
sarebbe a dire un volpino da amare. Forse Juri aveva capito male e il
tipo intendeva un volpino da mare. Guardò il botolo scodinzoloso e
cispo che gli saltellava tra i piedi. Già. Un volpino da mare. Gli
si ficca un tubo nel sedere e s’immette aria a mille atmosfere e
quando il volpino è bello gonfio ci si va in spiaggia a
pavoneggiarsi nell'acqua col galleggiante peloso. E sai che successo
con le straniere statuarie che affollano le spiagge di questo posto.
Tutte generose, altrimenti che cazzo di Paradiso è. "Prego,
tocca al suo gruppo. Avviatevi verso il comparto 62". Il gruppo
di chi? Ma lui era arrivato da solo. Non intenderanno quella masnada
d’apocalittici che avevano volato con lui. E poi gli argentini
erano già andati. E mentre pensava, Juri era già al comparto 62.
Intruppato con certi altri mai visti prima, tutti col volpino
regolarmente tra i piedi. Una donna grassa, avvezza già in vita, il
suo lo teneva in braccio. "I signori sono pregati di accomodarsi
e di attendere il loro turno". Ma per cosa?
Le
poltroncine rosse attendevano il calco delle loro chiappe timorose.
Con rassegnazione di mestiere.
E
quando il suo nome echeggiò nella sala, con l'altoparlante che
piegava in leggerissimo larsen, sempre una ferita per il suo orecchio
viziato da certe chitarre sopraffine, quasi non ci credeva. Non il
nome di comodo che quel “Luca Rambo” in paradiso non se lo
bevevano, ma proprio quello vero, cui non era quasi più avvezzo.
Cercavano proprio l’originale. Chiamando a gran voce. Come
all'anagrafe, come dal salumiere, in ragione di turno e pazienza. In
fila per il paradiso. Si alzò e anche il volpino, il suo volpino, si
riscosse con lui. Quel gesto sincrono gli procurò uno strano
piacere, una fitta di nostalgia. Prima fischiò e poi se ne rese
conto. Il volpino zampettò dietro di lui, brontolando un ringhio di
possesso agli altri botoli che, tra le gambe dei loro assegnatari, lo
guardavano rispondere al richiamo che era già infinita confidenza.
Un angelo con la felpa verde bottiglia gli sorrise e gli fece un
cenno. Andiamo a vedere cosa cazzo vogliono da me, si disse Juri.
Pentendosi subito d'aver pensato cazzo in Paradiso. Poi sorrise
pensando che il cazzo era stato la sua penisola breve nel mare più
prossimo al paradiso quando era in vita. "Venga, non abbia
paura". Ogni volta che uno gli diceva "poverino" o
"non aver paura" a lui montava una rabbia sorda. Da quando
era piccolo ed era poverino e pieno di paura. "Fottiti angelo
dei miei coglioni". L'altro sorrise e fece per accarezzarlo.
Scansò con una finta di corpo e piantò gli occhi negli occhi del
cazzo d’angelo. A monito. Rifallo e ti piscio in tasca. Il volpino
scoprì i denti. L'angelo, che doveva essere un modello difettoso,
gli allungò un calcio. Se è vero che un angelo non muore mai a
quello lì gli diedero parecchi giorni di mutua. Lo portarono via
reggendolo dalle ali, la felpa sporca di miele d'acacia, che è in
pratica lo stucchevole sangue degli angeli. "Lascia stare i
vecchi animali della strada e non sfiorare nemmeno coi pensieri i
loro volpini" gli soffiò nell'orecchio Juri. Prima di
staccarglielo con un morso. L'orecchio d'angelo ha un sapore di petto
di pollo e i capelli d'angelo già li aveva mangiati con la minestra
da piccolo.
"Ho
riconosciuto la citazione dal film. Lascia stare i vecchi animali.
Carino. Credo che la sua pratica sarà da rivedere". A parlare
era un altro angelo, più alto e con la cravatta. Per un colpo allo
sterno concavo di un angelo, ficcato col gomito, basta una frazione
di secondo. Già fatto.
Ovvero
della totale impunità. Così si immaginava già il sottotitolo di
una storia che titolo non ne aveva e nemmeno penne per scriverla, che
il Paradiso non ne è provvisto. A saperlo si sarebbe portato le sue
e qualche boccetta d'inchiostro. Oppure solo la china e per scrivere
avrebbe strappato penne alle ali degli angeli, che lì erano come i
vigili urbani e per questo gli stavano pesantemente sui coglioni. Per
conferma, bastava buttare un occhio all'angelo bancario con cravatta
che rantolava ai suoi piedi. Dell'impunità dicevamo. Appena
piantato, di simpatia, il gomito nella leggera consistenza
dell'angelo capì due cose: primo gli angeli pesano poco e li sbatti
giù con una certa facilità e hai pure l'illusione di sentirti Bruce
Lee, secondo in Paradiso sono tutti buoni, lui era lì per un
disguido, e più che rimbrottarlo dolcemente non potevano. Cominciò
a saltare per la sala come faceva nei bar quando s'era bevuto pure il
sudore della madonna dopo l'annunciazione. "Aiemabaicher"
gridava e si cercava il coltello col manico d'ulivo nella tasca. E
infatti era lì. Le teste di cazzo non l'avevano nemmeno perquisito.
Cercò di sfidare un tizio a una gara di flessioni ma il tipo
scuoteva la testa e sorrideva dolcemente. Uno buono davvero. E lui in
vita aveva avuto contatto con un solo tipo di buoni: i buoni pasto.
Saltò sul bancone del centralino e cominciò a fare gesti osceni,
scuotendosi forte il pacco a due mani. Si sentì un plin plon come i
segnali di attenzione delle stazioni e si aprì una tenda. Ne uscì
una tipa vestita come un sogno erotico motaro, tutta di pelle sua e
pelle di giubbotto e giarrettiere e la benedetta aquila guzzara
tatuata su una tetta quasi tutta scoperta. "Ciao" disse
lei. Lui saltò giù e corse a guardare se aveva le ali e era il
trucco becero dell'angelo travesto. Niente ali ma un culo con due
chiappe disegnate col CAD, che per guardarle toccava averci gli
occhiali da sole. "Il capo ti vuole parlare. Seguimi".
Tanto il coltello l’aveva. Andò.
