venerdì 25 novembre 2011

la memoria fotografica





La ricerca  storica tradizionale ha basato, fino a tempi relativamente recenti, la sua struttura metodologica sull’analisi e l’esplorazione di precise tipologie di fonti, che erano considerate più “affidabili” rispetto ai dati forniti. Allo scopo l’esperienza dello storico era tutta circoscritta agli ambiti istituzionali, come archivi pubblici, biblioteche, musei, fondi privati di particolare consistenza. Anche in questi precisi ambiti il ricercatore tendeva a circoscrivere ulteriormente il suo terreno d’indagine, evitando di prendere in considerazione alcune tipologie di fonti. Negli ultimi anni la metodologia della ricerca ha accettato di confrontarsi con le fonti  in maniera molto più ampia e articolata. Lo “storico orco” teorizzato da Marc Bloch, fagocitatore di tutti gli ambiti documentali e in grado di analizzare le diverse tipologie di fonti riportandole sempre sul piano prioritario dell’ambito storiografico, è ormai una figura metodologica consapevolmente accettata dagli studiosi. Alle fonti tradizionali si affiancano adesso bacini documentali meno esplorati e il cinema, la fotografia, la musica, la pubblicità, la narrativa, il fumetto, la grafica, la cultura materiale, s’ intrecciano e si confrontano, fornendo spesso aspetti inediti e inconsueti delle realtà storiche e sociali che s’ intende analizzare o, ancora, rafforzando con ulteriori prove, la lettura di un determinato periodo già analizzato attraverso elementi consueti alla ricerca. Un impegno metodologico di questo tipo pretende una robusta preparazione del ricercatore che non può permettersi di indagare in modo superficiale le diverse tipologie di fonti ma che deve altresì essere edotto dei problemi di gestione tecnica dei materiali o di veicolazione degli stessi in rapporto al periodo di produzione. Risulta evidente che la natura infinita di informazioni possibili da confrontare sollecita un rapporto fitto di scambio all’interno della comunità scientifica e la costituzione di specialità d’ambito che di volta in volta possono essere coinvolte. Altro è l’ambito proprio dello storico dell’arte o del cinema, più specificamente vocati alla dissezione di determinati materiali, allo storico possono servire magari solo alcuni indizi contenuti nella tela o nella pellicola ma un confronto interdisciplinare diventa irrinunciabile e consente di acquisire altri elementi.
 
Il confronto tra le diverse fonti consente un’esposizione dinamica della ricerca storica, che permette di trasferire informazioni in maniera accattivante ma sempre senza banalizzare i contenuti. Soprattutto a livello didattico, la possibilità di leggere un periodo storico, attraverso l’interazione dei testi tradizionali e una rassegna di film o una panoramica dei linguaggi  pubblicitari dell’epoca, o, ancora, attraverso la canzone, può offrire la possibilità di lavorare con la variazione dei temi, su una soglia d’attenzione difficilmente raggiungibile attraverso l’esposizione tradizionale.

