venerdì 20 gennaio 2023

Mi sono creato da solo ma David Crosby ha delle responsabilità

 






Mi sono, nel bene e nel male, creato da solo. Ci ho messo qualcosa di più di sette giorni. Prima il respiro che non usciva, l'ho inventato a poche ore dalla nascita, che già mi davano per morto. Poi imparare a guardare e a parlare, subito pare e in una maniera che lasciava sgomenti. Parlavo e ero piccolissimo e argomentavo. L'agiografia famigliare dice che avevo sempre da ridire e avevo un parere mio su tutto prima di compiere un anno. Era la mia strategia difensiva credo. Che l'ho capito che toccava guardarsi le spalle da solo già da subito. Poi camminare, male, sempre incasinando un passo davanti all'altro. E correre e cadere e la bicicletta e parlare con tutti gli animali e provare a inseguirli e stare per ore a guardarli. Ho imparato a leggere con fatica e scrivevo malissimo e in giro in giro per il foglio. Forse avevo qualche disturbo dell'apprendimento ma allora si diceva solo che ero uno che non aveva voglia di fare un cazzo a scuola. Probabile. E intanto mi creavo da solo con quello che c'era. Come un piatto arrangiato con le cose che trovi nel frigo la sera tardi e sei stanco. E poi sono venuti i libri e i fumetti e i film guardati in bianco e nero con mio padre alla televisione. I boschi e l'acqua e cominciare a scoprire che ne valeva la pena. Guardare il mondo perdendosi nell'attenzione ai particolari, come in certe tavole complesse di Jacovitti che stai lì a scoprire per ore. Mi sentivo padrone del mio mondo. Ed è arrivata tutta insieme quella maledizione di una voglia che ti prendeva allo stomaco e ti ingombrava tutti i pensieri. Le femmine erano al centro di tutto ma tu non eri al centro di niente per loro. Una maledetta fatica. E allora i libri non bastavano più e avevi un carico di emozioni che non sapevi dove parcheggiare ed è cominciata quella cosa lì di ficcarti, saltandoci dentro a piedi uniti, nella musica. Altro che la memoria imbarazzante dello Zecchino d'oro e dei quarantaquattro gatti che cantavi gridando in auto fino a scoppiare. Per la gioia della famiglia che aveva preso a trattarti come si tratta un forsennato. Sono arrivate le canzoni e ho fatto come faccio sempre. Mi sono letto di tutto, ho ascoltato per ore la radio ogni giorno, mi guardavo in giro. Studiavo. Stavo zitto e cercavo di imparare. Il primo vinile è stato Bob Dylan. Avevo un disco ma non avevo un giradischi. Costruire da zero tutto il mio Empire of dirt, citando Cash che fa una cover meglio dell'originale. Il primo stereo era, giuro, un giradischi mono collegato con i fili volanti al bauletto di una vespa Px appeso al muro e su cui, come usava, erano montate delle casse. Come dici? Come facevo ad averci il bauletto di una Vespa? Non ricordo. In ogni caso è in prescrizione. E avevo un registratore a cassette con la radio che era un bel modo di allora per sentire la musica. Al punto che per anni ho avuto solo cassette e pochi dischi feticcio. Migliaia di C90 con due album registrati, uno per lato, e le copertine scritte a mano e disegnate da me medesimo.  E sono arrivati Crosby, Stills, Nash and Young. Credo che Deja vu sia il disco che ho ascoltato di più nella mia vita. E poi i dischi da solisti e la monumentale opera di Young e il sogno delle ore di registrazione con Hendrix che Stills conserva gelosamente e che non è stato pubblicato.  E poi Crosby, quella voce lì mi ha inchiodato le emozioni all'anima, come le tesi luterane al portone della chiesa. Mi ha cambiato la vita. Una parte irrinunciabile. Me lo sono portato dietro fino qui che mi sono creato tutto da solo e ora comincio a vedere le crepe in quell'argilla da poco. Crosby è parte preponderante della mia personalissima colonna sonora. E ora è morto. Abbiamo giocato ogni volta che lo sentivo a credere nell'immortalità e a ridere di quei complottisti che sostengono che anche uno come lui è destinato a morire. E oggi è morto. Un giorno Ste mi ha portato ad Aosta a vedere Crosby Stills e Nash e erano già vecchi e viaggiavano ognuno su un autobus nero enorme suo. Senza guardarsi in faccia. Ma sotto quel palco, c'ero andato sospettando la delusione, Crosby si è proposto al pubblico come se il tempo non fosse mai esistito. Una voce miracolosa. E io ero arrivato lì con la paura di fare i conti con il reale. Sembravo quel suo personaggio che guarda nello specchietto e vede l'auto di madama e si fa stringere al collo dalla mano della paranoia. Crosby è morto e io mi sono creato da solo usando anche quelle sue canzoni. E grazie a lui ricordo ancora il mio nome. Quasi sempre. Ma avrei voluto chiamarmi Crosby e forse per questo il mio cane si chiama Nash.