Il
corridoio era buio e l'unica luce era quella emanata dalle chiappe
della tipa. Davvero. I loro passi, sul pavimento in lastre di marmo,
rimbombavano come se sotto fosse vuoto. Uguale a quando da ragazzino
correva a piedi nudi per i venti metri quadri del suo appartamento,
per la gioia di quelli del piano inferiore. Spesso alle sei del
mattino, che quando sei piccolo non c'è tempo da perdere. Arrivarono
in una sorta di stanza d'attesa. Sul soffitto, volte a vela. Sedie
coperte da velluto giallo appoggiate alle pareti. Al centro un
tavolino con ammucchiate sopra riviste diverse. Le stesse di quando
vai dal dottore. Per tutti i gusti e mai nulla che t’interessi
davvero, che le sfogli e pensi che se devi affidare la tua salute ad
uno che legge quella roba sei fottuto. Alle pareti un enorme tela
raffigurante una scena di caccia o roba simile. Non ci prestò molta
attenzione all'inizio. Poi, visto che la tipa l'aveva fatto sedere,
era sparita dietro una porta e nessuno veniva a chiamarlo, cominciò
a guardarsi in giro. Come al cesso, che, se non aveva niente da
leggere, non ci riusciva e alle brutte si passava tutte le etichette
dei vari flaconi sparsi e una volta si sparò pure l'opuscolo dei
testimoni di geova. Lo sguardo di Juri si posò di nuovo sulla tela.
Al centro una tigre con la zanna in bell’evidenza e su di lei si
avventavano certi volpini fieri, che sembrava che nel frangente
avessero pure la meglio. Minchia. Si ricordò e guardò in terra. Il
suo volpino se ne stava lì, sotto la sedia. Appena si sentì
osservato, drizzò le orecchie e mosse la coda. Guardandolo con
l'occhio da volpino complice. Non si era mai allontanato da lui e,
ora che ci ripensava, quando lui aveva fatto il diavolo a quattro
nella sala, il botolo l'aveva spalleggiato e s'era dato da fare
abbaiando con quella voce stridula e insistente che è tipica della
razza. A questo punto era chiaro che il volpino stava dalla sua parte
ma non era da escludersi il doppio gioco. Doveva stare in guardia con
quelle bestie lì.
"Vieni
pure" disse la tipa. Juri sperò di aver capito bene. La luce
tremula e violacea delle chiappe si trasformò in un lampeggio rosso.
"Mi scusi ma questi pensieri non sono consentiti". "Quali
pensieri?" chiese lui, che s'era fatto rosso a sua volta ma
senza lampeggiare, che ci vuol tecnica. "Mi ha capito
benissimo". Già, come se Juri non avesse sgamato che lì non
avevano modo di fermarlo. Perso per perso. Planò sulla schiena della
tentazione di carne e finirono sul tappeto a volpini geometrici.
Sotto lei non aveva niente. Già, per quanto Juri spingesse e
premesse, lei era liscia e priva d'accesso anche minimo. Giocando la
panchina, lui aveva tentato un adatto tra le chiappe. Si tirò su con
la faccia delusa. Lei non aveva smesso di sorridere. E continuò
anche mentre gli faceva il pompino. Tutta quella bontà lo stava
uccidendo. Poi lei si rimise in piedi e pescò un pacchetto di
sigarette che teneva nascosto nella scollatura. "Fumi?".
"No". Il volpino abbaiò e lei gli allungò la cicca.
L'altro si frugò nel pelo del sottopancia e tirò fuori un
accendino. Juri si ricordò che, allo stesso modo, quell'altro
bastardo cisposo l'aveva freddato davanti al bar. Cazzo,
pensò, era ovvio che, se mi assegnavano un volpino, il mio doveva
essere uno sbandato. Cominciava a fargli simpatia. Il volpino
scaracchiò e tirò uno sputazzo sul muro.
L'angela/o
si avviò verso la porta sul fondo, facendo cenno di seguirla/o. Lui
si riabbottonò. Come sull'aereo s'era visto il vino scendergli giù
per la trasparenza dell'anima ora s'era goduto lo spettacolo del suo
cazzo opalino in azione. Gli scappava da ridere a pensarci. Che a
dire il vero le mani, la faccia e tutto il resto mantenevano una loro
consistenza lattiginosa, un pallore accentuato su una carne in pasta
vitrea. Dio bono. Era lui ma confezionato con quei plexiglas delle
lavagne luminose, quelle per guardare le dia. Da vivo aveva
fotografato degli opali e, a seconda di com’erano attraversati
dalla luce, cambiavano colore. Fotografarli rendendo giustizia era
stata un'impresa. Ora anche lui si ritrovava a cambiare i riflessi,
sensibile alle fonti luminose e trasparente come può esserlo un
sacchetto del supermercato. Poteva ben dire di averci un cristallo di
boemia tra le gambe. Ridacchiò. L'altra si voltò e sorrise a sua
volta. Cazzo, è vero, quella gli leggeva i pensieri. Il volpino tirò
una scoreggia significativa. "Vabbè che ognuno ha quel che si
merita ma 'sto volpino che mi avete assegnato è proprio una
chiavica". Il cane scodinzolò e ansimò festoso. Come fanno i
volpini che vogliono essere simpatici. "Ma va a cagare"
disse lui. "Fottiti" rispose il volpino. Basito. "Ma
tu parli". Il cane starnutì e tossì, che quasi si strozzava.
Doveva essergli costata fatica quella prova.
Appena
l'angelo/a appoggiò la mano sulla porta, che aveva lo stipite dorato
giusto per stare in tema con lo stile carico della sala, le chiappe
gli/le si spensero. "Fai silenzio adesso e parla solo quando ti
sarà richiesto". "Dillo al cane piuttosto" rispose
lui, indicando il volpino. Entrarono in una sala buia, rischiarata
appena da certe lampadine verdi, lungo il muro. "Non ci posso
credere, le lucine che mi lasciavano accese in camera quando ero
piccolo". "Ti avevo detto di stare zitto". Dicendo
così l'angelo/a si girò e gli tirò un pugno nella bocca dello
stomaco. Lui si piegò con un verso strozzato. "Vacci piano"
gorgogliò il volpino "lo vuoi ammazzare". "Stai zitto
che ne ho anche per te". Il cane abbassò le orecchie e
tossicchiò, sempre per lo sforzo che gli costavano le parole ma
anche per l'imbarazzo. Cazzo, la musica era cambiata. Pareva che lui
e il volpino si fossero giocati l'impunità. "Ve lo dico per
l'ultima volta". Allora erano proprio le lucine di quando sua
madre veniva nella stanza e minacciava Juri e il fratello col "non
voglio sentire volare una mosca" e lui, che pure lo sapeva
quanto l'avrebbe pagata cara, non riusciva a trattenersi e lasciava
partire nell'oscurità un lungo e intenso "ZZZZZZZZZZZZZZ".
Come la mosca. Interrotto dalle sberle ogni volta. E ogni volta lo
rifaceva. E suo fratello a ripetergli che era troppo scemo. E lui a
pensare che l'onore delle mosche era salvo. E lo fece.