Proviamo a fare un esempio d’approccio metodologico: la lettura di un’immagine non è solo funzionale all’analisi tecnica o dei contenuti cosiddetti espliciti. Un film non deve necessariamente essere filologicamente  corretto nella ricostruzione del periodo e dei luoghi in cui i suoi personaggi si muovono ma spesso fornisce indizi sulla storia sociale o politica di un determinato contesto che  rischiano di passare inosservati. Nel 1963 il regista Ugo Gregoretti propone nelle sale italiane la sua prima opera cinematografica importante, sulla scia dei successi televisivi di questo autore. Omicron, questo il titolo del film, è uno stranito film fantascientifico in cui un extraterrestre  entra nel corpo di un operaio torinese, interpretato da Renato Salvatori, e inizia la sua esplorazione del mondo degli umani. La pellicola segnò inesorabilmente la carriera cinematografica di Gregoretti che non seppe più recuperare l’insuccesso di sala. A onor del vero, a volte la storia raccontata nella pellicola risente di ingenuità piuttosto evidenti che ne fanno a oggi un prodotto visto solo da cultori. Per lo storico però questo prodotto minore consente la lettura di determinati aspetti sociali significativi.  L’extraterrestre arriva alla catena di montaggio e l’uomo si prende la rivincita sulla macchina che dal celeberrimo Chaplin di“Tempi moderni” aveva infierito sull’elemento umano, ridotto a mero ingranaggio produttivo. Stavolta l’uomo è tale solo nell’aspetto esteriore e lavora alla pressa con un ritmo forsennato, fino all’esplosione della macchina utensile. Ai colleghi sbigottiti da tale incremento produttivo il caporeparto sottolinea che da adesso si lavora a quel ritmo e che non vuole più sentire parlare di supersfruttamento. A questo punto lo storico è sollecitato. Il concetto di supersfruttamento fu materia di dibattito sindacale solo nel ’63, anno di produzione del film. Successivamente si ritenne inutile distinguere tra sfruttamento e supersfruttamento e probabilmente di questa polemica restano solo brandelli scomposti negli archivi ma in questa pellicola, pure minore e sicuramente, per la scelta del regista, lontana da temi marcatamente realistici, ne abbiamo sicuro riferimento. A questo punto il laboratorio attivato comincerà a ricostruire gli anni del Boom economico attraverso le canzoni dell’epoca, le fotografie, i giornali, la pubblicità e gli apparati multidisciplinari svilupperanno in modo naturale un possibile prodotto multimediale.
Abbiamo scelto un esempio piuttosto specifico e complesso nella gestione perché risulta evidente che altri materiali danno immediata ragione dei possibili collegamenti ma se tutto è fonte ci si può applicare anche su temi considerati marginali e poco utili. Certo se si vuole parlare di guerra di resistenza e si utilizza “L’Agnese va a morire” di Giuliano Montaldo i riferimenti sono molto più diretti ma è lo storico che ci può raccontare l’importanza di una pellicola sui temi della resistenza che ha per protagonista una donna e che viene realizzato nel 1976, anno in cui la figura femminile  è al centro di aspre lotte di rivendicazione.
   
L’interazione delle diverse tipologia delle fonti restituisce efficacemente  i quadri politici, economici e sociali. Altro è raccontare il boom economico dell’Italia degli anni Sessanta attraverso le tabelle di analisi demografica e i grafici che danno ragione degli incrementi produttivi, altro è affiancare a questi dati le pubblicità dell’epoca dove categorie sociali come la casalinga e il giovane, compiutamente espresse in quel periodo, hanno una loro evidenza e sono in relazione coi beni di consumo e le abitudini nuove. A livello didattico non deve sfuggire il rapporto che corre tra l’utente medio e i materiali proposti. Ci sono immagini, segni, gesti che sono entrati ormai nell’immaginario collettivo come iconici di una determinata epoca. Se mostriamo un’ utilitaria Fiat 500, sappiamo per certo che il richiamo agli anni del boom è piuttosto automatico e conviene lavorare sul dato acquisito per fornire sicurezza e consapevolezza. Successivamente all’immagine della famiglia stipata nell’utilitaria  affianchiamo la pubblicità di un frigorifero e raccontiamo che sui mercati internazionali l’Italia si colloca come massimo produttore di quell’elettrodomestico. Il dato è interessante, curioso ma soprattutto reso meno lontano dalla vicinanza con la nostra utilitaria che fornirà  un ponte tra le informazioni acquisite e quelle nuove.
Attraverso questo confronto si potranno definire le differenti identità culturali, i modi sociali mutuati da ambiti esterni e più in generale avere una visione complessiva degli eventi storici. A questo punto proponiamo un film dell’epoca che mostra una famiglia in vacanza, lo associamo a una canzone come “Con le pinne, il fucile e gli occhiali” e possiamo permetterci una riflessione sul tempo libero e sulle ferie di massa e, più in generale,  sulle modalità di sviluppo della società industriale. 


 
Nell’ottica del “tutto è fonte” nuovo interesse destano i materiali conservati all’interno dei singoli nuclei familiari e nelle piccole comunità, supporti fondamentali di certo lessico familiare e conservati come traccia di memoria domestica. I riti di passaggio fondamentali, la nascita, la formazione di una coppia, la morte, trovano testimonianza efficace nei materiali conservati nei cassetti delle case di tutte le famiglie, indipendentemente dall’estrazione sociale. Lo storico trova spunti alla ricerca anche in elementi che all’origine non rivestivano interesse specifico. Una foto può ritrarre un lontano parente e per chi la possiede è già supporto alla memoria, all’emozione ma magari lo storico troverà più interessante il tram a cavalli che si intravede alle spalle del personaggio ritratto. In ogni caso non c’è un ordine gerarchico di interesse dello studioso nei confronti delle fonti e anche quelle domestiche possono rivelarsi efficaci testimoni.