Ciao Croz

lunedì 9 gennaio 2023

primo movimento

 


Primo movimento


Il campetto giù allo scalo è invaso dal primo sole veramente estivo. I ragazzini corrono dietro al pallone gridando. Al Guasto, per arrivare lì, gli è toccato passare davanti al bar della stazione. C’era da giurarci che suo nonno se ne restava lì al tavolino a sentirsi passare gli anni addosso, bevendo quel vino avvelenato e berciando con quegli altri rancidi a chi era nel giusto e chi nello sbagliato. Qualsiasi fosse l'argomento. Non gli piaceva punto passare da quella parte, sentendosi addosso gli occhi di quello schifo d'uomo con le unghie sepolte come fossili sotto ere geologiche di sporcizia e l'alito da trogolo e quel puzzo di piscio e nafta che si portava nei panni frusti. L'aveva sempre odiato quel vecchio e la cosa doveva essere reciproca. A memoria sua, la carogna, il padre di sua madre, non gli aveva mai rivolto un accenno di grazia, un sorriso, un’attenzione. Si limitava a guardarlo come fosse un cane nato con tre zampe. E anche mentre passava con i pantaloni di tre taglie più grandi che gli dondolavano sui passi come la gonna di una ballerina spagnola della televisione, giuraci che era lì a guardarlo con disgusto e la testa piegata di lato. Magari qualcuno dei suoi gli avrà anche domandato “ma non è il figliolo della Cate quello lì?”, chiedendoglielo più per dispetto che per informazione. Lui non avrà risposto, continuando a fissare quel mucchio d'ossa e pelle troppo pallida. 


Abitavano vicini il Guasto e suo nonno. Proprio la stessa casa ma con due porte diverse per entrarci. Il padre era sparito in Belgio e dopo le prime lettere e qualche spicciolo non ne avevano più avuto notizia. La Cate andava a servizio dalla moglie di quello del Consorzio e dice che si consolava con diversi maschi della zona. Era una cosa che si sapeva e a scuola ogni tanto qualcuno gli soffiava come un serpe “Guasto, tua madre è una troia”. Anche al nonno erano arrivate le voci e la sera in casa si sentiva gridare a volte. Dopo una cena ringhiata il vecchio merdaiolo era andato vicino a farla secca con un bottiglione del vino vuoto. Glielo aveva tirato dietro mentre lei si alzava dalla tavola dove dividevano quello che c'era. Di suo, il Guasto s'era convinto che la rabbia del nonno dipendesse da quella maledizione di dover contribuire a sfamare la figlia e il nipote. E poi c'è quella storia del nome, che lui mica se lo ricorda quando hanno cominciato a chiamalo “Guasto” ma quando gli viene quella rabbia lì, che la conosce solo lui e che gli sale dalla pancia alla gola con il sapore amaro di fiele, gli monta il sospetto che quella maledizione d'essere chiamato da tutti così deve essere un regalo, l'unico, del vecchio. Giuraci che è stato lui a cominciare a chiamarlo così con gli amici del bar allo scalo. Dove sta anche adesso e lo guarda e fa la faccia dello schifo. Remo, che così si chiama il Guasto all’anagrafe, va avanti e non si gira, fissando piuttosto l'attenzione sulle lucertole che fuggono al suo passaggio. Lui lo sa bene che se ti muovi piano, pianissimo, quelle bestie lì le freghi e le puoi prendere con il cappio fatto con l’erba lunga e tirarle su allo strangolo e guardare che spasimano di riuscire a infilarsi nei loro buchi. Le tieni sollevate e ti godi quella frenesia disperata come fossi dio che manda le piaghe sulla sua gente.