"ZZZZZZZZZZZZZZ". L'angelo/a si girò e aveva la faccia
incazzata davvero. Partì con un calcio al volto ma stavolta lui era
pronto e si giocava il carico intero di tutte quelle altre sberle di
quando era piccolo. Era motivato insomma. Si piegò di lato e affondò
a sua volta col pugno ficcato nelle palle. Che stavolta stavano lì,
al loro posto. Miracoli del Paradiso, cambi stanza e ti spunta
l'uccello. L'angelo si piegò e lui gli caricò una mazzata a due
mani sulla nuca. L'altro stramazzò a terra. O adesso o mai più. Gli
alzò il gonnellino e tra le cosce c'era un'inequivocabile fica. 'Sto
cazzo di sesso degli angeli era davvero un problema. Avrebbe potuto
giurare che prima aveva colpito un bel groppolone di palle e stecca e
ora…quasi, quasi. Non fosse stato fresco di pompino una botta
gliela dava. Anzi, ora che ci pensava…. Il volpino, a uso di quella
razza lì, si aggrappò alla gamba dell'angela e cominciò a simulare
l'amplesso. "Sarei curioso di vedere il tuo pedigree" disse
lui, guardando il cane con disgusto. Tra le cosce dell'angela era
rispuntato l'uccello. Ma nessuno ci badò più di tanto.
"Non
ti sembra di andarci troppo pesante?", chiese la voce. Lui si
guardò attorno. Cercava gli altoparlanti o roba simile. "Mi sei
simpatico, forse proprio per certe tue reazioni, ma dovresti
moderarti un po'". "Ma chi cazzo sei?". "Ogni
cosa a suo tempo. Segui l'angelo guida". Si girò. L'angelo/a
s'era rimesso in piedi e lo guardava sorridendo. Alla faccia di tutte
le mazzate che s'era portato a casa. "Andiamo" disse con la
voce ferma, indicando col dito sottile una delle porte. Passarono
oltre, in una sala poco illuminata. Distinse le note di Sultan of
swing. A volume insinuante. Odore di fumo. Nel senso di canne.
Per terra un casino di lattine, giornali e confezioni vuote di cibi
sintetici. In fondo alla sala un mucchio di televisori accesi, messi
uno sull'altro. Alla rinfusa. Col volume al minimo. E colori e
bianco e nero. E tutto quell'odore di canne al vento. Da ogni schermo
un film o uno spettacolo diverso. Da un megaschermo, di quelli da
partita dei mondiali in piazza duomo, si vedeva una nota
presentatrice di documentari sugli animali che teneva in grembo un
volpino. Era nuda e il pelo biondo della passera si confondeva con
quello del cagnolo. E lei sorrideva, guardando gli spettatori, quei
milioni di pupille dilatate, dritto negli occhi e pareva agitarsi
parecchio, colla lingua che guizzava agli angoli della bocca e il
sedere che strofinava i cuscini pervinca della poltrona. Dietro di
lei, sul palco, Jimi Hendrix, doveva essere un sosia pensò lui, che
ci dava dentro con Foxy Lady e risultava pure bravino. Quasi come
quello vero. "E' quello vero" disse la voce. Lui si girò
di scatto per trovarsi davanti a una tenda di velluto nero. "Con
quello che mi è costato averlo nel mio paradiso, ci mancava pure che
non suonasse come si deve". "Ma chi cazzo sei". "Tu,
come potrai intuire, non mi sei costato molto. Uno di quei lotti che
ti vendono i trafficanti d'anime da strada, roba tagliata male, con
una decina di vecchi barbogi mischiati a certe anime gaglioffe messe
lì a far peso. Gli altri, i titolari degli altri paradisi intendo,
si fanno tentare raramente, che poi a rimettere ordine ci vuole il
suo tempo, ma, visto e considerato che il rischio di beccarsi proprio
i peccatori veri, gli assassini matricolati, i proprietari di reti
televisive, i dittatori cannibali, è decisamente basso, quella è
merce ambitissima ai piani inferiori, io qualche pacchetto tutto
compreso me lo faccio rifilare di tanto in tanto. Non ci crederai ma
lo trovo divertente. Quando smistano gli arrivi mi diletto a
individuare i difettati, quelle anime che non sono mai state grandi
in niente ma nemmeno si sono distinte giocando nella nazionale del
male. Te ti si sgama subito, caro mio. Avrei potuto dare un occhio
alla tua esistenza e la cosa non mi riesce complicata da quando
faccio il salvataggio dati. Prima, ai tempi di Miracle 3.1 per
intenderci, era un casino. Toccava affidarsi alle mie stanche meningi
o a certi appunti che prendono le segretarie angelo ma…". Una
suoneria, una di quelle trillanti che partono al cinema, nel buio
della sala, o in treno, negli scompartimenti addormentati. "Scusa
un attimo" disse la voce. A fissare la tenda nera c'era poco
guadagno da aggiungere allo stupore che a Juri correva in circolo a
tutta pressione. Guardò di lato e vide il volpino. Aveva un joystick
tra le zampe. Juri si voltò col riflesso condizionato, tipico di chi
il diploma se l’era preso alla sala giochi Automatic di via
Cividale, verso lo schermo. La bionda nuda lottava contro il Jimi
Hendrix. Lei lanciava dei raggi fotonici dalle tette e lui rispondeva
con certi bemolle e diesis che partivano dall'amplificatore a raffica
e distorti a morte. "Se vince lui se la chiava" rugnò
basso il cane. "E se perde?" "Se lo chiava lei".
Per forza, se la sua non era un'anima veramente pura, anche il
volpino assegnato doveva essere di scarto. Magari gli altri parlavano
fluenti e senza tutto quello sforzo e non si sognavano nemmeno di far
accoppiare col videogioco una presentatrice di documentari, la sua
preferita, e un chitarrista, il suo preferito. Dall'altra parte della
tenda si sentiva gridare. Ma in una lingua sconosciuta. "Mi
piace venire qui a giocare" il volpino prendeva confidenza colle
parole "con questo schermo si vede da dio" e scoppiò in
una serie di singhiozzi che gli fecero cadere il joystick di mano. Il
mentecatto volpino stava ridendo, pensò lui. Poi il cane s'accorse
che nel gioco le mazzate continuavano anche da sole, afferrò il
joystick ma ormai la bionda stava sferrando un ultimo fatale colpo di
clitoride laser al chitarruto che pure, nel tentativo di parare,
aveva usato la sua Stratocaster come scudo. E la chitarra prese fuoco
e le dita presero fuoco e tutto fu cenere. La bionda fece segno di
vittoria con le due dita, poi ne ritrasse una e col dito rimasto
alzato rese palese che di lì a poco si sarebbe apprestata a
riscuotere il suo premio.