martedì 22 novembre 2011

Cogli l'attimo furente




Il professionismo in fotografia si è svelato, nel corso dei passaggi storici attraverso il Novecento, come una dimensione eclettica che continuamente deve misurarsi con il mercato e con le evoluzioni tecniche. La moda, la foto industriale, il design, la politica sono ambiti che sanno ancora una volta svelare l’efficacia innegabile del mezzo fotografico nell’epoca della comunicazione di massa. La possibilità estesa a tutti di realizzare immagini si amplifica nell’era della fotografia digitale, stravolgendo i criteri di gestione dell’immagine professionale ma anche il rapporto dei mezzi d’informazione con il prodotto foto. Vale la pena fare una riflessione sulla fotografia come prodotto del presente. Con l’affermazione dell’immagine digitale, che consente una produzione di immagini altissima a costi contenuti e una altrettanto rapida veicolazione delle stesse, l’ambito professionale ha dovuto far fronte a nuove problematiche. La questione centrale dall’inizio era proprio la riconoscibilità autoriale. Tre sono le peculiarità che identificano il professionista nella massa fotografante: l’occhio, che consente di scegliere l’inquadratura più efficace per raccontare con le immagini e per catturare emozioni; la capacità di utilizzare efficacemente strumenti tecnici complessi; il confronto con il mercato. Con la fotografia digitale la stessa proprietà di un’immagine, attestata dal possesso del negativo originale, entra in crisi, rendendo meno definito il concetto di titolarità autoriale, per il quale tanto si sono battuti i fotografi professionisti nel corso di tutto il Novecento. Le fotografie reperite in rete possono essere scaricate e manipolate con una facilità mai prima registrata con i supporti tradizionali, e anche i materiali cartacei possono essere riprodotti con una fedeltà che con i sistemi analogici richiedeva una certa esperienza e attrezzature specifiche che ora sono compendiate efficacemente da scanner a prezzi abbordabili e da programmi di fotoritocco alla portata di una buona parte degli utenti di attrezzature fotografiche.
La realizzazione di immagini di qualità con gli strumenti disponibili sul mercato delle macchine digitali, che solo fino a pochissimo tempo fa offrivano prestazioni ancora lontane dai risultati ottenibili con le pellicole, consentono ora un incredibile controllo dell’immagine e l’impiego di attrezzature assai meno dispendiose e ingombranti di quelle tradizionali. Senza contare che non c’è la necessità di avere tra lo scatto e il prodotto finito la mediazione del laboratorio, perché il file è disponibile da subito, e inoltre può essere migliorato e modificato dai programmi studiati allo scopo, Le esigenze professionali fanno però in modo che anche in questo ambito le specializzazioni determinino l’utilizzo di attrezzature più sofisticate, giustificando gli investimenti con il rientro commerciale. Di pari passo con l’evoluzione tecnica, il professionista lavora sui moduli espressivi e sullo stile che in qualche modo possa caratterizzare il suo lavoro, cercando di connotare i suoi scatti attraverso una precisa personalità autoriale. Innegabilmente però, aldilà degli esiti della produzione di immagini professionali, la nostra epoca si caratterizza per una produzione enorme di fotografie e con questo dato deve confrontarsi necessariamente anche il professionista.



