venerdì 27 settembre 2013

La fame è fama

Te le ricordi le modalità d'uso? fai partire la canzone qua sotto e poi leggi. Non è difficile. Niente è difficile ma di roba impossibile ne gira parecchia.




Ho una fame ladra e sono le ventitre feriali in Corsosammaurizio, detto tutto tirato. Me la giro a piedi, che sono sgusciato da sotto al ventre della mole, dal lavoro, a un’ora da sfruttato e pagato meno e in giro non c’è niente. E’ inverno. Ho fame e l’ho già detto, ma lo ripeto così è chiaro che è proprio una roba consistente, concreta, fatta di fitte nello stomaco e nella memoria di passate tavole e tegami fumanti. D’angolo vedo una luce e ormai, in anni d’arrangio urbano, ho imparato a sintonizzare l’attenzione sulla frequenza particolare delle luci delle friggitorie, delle gastronomie da poco, dei pizzammetro insonni. La vetrina è piccola, meravigliosamente proporzionata alle mie finanze, e dentro gira un kebab. Edicola devozionale dei miei appetiti disperati. Il posto è poco più grande di una cabina del telefono e il tipo col grembiule è pure grosso. I clienti, tre clienti, completano la farcitura del buco a prova d’aria e di arie da darsi, che non ce n’è per nessuno. Mani rovinate e vestiti cazzolati a schizzi di calcina e rare lacrime d’emigrante delle canzoni che a tavola dice di mettere il piatto suo, presumibilmente vuoto sennò col cazzo che partiva abbandonando la natia terra, gli amici del bar, il suo gallo da battaglia. Poi tocca dividere anche il fumo, ma nel mio caso, alla faccia di Pablo e di De Gregori, il padrone non è quel che si dice una pasta d'uomo. La vita è una quotidiana merdaviglia. Siamo arrivati a quando entro, unico di lingua italiana, che due, lo scoprirò dopo, sono rumeni e un altro è egiziano. Come il titolare dell’attività. Quello che ha un’ambiente in centro direbbero in altri orienti. Sull’entrata, lo noto subito, c’è appeso il solito fagottino con dentro il corano e, sul piano di marmo degli ingredienti, c’è la bacinella del prosciutto cotto e quella del salamino piccante. Allà è grande penso io e chiedo una birra per conferma. Dal forno a legna arriva un caldo di conforto. Alì, che è a un pizzo dall'essere un mio nuovo amico ma né io né lui ne siamo consapevoli, passa dall’altra parte del bancone e letteralmente a spallate apre un varco per me sulla mensolina dove i clienti appoggiano. Manda uno dei due rumeni a spalmarsi sul frigo e l’altro non protesta. Mi vergogno del privilegio che mi sono guadagnato per la stupida faccia italiana che mi porto in giro. Stupida come quella del rumeno se fossimo a Bucarest. Vorrei dirglielo che anche casa mia è lontanissima ma poi mi potrebbero chiedere dov’è e a me mancherebbe certezza, come in tutta questa vita passata a cambiare regioni, accenti e dialetti. Così abbozzo. Il kebab è cosa straordinaria, impastata con le mani velocissime, ficcata nel forno, buttando a sostegno anche un paio di tocchi di legna e a giro di pochi minuti risorte fuori una meraviglia povera, profumata, gonfia, fumante. Imposto, inconscio, la faccia da fedele al miracolo replicato di San Gennaro. Roba che mi porto nel bagaglio genetico. Lui sorride e mi chiede se lo voglio piccante. Certamente, dico io, che mi sono parcheggiato a spina di pesce coi due rumeni mentre l’altro cliente, l’egiziano, rimane aggrappato alla vetrinetta frigorifero con l’insalata di polpo e le alici marinate. Mi danno da parlare e dicono che lavorano sulle impalcature e io vado sicuro, che ho passato due anni della mia vita in alto a fotografare affreschi e restauri toscani, abituando le gambe al dondolio della struttura e la testa all’idea del vuoto sotto. Concordiamo che a seguire tutte le prescrizioni e le norme di sicurezza non si lavora più e poi uno caccia il passaporto e me lo mostra con tutti i timbri e non mi ricordo a che scopo e vuole vedere il mio che non ho e a lui sembra impossibile. Forse sospetta che sono un finto italiano. Ha sgamato l’uomo mimetico. Intanto il mio kebab si va riempiendo di carne e carne, mica come quelle miserie che te le stipano di lattuga per far volume e poi ci mettono un cicinin d’odore di ciccia. A un tratto Alì solleva lo sguardo, guarda fuori, ringhia, afferra un enorme coltello e salta di nuovo fuori dal banco, che poi imparerò che sono cazzi quando succede, e esce in strada, mollando il mio vitto a mezza farcitura. Sul marciapiede c’è uno, non l’avevo manco notato. Altro ghigno nordafricano ma più tunisino, mi spiegheranno poi. Alla faccia dei tutori dell’ordine e della disciplina, Alì, nella pubblica via, inchioda il pusher al muro e lo correda di lama alla gola. Non qui, davanti al mio ristorante, presumo gli dica. Penso che si sta mettendo contro il narcotraffico internazionale e che quello sarà l’ultima possibilità d’assaggiare il suo kebab. Invece il minacciato abbassa la recchia e cambia lato e tutto torna in norma. L’altro rientra e si scusa, solo con me, per la deplorevole scena. Vive da venti anni in Italia, ha il buon gusto di non dire anche lui come tutti di essere laureato in architettura, e questi bastardi di stracomunitari che vendono cosse brute proprio non sopporto. A dirla così pare quasi veneto. Diventerò cliente fisso e avrò l’onore d’essere a mia volta scostato, ma dopo tempo, all’entrare di un cliente più attendibile di me come italiano perbene. Il kebab è stato per mesi la mia dieta base. Ogni tanto ci portavo altri poveracci, sfruttati come me, che uscivano a pezzi e dicevano come fai. M’ha sparito pure la sinusite, insistevo io, ma avevo un bel dire che con me Alì ha guadagnato poco ma i miei amici a causa sua hanno rimpinguato le casse ai venditori di dentifrici e caramelline. Per inciso, Alì gli italiani lo chiamano Paolo e lui sorride, che dentro pensa povero stronzo. Ma il cliente ha sempre regione.