"Spegni
quella porcheria" tuonò la voce dietro di loro. Press the green
button. Game over. Il volpino aveva abbassato le orecchie. Tutta la
sua aria da volpinastro vissuto era sparita in un lampo. Il tipo
dietro la tenda doveva averci il suo carisma. La tenda si mosse,
dietro stava avvenendo qualcosa di convulso. “Come cazzo funziona
qui… mai una volta… Angela, Angelaaaa. Possibile che qui non
funzioni mai un cazzo di niente. E io continuo a firmare spese di
manutenzione”. “Lasci fare a me”. La voce era quella suadente
della tipa/o che lo aveva accompagnato fin lì. Ora che ci pensava,
mentre il volpino si accaniva col videogioco e l’altro dietro la
tenda cercava di dargli ragione della sua condizione attuale,
l’angela era sparita. Si sentì un cigolio e la tenda pesante si
scostò. Come un sipario. Si capiva che tutto era preparato per
stupire. Un occhio di bue si accese ronzando sul soffitto. “Eccomi
a te” sentì dire. E non distinse niente che non fosse un pezzo di
pavimento d’assi. Polveroso quanto basta. “Luceeehh” la voce
aveva preso una piega decisamente isterica. L’occhio di bue si
mosse e non sembrava troppo convinto di quale fosse il suo compito.
Poi, tremulo, si piantò sulla poltrona vuota. “Aspetta, ho
dimenticato il piviale… spegni… si va bene, a ‘sto punto tanto
vale che mi metto in mutande e ci faccio una figura migliore.
Richiudi quella cazzo di tenda. Mai una volta che riusciamo a farla
bene ‘sta scena della rivelazione. Scusami ora la rifacciamo”.
Questa doveva essere rivolta a lui. “Siamo pronti” sussurrò
l’angelum, che andava meglio declinarlo neutro e scansare i dubbi
sul genere. La tenda si scostò di nuovo e partì una specie di
sigla, una musica simile all’inno dell’Atalanta. Sempre che si
riuscisse a fare l’orecchio all’abbaiare ossessivo. Già, il coro
lo facevano dei cani, parecchi a giudicare dal casino, ma da come
s’interruppe di colpo il pezzo lui intuì che era roba
preregistrata. Fu la luce. L’occhio di bue si piantò sulla
poltrona di prima, che ora era occupato da un pupazzone indefinibile.
Juri strinse gli occhi, cercando di distinguere qualcosa. Aveva di
fronte un enorme volpino, una roba più vicina a un carro del
carnevale di Viareggio che all’animale che in quegli anni aveva,
volente o nolente, imparato a distinguere anche a distanze
considerevoli. Il grottesco cane era avvolto in un paramento
pesantissimo e poco lavato, con lustrini e brillocchi che se la
godevano con la luce potente del faro puntato. In mano, a guisa di
scettro, stringeva un osso dorato di gomma e il capo era cinto da una
sorta di corona con le luci come quelle degli alberi di Natale.
L’odore attorno era quello tipico di cane bagnato. Gli occhi del
megavolpino, addobbato come il papa, erano sporgenti in una maniera
innaturale. Anche per quella razza lì, che pure pare abbia le
pupille come biglie impazzite. Nel grande flipper della vita. “Vieni
pure avanti” gli fece quello, con la zampa che gli faceva segno
d’appropinquarsi. Come i volpini che danno la mano. Juri si
avvicinò e lo vide meglio. La medesima zampa il volpinazzo se la
ficcò nella mutanda e cominciò a frugarsi mentre, posato l’osso
scettro, con l’altra mano si dava da fare a scavarsi l’orecchio
col tagliacarte. “Allora, scommetto che eri curioso di
incontrarmi”. “ A dire il vero non sospettavo esistesse niente di
simile a te” rispose Juri. “Già, mi dimenticavo che sei pure
ateo. Va bene, tagliamo la testa al toro, io sono dio.” Rimase a
guardarlo per studiare un qualche segno di stupore ma dopo tutto
quello che gli era capitato nulla più poteva creargli grandi
stravolgimenti, nemmeno un volpinone polveroso e maleodorante che
sosteneva d’essere dio. “Forse per te sarò maleodorante ma sappi
che tra i volpini il mio odore è considerato paradisiaco.” S’era
dimenticato che quell’altro poteva leggere nel pensiero. “Faccio
portare qualcosa da bere? David”. Comparve un tipo parecchio zarro,
con la sciarpa della Juve al collo, la faccia devastata dall’acne e
lo sguardo spento. E lui per un momento s’era immaginato che gli
sarebbe comparso quell’altro, quello che aveva fatto un culo tanto
a Golia. Ma no, a giudicarlo così, questo David qui, appena entrato
in scena, a nominargli Golia avrebbe risposto che non gli piacevano
le liquirizie. “Dio fa” disse, con voce ottusa, confermando il
sospetto iniziale. “Non ti sopporto” squittì isterico il dio
volpino “sono sette anni che lavori alla centrale logistica e tutto
quello che sai dire è sempre e soltanto dio fa. Ma cosa cazzo vuoi
che faccia, dillo una santa volta. Sono il creatore, l’essere
supremo, ho un curriculum di novanta cartelle e parlo pure diverse
lingue. Non ti basta.” E, per rafforzare la stizza, il volpinone
che diceva d’essere dio afferrò un busto di pietra che teneva
sulla scrivania, una scultura che magari aveva pure il suo bel valore
di mercato, e la lanciò contro la parete di fronte. Colpendo il
monitor gigante. Che esplose con grande fragore. “Dio fa” disse
il mentecatto guardando il disastro. “Forse tu puoi capirmi”
disse il dio volpino rivolto a Juri “sono anni che ripete solo
quella frase e non mi è chiaro nemmeno cosa intenda. Per lui sono
stato più di un padre, l’ho accolto nella mia casa, l’ho fatto
dormire nel mio letto.” Pausa. Il volpinazzo struffo mentre citava
il letto aveva avuto un sussulto e era rimasto lì, con la zampa
sospesa nel gesto. “Lasciamo stare. Avremo modo di conoscerci
meglio. E tu, vacci a prendere una bottiglia di quel Merlot che ci
siamo accaparrati con l’arrivo nel nostro Paradiso di quel
viticultore friulano.” Tutta la scena era stata recitata con il
cane-dio che aveva una voce stridulisterica che nei picchi peggiori
si perdeva nelle frequenze degli ultrasuoni. Quelle dei fischietti
per i cani, pensò lui. L’altro, il dio volpino, aveva ripreso
quello che avrebbe dovuto essere un sorriso e lo guardava con un
certo compiacimento. “Allora cosa te ne pare.” “Di cosa?” “Ma
di tutto questo, è ovvio.” “Mi pare che se questo è il Paradiso
è parecchio approssimativo e forse sarebbe bene che qualcuno
scendesse da quegli altri, quelli aggrappati ai rosari, quelli che
grattano con la zampa pentita alla grata del confessionale, quelli
che non desiderano la donna d’altri, quelli degli atti impuri, e
gli dicesse almeno di rilassarsi che, se aspirano a venirsene qui a
passare l’eternità, è bene che sappiano che i lavori sono ancora
in corso e proprio di pace eterna ancora non si può parlare.”