New York, undici settembre 2001, nella mattinata due aerei si schiantano in rapida successione contro le due torri del World Trade Center. A pilotare i velivoli, in un’azione combinata tremendamente efficace, è un gruppo di terroristi islamici. La nostra analisi di questo episodio si limiterà alla sua rappresentazione attraverso la realizzazione di immagini. Nella sua natura più strettamente dinamica, l’azione dell’aereo che impatta sull’edificio è caratterizzata da due elementi fondamentali che sono anche ispiratori delle soluzioni tattiche adottate dal commando: la rapidità e l’effetto sorpresa. L’aereo arriva veloce e inaspettato sul suo obiettivo, impedendo l’attivazione di qualsiasi contromisura dei sistemi di sicurezza. Un' azione così repentina non si può certo documentare agevolmente con una macchina fotografica. Nessun fotografo, per quanto ben scortato dal meraviglioso “istinto dell’attimo” potrebbe farsi trovare pronto, con le attrezzature sapientemente disposte, teso a fermare l’immagine dell’aereo che impatta contro l’edificio. Il professionista, e ben lo sanno quelli specializzati in foto naturalistica, si apposta valutando la probabilità che davanti ai suoi obiettivi si verifichi l’evento che dia un senso di eccezionalità ai suoi scatti o che almeno possa descrivere significativamente il contesto che intende raccontare con i suoi scatti. Ai fotoamatori che catturano frequenti immagini, a volte interessantissime, che pure resteranno nei cassetti ignare dei giochi del mercato, ai dilettanti presi da passione passeggera per la realizzazione delle fotografie, a quelli che girano con una macchina fotografica in tasca perché non si può mai sapere, resta da giocare la partita del caso, con un calcolo probabilistico che ai giorni nostri gli assegna già il premio per la puntuale documentazione grazie solo al loro numero enorme rispetto alla schiera selezionata dei professionisti.
E infatti dell’aereo piantato sul fianco del grattacielo e nella polpa dello sgomento di milioni di persone abbiamo testimonianza grazie a quelli che erano lì, in vacanza, concentrati a raccogliere schegge di memoria per implementare archivi domestici. Il rumore assordante dell’aereo che piomba sulla città e gli sguardi che d’istinto si rivolgono al cielo e l’inquadratura della famiglia sotto le Twin Towers che si perde perché l’obiettivo segue l’attenzione di chi scatta e guarda verso il cielo, verso l’incredibile: nelle videocamere riempite di sorrisi turistici, nelle fotocamere usa e getta, nelle webcam puntate sulla città statunitense paradigma dell’Occidente, quel momento viene impresso e passa dai bollettini su Internet ai notiziari e ai giornali e la qualità è poca cosa ma nemmeno dalle immagini di partigiani impiccati, scattate scostando appena un lembo del cappotto davanti all’obiettivo clandestino, ci si attendono esposizioni calibrate, dettagli e definizione. Eppure di quel breve attimo, non certo dell’agonia dei due grattacieli e delle facce dei soccorritori e dei corpi di quelli che scelgono di lanciarsi nel vuoto per non morire arsi vivi, tutte cose che già avevano addosso le lenti rapide, esperte dei professionisti, rimane memoria grazie al lavoro capillare di catalogazione dei gesti minimi che è caratteristica del nostro presente e che si affida alla moltitudine dei praticanti della fotografia. Già a partire dal secondo impatto, gli obiettivi dei grandi professionisti sono tutti puntati sulla scena, dando prova dell’efficienza della macchina complessa del mondo dell’informazione. Sui giornali e nelle mostre allestite successivamente, le immagini dei fotoreporter più o meno improvvisati e quelle dei professionisti viaggeranno in parallelo, e sarà difficile distinguerle tra loro.

Proviamo ora a spostare l’attenzione sulla realtà italiana. “Un morto, quasi seicento feriti (560), oltre duecento persone arrestate (219), circa cinquanta miliardi di danni: ecco le cifre del G8. Ecco i numeri del vertice degli otto paesi più industrializzati, andato in scena a Genova da venerdì 20 luglio a domenica 22. Tre giorni di discussioni per i grandi della terra, tre giorni segnati in maniera tragica dall’uccisione di un ragazzo di 23 anni, Carlo Giuliani, uno dei contestatori colpito venerdì pomeriggio da un colpo di pistola esploso da un giovane carabiniere. La foto di questo ragazzo, steso sul selciato di piazza Alimonda, con una pozza di sangue ad allargarsi dietro la testa, le braccia a croce e un compagno che tenta di rianimarlo è il simbolo di quello che è accaduto a Genova.” (1)