martedì 24 settembre 2013

La figura del cioccolataro


E noi non ci sappiamo vestire e noi non ci sappiamo spogliare e noi non ci sappiamo raccontare, quando è il momento raccontare, nei bar davanti al mare.




Sono passati abbondanti venti anni da quella casa, da quel sottotetto con il pavimento interamente in stuoia di cocco, che quando facevi l’amore per terra, capitava, ti veniva la sindrome del parmigiano sulla grattugia. Non c’era una lira che fosse una. I pochi soldi che guadagnavamo li reinvestivamo in pellicole e obiettivi e la botta di culo dei contratti grossi e la moto nuova e la casa in affitto col giardino immenso e le cene in giro dovevano ancora arrivare e sarebbero pure sparite presto.  C’era questo posto che vendeva tutto all’ingrosso e che esiste ancora in tutta Italia e io ci andavo e impazzivo a guardare enormi pile di biscotti, barattoli di maionese da trenta chili, interi quarti di bue provenienti dall’Argentina. Per entrare ci voleva la tessera e non mi ricordo come c’era questa tessera che girava tra tutti e quando serviva te la facevi dare, che allora era tutto uno scambio senza che nulla fosse davvero di qualcuno. Io ogni volta che avevo la possibilità di entrare in quel posto venivo preso da una vertigine e una volta m’ero speso la cassa comune per un sacco enorme di fondenti alla menta. Un giorno, tessera in mano, andiamo a fare la spesa. Si viveva in case riempite da gente che andava e veniva e il frigo era terra di nessuno. Avevamo i soldi incassati da un lavoro recente. Pericolosissima situazione per me averci dei soldi in mano. Vedo una latta di crema cioccolato nocciola uso pasticceria. Credo fossero una decina di chili di succedaneo della Nutella. Già ve lo state immaginando. La compro. Torniamo a casa e, in quell’estate lì di caldo da schiantarsi, decidiamo di mettere la latta di Fintella nel frigo, che tanto con l’aria che tirava spazio ce n’era in abbondanza. Per mesi mangiamo i panini rubati a mensa e guarniti con la Nutriella. Un pomeriggio siamo lì accampati e non mi ricordo nemmeno bene chi ci fosse. Qualcuno studia, qualcuno cucina, probabilmente tutti dormono buttati in giro. Vatti a ricordare. Giro in mutande e anfibi perché il pavimento in stuoia di cocco vecchio di cento anni ti fresava il plantare come in quella pubblicità recente che c’è uno che usa una spazzola per le piante dei piedi e poi la apre e ti fa vedere tutto il cozzo estratto dalle sue estremità con bella soddisfazione. Ste è in bagno. Apro il frigo per prendere una birra e vedo la Micidiella che sta lì, ora odiata da tutti. Con un dito ne saggio la consistenza. A stare nel frigo è diventata come la plastilina. Lampo di genio puro. Vado davanti alla porta del bagno e comincio a urlare “Ste ti prego, devo andare in bagno, apri ti prego…”. Dopo qualche secondo Ste apre uno spiraglio e mi chiede cosa cazzo voglio. Balbetto “Fammi entrare, ho bisogno del ba….”. Sbarro gli occhi e resto pietrificato a guardarla. “Cosa c’è?” “Cazzo no” “No cosa” “Te l’avevo detto di sbrigarti”. Comincio ad arretrare senza darle le spalle. “Ma che cazzo hai fatto”. “Niente, niente, lasciami il bagno”. “Ma… ti sei cagato addosso?” “No no… lasciami il bagno per favore”. Stanno arrivando anche gli altri sparsi in giro. Mi guardano inorriditi. Ste mi afferra un braccio e mi volta. Sul fondo dei miei boxer si percepisce nettamente un grosso bolo marrone. “Che schifo, ma sei impazzito”. Mi rigiro spalle al muro “Ma insomma, che sarà mai… in fondo…” mi infilo le mani nella parte posteriore delle mutande “è solo cacca” estraggo uno stronzolone confezionato con la Falsella e lo tengo in mano davanti a tutti gli sguardi allibiti “e poi mi son sempre chiesto che sapore ha” e mi pappo lo stronzolone di buon appetito. Ste grida fisso, senza una gamma tonale variata, un lunghissimo grido monocorde. Qualcuno si sente male. Tutti gridano.Il cane ulula con il muso rivolto al soppalco, che il cielo a noi non ci spettava.

Il fatto che tutti ci avessero creduto la dice lunga sull’idea che il mondo ha di me.
Dolcetto scherzetto.