Mentre diceva queste cose gli scappava pure da ridere. L’altro
invece aveva preso una piega seria del muso e si scovolinava con
frenesia le narici col tagliacarte. “Capisco quello che vuoi dire,
ma sai quanto costa mantenere tutto questo. Noi produciamo cultura.
Noi siamo cultura.” Queste ultime due frasi, scandite con l’occhio
vitreo, dovevano essere una sorta di copione fisso. “Che cultura”
chiese lui. “La cultura” rispose l’altro. E rimase lì con lo
sguardo fisso. Si riprese con un sussulto, aprì una scatola di legno
che teneva sul tavolo e si strofinò un unguento dal forte odore
balsamico sulle guance. “I paradisi sono come centri commerciali.
Per i primi era tutto facile. S’imbastiva un piano di mercato,
s’inventavano dei testi sacri, si trovava il modo di veicolare con
l’apparato di messia, profeti e maestri e si acchiappava una bella
fetta della torta. Volenti o nolenti tutti dovevano passare da lì, i
paradisi e relativi inferni erano un passaggio obbligato. I primi dei
erano ancora poco abili nell’attività promozionale ma poi c’è
stata l’era dei grandi comunicatori, tipi tosti col senso
dell’umorismo, che sono arrivati a dire ai loro adepti che per
accedere al paradiso bisogna tagliare la punta del pisello ai bimbi o
negarsi il piacere di un salsicciolo o di una fetta di pancetta
coppata. Giusto per vedere se quegli altri, gli uomini, arrivavano a
seguire qualsivoglia comandamento o dettame. Roba da pazzi. A
pensarci ancora non ci posso credere. Poi c’è stata, per così
dire, una certa liberalizzazione del mercato. Le necessità dell’uomo
moderno si sono andate via via definendo sulla base di sottili
divisioni sociali e politiche. All’interno delle fedi massa c’è
stato un proliferare d’altri credo. Più o meno plausibili. C’erano
quelli che cercavano la forza interiore, quelli che rifiutavano la
trasfusione, quelli che trombavano le galline. Un universo indistinto
e confuso. E ogni volta c’era da inventarsi un paradiso plausibile,
visto che la gente non poteva concepire come ricompensa gli eterni
cori angelici. Almeno non dopo la comparsa sulla terra dei Rolling
Stones. Per non parlare delle novantanove vergini. T’immagini la
fatica di spulzellarle tutte. O il casino di farsi il bagno in un
fiume di miele. Mancavano solo le case di marzapane e si faceva
tombola. A questo punto, superato col minimo dei voti l’esame
d’ubiquità, decisi di discutere la mia tesi dal titolo “Il dio
cane. Teoria e tecnica della comunicazione della fede volpinica”.
La media era bassa e lo stesso relatore poco convinto ma a me
interessava quel pezzo di carta per potermi mettere in proprio. Mio
padre aveva investito tutto in un’area che il piano regolatore non
aveva ancora inserito nelle zone da adibire a paradiso. Unsi gli
ingranaggi giusti e mi mossi a tutti i livelli e nel giro di quello
che per voi possono essere settecento anni e per noi sono nulla di
fronte all’eternità, mi ritrovai titolare di una licenza
d’esercizio divino. A quel punto, e siamo ai giorni nostri, anzi
per meglio dire tuoi, che per me la scansione cronologica ha un altro
sistema convenzionale di calcolo, mi ritrovai titolare di un’area
paradisiaca. A quel punto c’era da stipulare le convenzioni con i
campi profughi del purgatorio e, più in giù, con qualche istituto
di pena eterna. Per farlo c’era da definire premi e peccati. Mi ci
misi d’impegno ma non ero mai stato bravo in materie umanistiche e
la mia dottrina, una volta ultimata, mostrava gravissime lacune ed
era in alcuni punti contraddittoria. La commissione apposita me la
bocciò quasi totalmente, salvando le parti di premessa sul culto del
Sacro Volpino e dando per buoni anche certi presunti manoscritti
antichissimi che avevo confezionato con l’aiuto di un vecchio
stampatore che nei suoi giorni migliori era riuscito a piazzare una
dozzina d’efficacissime tavole a Nostrosignore, uno dei più
quotati sul mercato. I rotoloni sul culto del dio cane, con tanto di
disegni esplicativi, che poi il resto era scritto in un misto di
lingue morte e col quoziente intellettivo medio che regna sulla terra
c’era poco da fidarsi che qualcuno ne capisse il senso al volo,
furono piazzate in una cantina di un supermercato. Sperando in un
fortuito ritrovamento. Li usarono per incartare certi pacchi, che
furono spediti chissà dove. Allora provammo con gli scavi
archeologici. Una spedizione in Turchia ci sembrò l’ideale.