Genova nell’estate del 2001, in corrispondenza con il G8, che si è deciso di tenere nel capoluogo ligure, è attraversata da aspri scontri. Come era già accaduto nel luglio del 1960, stesso mese stesse scene per i carrugi genovesi, gli scontri tra dimostranti e forze dell’ordine sono violenti. Il culmine di questi eventi è l’uccisione del giovane Carlo Giuliani. La scena della tragedia è in piazza Alimonda. Un fuoristrada dei carabinieri viene assaltato da un gruppo di manifestanti. Dal finestrino rotto del veicolo spunta una mano che stringe una pistola d’ordinanza. Un giovane a volto coperto, Carlo Giuliani appunto, sta avanzando incontro al mezzo e ha tra le mani un’estintore che ha appena raccolto da terra e che, nelle probabili intenzioni, sta cercando di scagliare contro il fuoristrada dei carabinieri bloccato da un cassonetto. Rimane freddato dal proiettile che lo colpisce allo zigomo. Ebbene, di quella scena si scopriranno fotografie diverse, angolazioni e particolari che potranno offrire indizi alla verità.
Tutte le inchieste, le analisi, le cronache dei giornali utilizzeranno le immagini per spiegarsi e spiegare quei tragici secondi che passano tra il momento in cui il ragazzo raccoglie l’estintore da terra e il momento in cui giace immobile in una pozza di sangue (2). Perché di questo si tratta, di pochi secondi che pure sono testimoniati con un’incredibile quantità di materiali filmati e fotografie. Ancora una volta viene da chiedersi se per le vie del capoluogo ligure in quella giornata si muovessero fotografi e videoperatori dalla spiccatissima sensibilità, capaci di intuire la tragedia incombente e di fermarla sulle pellicole e nelle schede di memoria o piuttosto la mole di documenti fotografici prodotta in quelle ore era tale da farci pensare che di tutti i momenti di quella giornata tragica ci siano immagini testimoni ora conservate negli archivi istituzionali, nelle agenzie, negli schedari dei professionisti, nelle sedi delle diverse compagini scese in piazza per protestare e, infine, nei cassetti di casa. Addirittura la testimonianza che pare nei giorni successivi più attendibile e che tutti i giornali riportano è quella di un fotografo free lance (3), quasi che in quella moltitudine la sua possibilità esegetica fosse più significativa proprio per l’abitudine del mestiere che la collettività pare riconoscere (4). Quasi che, in quella moltitudine di testimoni sbigottiti, quello che il fotografo vede e può raccontare sia per sua natura più affidabile come documento. L’equivoco della foto come portatrice di verità pare irrobustirsi col tempo. A dispetto delle acquisite consapevolezze di chi indaga le fonti.A dispetto di chi resta in terra.



 La conclusione di questa nostra riflessione ci porta ancora a ritenere che non è così azzardato affermare che più che grandi fotografi esistano grandi fotografie ma, nondimeno, certe figure autoriali hanno saputo negli anni costruire un lessico complesso e raffinato che è diventato pagina privilegiata per raccontare la nostra storia recente.

Le immagini che nella società moderna hanno un’autorità praticamente illimitata sono infatti soprattutto immagini fotografiche, e la portata di questa autorità deriva dalle caratteristiche proprie delle immagini prese da macchine fotografiche.” (5).



note


(1)        Il G8 finisce nel sangue. Ucciso un manifestante. La Repubblica, 22 luglio 2001.
(2)  Una rassegna dei materiali fotografici e video è contenuta in rete sul sito www.piazzacarlogiuliani.org.
(4)             Un primo comunicato stampa dell’ANSA, datato 20 luglio 2001, h. 20.16, recita: “Ho sentito due colpi. Pensavo fossero in aria invece ho visto cadere un ragazzo”. Bruno Abile, fotografo freelance di Parigi, racconta la sparatoria nella quale e' rimasto oggi ucciso un giovane a Genova. Questa testimonianza, arricchita da particolari, viene successivamente riproposta da molti giornali italiani.
(5)             Addirittura l’esame autoptico della salma di Carlo Giuliani, un documento possibilmente basato sull’analisi scientifica, farà riferimento alla documentazione fotografica: Tenuto conto dell’altezza della vittima (165 cm) e della traiettoria balistica del proiettile bisogna ritenere che il feritore fosse più alto del Giuliani o meglio (alla luce anche della documentazione fotografica dei fatti) fosse in posizione elevata rispetto alla vittima. (il verbale è consultabile per intero sul sito www.piazzacarlogiuliani.org).
(6)             Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1992, pag. 132.
 

