venerdì 26 marzo 2021

Non ci ricordiamo e non ci ricordano

 


Qualche mese prima della grande peste. Un pugno di giorni appena. Lo scampolo di quel 2020 in cui si sussurrava già della morte nera che arriva nell'alito pesante di chi si nutre di pipistrelli e sembravano storie di viaggiatori del Catai tornati a raccontarci del Gran Cane piuttosto che la realtà che ci mordeva ai garretti e ci inseguiva per farci chiudere in casa da lì a qualche settimana. Eravamo partiti come facciamo da tutta la vita nostra. Da Torino a Milano per una serata in teatro a raccontare il nostro "Moby Dick e altre ballate del mare". Io e Ste, Federico e Matteo. Gente che a dirla amica gli farei un torto, che piuttosto la famiglia è quel pugno di persone che scegli perchè ti somigliano e sono diverse, ridono con te e di te e tu per loro fai lo stesso, e loro sono la mia famiglia, la mia razza senza pedigree. Tutti stipati come è capitato milioni di volte in una macchina, andando piano per non consumare troppo, fermandoci a mille bar e consumando noi molto più di una macchina potente e di prestigio. Ma è la vita che ci siamo scelti e non abbiamo mai preteso niente da nessuno. Arriviamo al teatro e c'è un cancello e una vecchina che fa la portinaia e vive in una stanzetta che ci viene voglia di chiederle se ci fa un risotto con l'ossobuco e siamo già pronti a andare a farle la spesa e ci siamo dimenticati dello spettacolo. Ma la scaletta scritta a matita e le prove fatte in macchina per quei sedici secondi di attenzione condivisa sono un obbligo che ci richiama alla realtà. Il teatro è piccolo e defilato, fosse la prima volta, ma è bello. A riceverci un personaggio che definirò con vaghezza enigmatico, perché per tutta la sera ci guarda come se fossimo noi quelli strani e quasi non ci rivolge la parola. Montiamo tutto e come da prassi ce ne usciamo a cercare un bar. Niente, siamo in un quartiere di gente per bene e stanno facendo il coprifuoco con largo anticipo sui decreti che verranno e che, li avessimo solo sospettati, non saremmo mai più tornati a casa la notte per i giorni che restavano. E ridevamo come ridiamo sempre tra noi. Ma è la vita che ci siamo scelti e non abbiamo mai preteso niente da nessuno. Arriviamo davanti a una pizzeria. Le luci accese. Ci affacciamo alla porta e chiediamo quattro bicchieri di vino. "Non possiamo farvi entrare solo per un bicchiere di vino, se volete vi diamo quattro bicchieri e lo bevete lì fuori" "Ma piove" "Non possiamo". Ridiamo e ci diciamo che Milano è troppo raffinata per noi se una pizzeria, che fa schifo a guardarla ma ha i tavoli disegnati da un geometra del catasto che si crede un artista, può tirarsela al punto da tener fuori noi che a Torino, a Napoli e a Udine veniamo accolti dagli osti come fossimo gli unti del signore. Restiamo con i calici sul marciapiede e piove e non sappiamo che ci stanno versando un anticipo sul disagio che verrà a tenerci fuori dal locale con la consumazione da asporto, che per me l'asporto è una roba che riguarda la milza o la cistifellea quando stai inguaiato. Buttiamo il vino nel tombino. Ma è la vita che ci siamo scelti e non abbiamo mai preteso niente da nessuno. Poi torniamo dentro, l'uomo del teatro pare non abbia mai visto prima l'impianto audio che è il suo e ci arrangiamo, lui guarda verso punti lontani, mette a fuoco all'infinito ogni volta che ingombriamo in suo campo visivo. Infastidito. Ci dice che abbiamo lasciato l'auto in un posto che non c'è problema se non fosse per il vicino che rompe i coglioni e danneggia le auto. Ci guardiamo. La macchina è la mia, una Lexus con trecentomila chilometri e rotti che mi ha lasciato in eredità mio padre e che ci sta accompagnando in giro ma che durante il lockdown mi verrà completamente distrutta da un camion o qualcosa di simile, non lo sappiamo perchè è scappato ma ha lasciato la macchina disintegrata sotto casa. La Lexus era una macchina prestigiosa con gli interni in pelle chiara e il computer di bordo e lo stereo figo e un motore potente ma ha fatto un mucchio di strada e però mi ricorda mio padre e la riaggiusto sempre. Ma quando me l'hanno sbriciolata durante il primo lockdown l'ho buttata via e m'è rimasto solo il pick up che mi hanno rubato durante il secondo lockdown. Ma è la vita che ci siamo scelti e non abbiamo mai preteso niente da nessuno. Insomma ci ficchiamo in uno stanzino che lì chiamano camerino e potrei fare un catalogo dei camerini della mia vita degno di Breton e dei vertici creativi del surrealismo. Facciamo lo spettacolo. C'è pubblico e ci siamo noi e siamo felici. Raccontiamo le nostre storie. Siamo felici così. Ma è la vita che ci siamo scelti e non abbiamo mai preteso niente da nessuno. A fine spettacolo la gente si ferma a parlare e sorridono tutto tranne l'uomo del teatro che resta serio e accigliato. La notte ripartiamo e mentre entriamo in tangenziale la macchina buca una gomma. Gli altri scendono su una rampa e io procedo piano verso un autogrill. Scendo e comincio a darmi da fare con il cric e poi realizzo che le gomme bucate sono due. Sullo stesso lato. Una cosa incredibile a cui non crede nemmeno l'uomo del carro attrezzi. Ci carica e dice che di notte nessuno può aggiustarci la macchina. Ci può portare nel piazzale di un gommista e la mattina ci sistemeranno tutto. Decido di restare io. Gli altri riusciranno a prendere un taxi e a tornare con il treno, l'ultimo, ma io resterò lì con la macchina. I soldi quello del teatro a fine serata non ce li ha dati e, capita raramente ma capita, non ce li ha ancora dati se vogliamo essere precisi. Lo benedico spesso. E penso che forse il vicino dispettoso o forse la sfiga o forse vai a sapere. Ma è la vita che ci siamo scelti e non abbiamo mai preteso niente da nessuno. Mi lasciano in uno spiazzo tra un campo nomadi, un Macdonald aperto tutta la notte dove i barboni per stare al caldo dormono appoggiati ai tavoli e avvolti nell'odore di Macnugget che fa quasi casa. Resto nel buio delle fabbriche. Provo a dormire nell'auto di notte, tutta la notte. Gli amici mi scrivono. Ogni tanto passeggio, piscio contro il buio e vado a farmi un caffè con la ciambella rosa che odio. Ho uno spyderco sul cruscotto e la macchina accanto alla mia ha la targa francese e l'hanno sfondata portando via tutto. Un enorme gufo vola su quel buio. Alle tre si spengono le luci del piazzale e resta sullo sfondo solo il Mac illuminato e sembra un quadro di Hopper. Lo sai chi è Hopper? Non sai mai un cazzo, non importa. Viene l'alba e la fotografo e la mando agli altri e sono vivo e poi aprono l'officina e cambio le gomme e spendo i soldi che non ci hanno mai dato per quella data. Torno a casa per pranzo. Ma è la vita che ci siamo scelti e non abbiamo mai preteso niente da nessuno. Ecco, noi non abbiamo mai chiesto niente a nessuno e ora, a distanza di un anno e mezzo dubitiamo tra noi di averla mai vissuta quella vita e muoriamo davvero inghiottiti dall'assenza.



https://www.youtube.com/watch?v=gGMyWztRk2k