Cercavano una grossa barca che, secondo loro, aveva contenuto due
esemplari di qualsiasi essere vivente e che si era poi incagliata in
mezzo alle montagne. Ci sembrò, e parlo al plurare, che all’epoca
si era unita ai miei sforzi quella che poi sarebbe diventata mia
moglie, che gente disposta a credere a certe fregnacce poteva
sicuramente prestare attenzione a dei veri manoscritti svelatori di
culto. Piazzammo i rotoli al centro del loro percorso, proprio in
mezzo del sentiero. Li trovarono le due guide curde e li infilarono
nei loro zaini. Forse pensando di sottoporli all’attenzione degli
archeologi. Non lo sapremo mai perché i due furono massacrati
dall’esercito regolare turco. I loro corpi, bagagli compresi,
furono gettati in un profondo crepaccio e dei rotoli non s’ebbe
notizia. Ammesso che si siano salvati dai colpi di mitra. A quel
punto ero rimasto senza copie e con quello che mi erano costate non
me la sentivo di rischiare ancora. Rimasi per giorni a pensare e alla
fine ebbi l’illuminazione. Altri dei avevano affidato la diffusione
del loro prodotto a rappresentanti, di volta in volta identificati
come profeti. Uno dei successi migliori era stato però quello
ottenuto mandando sulla terra un rappresentante di culto regolarmente
iscritto all’ordine ma pubblicizzandolo come figlio di dio. Decisi
di fare le cose in grande. Con mia moglie le cose andavano bene ma,
considerato che sono dio e le leggi le faccio io, presi altre
centododici concubine e mi diedi da fare. Le cucciolate non si fecero
attendere. E io cominciai a invadere la terra di volpini che dovevano
morire in nome mio. Come redentori. Per non disperdere il verbo
scelsi alcuni soggetti cui destinare il messaggio e ogni volta che un
volpino moriva inascoltato, e comunicare non era facile, un altro era
pronto a sostituirlo. Dotai ognuno di un volpino custode ma visto gli
inconvenienti cui andavano incontro i miei figli, portatori del
guaito sacro, decisi di assegnare il suddetto alle anime solo una
volta che le stesse fossero giunte in paradiso. Per ora non ho ancora
ottenuto molto seguito, anche se le gesta di un mio figliolo inviato
nel deserto australiano e venuto in contatto con alcuni aborigeni
fanno ben sperare. Così sono costretto a comprare le anime per
popolare il mio paradiso, scegliendo tra i lotti di quelli che non si
sono troppo applicati in nessuna fede e anche lì, come nel tuo caso,
a volte ramazzo anime dubbie, solo perché sono state comunque
oggetto di tentativi assidui di redenzione, a suo tempo, da parte dei
miei innumerevoli figli. Tu sei uno di questi.” Juri rimase in
silenzio. Non c’era motivo di non credere al volpinone
spelacchiato. Soprattutto dopo tutto quello che aveva già visto.
“Perché avete scelto me?” chiese. “Oh, è la parte più
semplice. Prendevo le guide del telefono, aprivo una pagina a caso e
piantavo un dito sul nome tenendo gli occhi chiusi. Pura fortuna.”
La chiamava pure fortuna. Tutto quel morire di volpini. “Ma allora
come si spiega quel volpino che mi ha fatto fuori.” “Quando
qualcuno accetta di entrare nel mio paradiso, lo fa accogliendo tutti
i precetti del mio credo e ti assicuro che sono cose blande rispetto
a certe altre fedi guerriere. Poi si ha diritto a esprimere un
desiderio. In un certo senso la tua morte era il premio per qualche
nuovo assunto in cielo. Ma nulla ti sarà svelato prima del tuo
ingresso. Accetti d’essere anima nel paradiso del Dio Cane?” Chi
avrebbe potuto volere la sua morte come ultimo desiderio in terra. “E
se non volessi?” “Ti rispedisco ai campi di raccolta del
purgatorio.” La prospettiva non gli pareva molto allettante.
“Vabbè, accetto” “Ne ero sicuro, sei uno sveglio. Ora il tuo
volpino ti porterà alle camere di catechesi. Rilassati e tutto
passerà veloce. A breve sarai membro ufficiale del nostro paradiso.
Complimenti per la scelta. Ora scusami che ho da accogliere un
mucchio di argentini famelici che non so come cazzo sono finiti qui e
se non mi sbrigo mi mangiano tutta la tappezzeria. Ci rivedremo alla
Grande Cagnara.” Il siparione calò e si sentì un tramestio misto
a ringhi e frasi sconnesse in una lingua impossibile.
Seguì
il volpino lungo un corridoio con le pareti dipinte verde fluo. Chi
si occupava dell’immagine doveva fumare qualcosa di veramente
potente. Arrivarono in un salone che sembrava la sala d’attesa
della mutua, con certe seggioline, scomode per principio e dei
divisori che erano il confine marcato tra un reparto e l’altro, o
tra un malanno e l’altro. Dopo di lui entrarono schiamazzando una
trentina di individui scalmanati. Sembrava una tifoseria scalcagnata
che entra in un autogrill. Li riconobbe. Erano gli argentini. I loro
volpini, coperti da segni di morsi recenti, si affannavano a tenerli
a bada e ci sarebbero voluti dei pastori maremmani. Uno lo riconobbe
e accennò a salutarlo ma lui si girò dalla parte opposta. “Fai
bene a non cagarli, sono uno dei peggiori lotti che il rimba abbia
mai tirato su.” “Il rimba?” “Si, noi lo chiamiamo così il
tuo dio volpino.” “Ma non è il padre di tutti voi.” “Di
quasi tutti, ma va a sapere, le mamme certo non sono delle sante e
quelli del reparto infernale sono dei demoni.” “Ma adesso parli
abbastanza bene.” “Hai accettato di entrare in Paradiso e questo
è il primo passo. Continuo a emettere i miei uggiolati e versi
volpineschi ma adesso tu li capisci. Prima, quando mi sforzavo di
parlare il tuo linguaggio, per poco ci lasciavo le tonsille.” “Ma
i volpini hanno le tonsille.” “E che cazzo ne so io, chiedilo a
un veterinario. La preparazione di base di un volpino custode è in
proporzione a quella del suo destinatario e quindi io non so un cazzo
di niente.” “Grazie.” “Figurati.”
Intanto il
volpino s’era fatto largo nella calca ed era arrivato davanti alla
porta dove c’era un’angela del tutto simile a quella che lo aveva
guidato al suo arrivo. Si guardò attorno e vide che come lei ce
n’erano altre trenta almeno. Si risparmiò il saluto. “Che c’è”
disse lei guardandolo fisso negli occhi e attivando quella voce
vellutata che lo mandava in delirio ormonale “fai finta di non
riconoscermi. Eppure mi pareva che non ti fossi del tutto
indifferente.” “Scusa, ma siete tutte uguali.” “Davvero
carino” mormorò lei con un sorriso sarcastico “Lo porto dentro”
le disse il volpino.” “Allora si è deciso.” “Pare di si.”
“Passa.”
Entrarono
in una stanza più piccola, con un tavolo e una sedia. “Mettiti
tranquillo, sarà cosa di un attimo.” disse il volpino.
Attese
diversi minuti. Una porta sul fondo si spalancò ed entrò
indaffarata un’altra angela con un cortissimo camice aperto
generosamente sulla scollatura. Lui sorrise indeciso. “Buongiorno e
benvenuto al corso di catechesi.” “Buongiorno a lei.” “Forse
potremmo darci anche del tu, considerato che non è la prima volta
che c’incontriamo, ” fece lei ammiccante. “Ah, scusa, sei di
nuovo tu, credevo fossi addetta all’accesso alla stanza.” “Tutti
così voi uomini. Aspetta che mi faccio portare la tua
documentazione.” Premette sul pulsante di un interfono a muro e
disse “Pratica 4544LG.vol”. La porta si aprì di nuovo e entrò
un’angela del tutto identica alla prima, vestita di una
aderentissima salopette in latex rosso con i glutei scoperti.