Il campetto sta lì, riempito dalle urla e dai colpi secchi sul pallone di cuoio consumato. Rubato alla palestra della scuola media di Sapriano, il paese vicino. Perché il cane non piscia mai dove mangia dice il vecchio Morchia che ha fatto il ladro tutta la vita. Le scarpe di tutti non sono buone per quell'agone sportivo e giuraci che a casa qualcuno stasera si prenderà le sberle. Non è certo un problema del Guasto. Lui non gioca. Sta a guardare di là dalla rete e resta seduto sulle seggiolette di plastica ingiallita messe da un improbabile pubblico improvvisato. Nell'erba sporca ci sono due ragazzetti che non sono in età per stare lì in mezzo a giocare ma restano nei paraggi perché può sempre succedere che vengano chiamati dentro a rimpiazzare qualcuno. Stanno lì come i cani sotto il tavolo, che s'approfittano dei pezzi di pane che cadono in terra. E intanto guardano quegli altri che corrono e rotolano nell’erba zellosa e si gridano i morti e i parenti. Ogni tanto arriva anche Simone che ha la stessa età del Guasto e andavano all’asilo insieme ma non si sono mai dati troppa confidenza. Non gioca a pallone, sembra lui il pallone, è grasso e ha gli occhiali con la montatura verde smeraldo e le lenti tondissime a enfatizzare la grossa testa e gli occhi sbarrati. Va in giro con un cagnetto secco e basso, nero focato. Simone lo chiamano con un elenco di trovate spiritose che hanno a che fare con il peso in eccesso e gli occhiali e la puzza dei piedi. Inventano i nomi le rare volte che lo chiamano ma non è mai per cercarlo davvero, piuttosto per ridere a bocche spalancate, di quello sguaiarsi di rabbia e acido dello stomaco alla bocca, che non ha nulla da spartire con il divertirsi. Però lui ha il cane che gli gira attorno allegro, pensa il Guasto. Poi vede un’altra lucertola sul muretto. Immobile al sole. Il rettile muraiolo aspetta una mosca o un altro insetto da acchiappare al volo. Cerca il bastone il Guasto, quel legno nodoso che si porta sempre dietro. Con l’aria di essere un pastore del presepe, che la consistenza del suo pelle e ossa è come la cartapesta e la somiglianza con i pupazielli che il prete mette nello scenario della natività a fine anno è sputata. Solleva lentissimo quell’arma primitiva il Guasto, scortecciata con il coltellino che gli ha regalato la madre dicendo di non perderlo che era svizzero. Lui la Svizzera non ha idea di dove sia, ma quei coltellini devono essere una cosa rarissima. Lui lo sa che la madre il suo l’ha preso dalla scatola dell’armadio. Ci tiene quelle cose segrete che sono i ricordi e le fotografie dell’uomo che doveva essere suo padre ma è stato inghiottito dal Belgio, che sarà vicino alla Svizzera. 

Come una katana dei film di botte cinesi, nel controluce del sole  il bastone resta sospeso in aria, poi cala in picchiata. Sulla lucertola. La muraiola. La schianta, la spezza, la spappola. Muore. Contorcendosi muore.