“Buongiorno” disse l’angela segretaria. “Salve” “Sono
contenta che ti sei calmato, ho avuto il mio bel daffare a tenerti a
bada prima.” “Ma allora era lei” “Puoi darmi del tu, in fondo
ci conosciamo abbastanza bene o forse hai bisogno di un promemoria”
e così dicendo l’angela si girò mostrandogli il culo scoperto.
“Anche con me ha detto di non ricordare”, disse ridendo l’angela
dottoressa. “Fanno tutti così.” “Già.” Lui le guardava
stordito. “Lasciale perdere, si divertono a fare le troie ma non
sono cattive” ringhiò da sotto il tavolo il suo volpino. “Va
bene, passiamo alla sua pratica. Credo che il trattamento di base per
lei sia più che sufficiente. Non per altro ma mi pare piuttosto
frenato nel recepire le novità. Se ci fossero problemi, possiamo
incrementare con una serie di sedute Igaf, ma credo non ce ne sarà
la necessità.” Poi l’angela si abbassò sotto il tavolo e disse
al volpino “Portalo al padiglione di Esperia.” La vide sparire
sotto il mobile e di lì a poco distinse gli armeggi che preludono al
pompino. Lasciò fare. Per pura cortesia.
Il
padiglione Esperia era un parco pieno di piante belle e rare e
panchine e fontanelle. Sembrava di stare in una di quelle località
termali dove la gente si aggira con degli enormi boccali di acqua
putrida che però fa parecchio bene alla salute. Tutti hanno l’aria
di stare in paradiso e sorridono malgrado il disgustoso odore della
spremuta di zolfo che pure sono costretti a trangugiare. Quell’aria,
per quelli che stavano lì, era pertinente. Si trovavano in Paradiso.
Senza nemmeno la scocciatura del boccale d’acqua termale. “Aspetta
qui” disse il volpino, indicando col muso un’altalena. Juri non
sapeva se si trattasse di un ordine da mettere in relazione con la
catechesi o più semplicemente era l’ennesima puttanata del suo
volpino scarto. Senza sapere né leggere né scrivere si mise a
sedere sulla tavoletta di legno e si lasciò dondolare mollemente.
Non era riuscito mai a farla andare a dovere l’altalena. Nemmeno da
piccolo, quando s’ingaggiavano dei duelli in parallelo a chi
arrivava più in alto, lui restava con le gambe anchilosate che
s’irrigidivano per imprimere il giusto moto pendolare. Senza
successo. Per non parlare del timore sacro che gli incutevano gli
scivoli. Attese parecchio e si stufò pure di dondolarsi. Si sdraiò
sull’erba e poco alla volta si lasciò andare al sonno.
L’alito
del volpino direttamente inalato a pochi centimetri dal naso non è
il migliore dei risvegli ma per uno che si era addormentato anche nel
tubo di scolo delle fogne di Saragozza fu sopportabile. Tanto morire
non si poteva. “Alla buon’ora” gorgogliò il volpino, che
adesso gli pareva pure di riuscire a distinguere nel brulichio
d’altri cagnastri lì attorno. “Sono andato a cercarti una
somministratrice del Sacramento Unico ma c’era la riunione
sindacale e me ne sono andato allo spaccio a bere qualcosa.”
“Potevi chiamarmi.” “Non ti allargare. Va bene che sono il tuo
volpino custode ma mica posso portarti allo spaccio dei volpini. Se
non altro perché è a misura nostra e per entrarci dovresti
strisciare.” “Se vuole qualcosa di fresco ci sono io” disse
l’angela somministratrice di sacramenti che il botolo s’era
trascinato dietro. Tutta nuda. Aveva il cazzo e le tette. Ancora
l’incredibile sesso degli angeli. Stavolta Juri cercò di non
cascarci. “Ciao, ci si reincontra continuamente oggi” disse
gioviale. “Cerca di non prenderti troppe confidenze” rispose
lei/lui con l’aria d’essersi innervosito/a e una inequivocabile
erezione cominciò a cambiargli la volumetria di certa parte del
corpo. Juri s’ammutolì. “Bando alle ciance” intervenne il
volpino “ ora tu riceverai il Sacramento Unico e diventerai
ufficialmente un’anima di questo Paradiso. “Ma in cosa consiste“
chiese lui titubante, senza smettere di guardare il cazzo dell’angelo
che cresceva a dismisura. “Rilassati, vedrai che ci farai
l’abitudine e alla fine ti piacerà.” L’esperienza carceraria
di Juri non era trascorsa invano. Si alzò in piedi e si mise in
posizione difensiva. A gambe larghe e con la guardia alta. “Stammi
lontano.” L’angelo sorrise e il pene, rosso come un giaggiolo, si
ritirò repentino e fu inghiottito dal ventre che si trasformò in
un’inequivocabile passera rasata. Con tanto di tatuaggio sul monte
di Venere. Poi l’angela si voltò, mostrandogli le terga e
abbassandosi a frugare in una borsa sportiva che si era portata
dietro. E ora era proprio palese che si trattava di una femmina.
Questi cazzo di angeli cominciavano a fargli perdere la pazienza. Lei
si risollevò. “ Strano” disse “pensavo che avresti
approfittato di me.” “Ne ho le palle piene di approfittare.
Ditemi cosa c’è da fare e tagliamo la testa al toro.” “Come
vuoi” l’angelo stringeva in mano una scatoletta simile a quelle
grosse di cibo per cani. Si sedette a terra con il barattolone in
grembo, frugò ancora nella borsa e tirò fuori un apriscatole.
Armeggiò col coperchio e quando la scatola fu aperta gliela porse.
“Mangiala tutta. Questo è il tuo Compito. Il mistero si compia in
Terra e in Ciotola e oltre ogni segno del Cane Assoluto. Ululiamo al
cielo.” Nel barattolo c’era davvero cibo per cani. L’odore era
inequivocabile e ributtante. L’etichetta recitava “con carne” e
c’era da chiedersi cos’altro era il resto, se quello che pareva
uno spezzatino aveva la carne come special guest. “Non ho nessuna
intenzione di farlo.” “Allora non sarai idoneo” intervenne il
volpino “e verrai spedito di corsa al purgatorio, che nel tuo caso
è un campo profughi al confine col paradiso israeliano.” “Vorrai
dire il paradiso degli ebrei.” “Macchè, quella è una roba
seria. Certi israeliani si sono inventati il credo del territorio e
quelli di loro che abbattono una casa con una ruspa o stroncano con
una raffica un bimbo vi accedono senza problemi.” Cazzo, non era il
caso di finire in quel purgatorio. “Avete almeno una forchetta e
qualcosa di forte da bere.” “A te la posata” fece l’angelo
sorridente “e una fiaschetta di ambrosia, la bevanda degli dei.”
“Avrei preferito una bottiglia di Refosco.” “Fa parte del rito”
ringhiò basso il volpino.
A dire il
vero i bocconi di cibo per cani non erano male, masticando sentiva il
trito fino di ossa, probabilmente di qualche incredibile bestia
morta, scartata da tutti i macelli del reame. Se questa era la prova,
si poteva anche superare. “Mangia, mangia” disse il volpino con
ghigno canzonatorio “vedrai che bel pelo lucido ti verrà, vincerai
un bel po’ di concorsi e ti accoppierai con le più premiate della
tua razza e i tuoi figli saranno venduti a peso d’oro.”
“Fottiti.” Juri afferrò la fiaschetta di ambrosia e bevve un
grosso sorso. Quella si che era merda pura. Un sapore stucchevole che
andò a impastarsi con quello dei bocconi per cani. Con esiti
devastanti per le sue papille. “Dio cane che schifo.” “Vedo che
comincia a fare effetto, hai invocato il tuo Dio Giusto. Bene, sei
pronto.” Posò in terra il barattolo. “Che fai,” intervenne il
volpino, “la scatoletta la devi finire.” Mai una volta che si
faceva i cazzi suoi quello stronzo di cane.
E furono
minuti lunghi anche per uno che si stava garantendo la pace eterna.
Forse.
L’angelo
era identico a tutte quegli altri/altre che avevano impegnato la
scorta ormonale di Juri e allo stesso tempo l’avevano riempito di
dubbi sul sesso reale di quelle creature paradisiache. “Ora sei
pronto” disse solenne, sollevando appena la minigonna in pelle
nello slancio del declamare. “Hai dimostrato d’essere degno e sei
fortunato. Da lunedi scatta la nuova selezione e questa puttanata
della scatoletta del cibo per cani verrà sostituita da un test
psico-attitudinale di miglior serietà. Ora varca pure la Porta ma
prima ti chiedo di esprimere il tuo desiderio, dono del nostro
Eccelso agli illuminati. Non dirlo, pensalo soltanto e se possibile
ti accontenteremo. Facciamo del nostro meglio ma non è che possiamo
fare miracoli.”
Ad
accompagnare Juri alla porta ci pensò il volpino. Attraversarono un
campo da golf con l’erba arancione e poi salirono su un trenino a
carbone. Viaggiarono per una mezz’ora circa. “Scendiamo, è la
nostra fermata. Sbrigati.” “La stazioncina sembrava quella di
Ferrandina e di tutti quei paesini dove hai la sensazione di varcare
un labilissimo confine mai tracciato davvero ma presente e le facce
impassibili di quei pochi attorno non ti vogliono dare la
soddisfazione della conferma. Passarono la sala d’aspetto.
D’aspetto triste. Passarono l’androne. Passarono il parcheggio
dei taxi. Parecchio vuoto. Camminarono su una strada in mezzo a campi
di soia, con certe cimici di campagna che affollavano il bordo della
strada e schiacciandole producevano un lezzo insopportabile.
Arrivarono infine a un cancello in ferro battuto. Il volpino spinse
col naso su una tastiera componendo una combinazione. Sbagliata. La
porta rimase chiusa. Riprovò altre volte, sudando di lingua, come
suda un cane di quella razza lì. Al quinto tentativo la porta cigolò
e si aprì. Col lampeggiante giallo del cancello elettrico a
segnalare il pericolo di organi in movimento.
“Eccoci
arrivati” disse il volpino affannato “ora prosegui sempre dritto,
il Paradiso è lì. Io passo all’ufficio accettazione a sbrigare
due pratiche, ci rivediamo dopo.” Lui fece un cenno di saluto ma
l’altro si era già voltato e zampettava verso un edificio, simile
a una piramide di Tikal, che stava in fondo a un viale alberato. Juri
s’incamminò sotto il sole porco che lo faceva scoppiare di caldo.
Proprio di essere in paradiso non sembrava. Poi vide un faro in
lontananza. Di giorno. Una moto. Ebbe un’intuizione. Una speranza.
Il suo desiderio. La Guzzi, perché ora ne distingueva il pulsare,
stava trottando verso di lui. Gli veniva incontro e se avesse avuto
la coda l’avrebbe mossa frenetica. La guidava qualcuno nascosto da
un casco integrale nero. L’ennesimo angelo, pensò lui. La moto si
fermò davanti al suo sorriso. Il pilota mise il cavalletto e smontò.
Si tolse il casco. “Isabel” riuscì a dire lui, guardando la
ragazza che rideva e rimaneva lì, a pochi centimetri. “Che ci fai
qui col mio desiderio.” “Sono qui per consegnarti la tua Guzzi,
il tuo desiderio d’Illuminato e allo stesso tempo riscuoto il mio.”
“Il tuo cosa?” “Il mio desiderio,” disse lei con la faccia
divertita “Ho dovuto aspettare che passassi da questa parte
dell’esistenza. Ora tocca a me” e lo baciò con certe labbra
calde che una morta non dovrebbe avere.
Fine
“Ma
scusate, voi siete stato generosissimo, però a questo punto io che
devo fare.”
“Dovete
giocare, e, se vincete, a me va l’otto per cento.”
“Ma
tutti questi fatti, tutta questa gente, io adesso come mi regolo.”
“Quello
che potevo fare l’ho fatto.”
“Abbiate
pazienza, ma, se proprio mi volevate aiutare, mi raccontavate un
sogno piccolo, che non vi faceva fatica, e io mi pigliavo belli belli
i numeri miei. Sicuri. Con tutte le cose che mi avete raccontato che
posso fare io.”
“Ma che
andate trovando, siete venuta a cercarmi un sogno e io ve l’ho
dato. Non potete pagare e io vi ho riferito questo sogno qui, che lo
tengo pronto da un sacco di tempo ma che nessuno lo chiede. Se
tenevate le possibilità veramente, vi facevo un sogno pulito che
c’era solo da capare cinque numeri e quelli sicuro che uscivano.
Voi vi dovete accontentare.”
“Almeno
datemi qualche parere.”
“Che
volete che vi dica, non ho mai giocato in vita mia. Non è serio.”
“Tutti
quei fatti, gli elefanti, la nave, la ragazza, le bombe, se ci penso
esco pazza.”
“Non
saprei come consigliarvi, giocate come vi sentite e vedrete che
farete bene.”
Detto
questo, l’uomo si congedò con un cenno, infilò il casco e partì
con la sua vecchia moto scassa, lasciandosi ingoiare nel ventre
antichissimo della città. La donna avrebbe potuto guardare la
scritta sul serbatoio ma gli passò di mente. La testa affollata
d’altri ingombri.