mercoledì 9 novembre 2011

a immagine e somiglianza





Vengo da mille mestieri e faccio mille mestieri. Nessuna possibilità di fare dunque bene davvero. Frugo anche nella memoria, con le dita veloci del borseggiatore sull’autobus carico di sudori e bestemmie di una qualsiasi ora di punta. Di buono c’è che le mie vittime designate non subiscono gli scossoni delle frenate brusche e gli sguardi astiosi di quelli dello “scusi, alla prossima scende”, limitandosi a passare da uno schedario a un tavolo, nei casi più fortunati, o, ed è peggior sorte, a venirsene via appiccicate tra loro e vergognose dell’ingiuria del tempo. A me viene chiesto di guardarle le prede mie, strana beffa per i miei occhi incerti, lasciando a loro il compito di accendere emozioni. L’approccio scientifico lo conservo per quelli dall’altra parte della porta, giocandoci l’un l’altro questa mano a bluffare, con presunte professionalità che fanno da paravento a certi intimi entusiasmi. Il lavoro si concretizza in volumi e mostre che non rendono mai piena giustizia, guai se così fosse, del mio motore originario ma che consentono a me di campare e a altri di vivere, sempre con un forse davanti, attraverso il materiale da me selezionato e proposto, un proprio percorso emotivo. Se fin qui non sono stato poco chiaro, goffo espediente di scrittura per aggrapparmi alla vostra attenzione, tanto vale rendere più esplicite le mie mosse svelando, e confido che qualcuno ci sia già arrivato da solo, che l’arte mia è quella di maneggiare anche fotografie e di farne io stesso, cercando di istituire delle riserve testimoniali protette in una realtà dove i bracconieri di ricordi la fanno da padroni. Sull’arbitrarietà del gesto non v’è dubbio e mai sarò qui a sostenere l’imparzialità dei miei sentimenti, che mi ostino a sottolineare influenzano il mio lavoro oltre la dimestichezza con il metodo scientifico che pur cerco di foraggiare e tenere robusto dentro di me. Un metodo che parte dall'idea prima che la verità non esiste. Lascio da parte, almeno tra noi ce ne sbattiamo del cerimoniale, le riflessioni sul valore documentale e sulla possibilità che all’interno di una stessa fotografia siano contenute infinite frecce semantiche in grado di sollecitare specializzate curiosità, centrando l’attenzione su di una sorta di traccia emozionale che non è meno importante dell’implicazione razionalistica che mi spinge a selezionare un’immagine in particolare. Mi sono ritrovato a riflettere su questi meccanismi quando il mio mestiere è scivolato dalla realizzazione di mie storie fotografiche a una più generica misura della narrazione fotografica che passava dal lavoro di altri, realizzato in tempi diversi e in luoghi variati, perchè le coordinate croniche e topiche sono un nesso sulla probabilità per uno che non si fida della verità. Qualche anno fa, son troppi se ci penso,  portavo a conclusione un volume che mi era costato diversi mesi di lavoro vagando per gli archivi della penisola. Mi servivano fotografie italiane scattate in un periodo compreso tra il ‘53 e il ’67 e ovviamente la mole di materiale che mi è passata davanti in quei mesi supera ogni possibile fantasia. Sui criteri della selezione, considerando quella sorta di coazione a ripetere che caratterizza molti dei fotografi di quegli anni rispetto a certe tipologie, la varietà non era tale da consentire impennate narrative particolari ma il lavoro non si presentava certo noioso. Ho seguito la costruzione del volume fino nei suoi particolari minimi e quando a fine marzo l’ho visto nelle vetrine delle librerie e in cima alle classifiche di vendita nazionali, bontà loro, ho cominciato il giro delle presentazioni e delle interviste guardandomi bene dallo sfogliare un testo che pensavo non mi potesse riservare sorprese. Soltanto a fine estate, con rispetto per il mio metabolismo tartarughino, e in modo piuttosto casuale, mi sono ritrovato a risfogliare il volume con curiosità, provando una certa emozione davanti alle immagini che non erano più soltanto la testimonianza efficace di un determinato periodo storico ma che, per averle maneggiate, annusate, spostate, scartate, ripescate e guardate ancora, fino negli interstizi minimi che la sensibilità della pellicola mi consentiva di indagare, sono parte della mia memoria più viva. Guardando alcune fotografie mi sono ricordato di quando per le mie ricerche mi sono fermato a Firenze per una decina di giorni e, per ragioni che mi diventa difficile spiegare  mi capitava talvolta, sempre a dire il vero, di rimanere a dormire la notte in macchina, parcheggiato sulla riva dell’Arno. Di fronte alla biblioteca nazionale per intenderci. La notte si popolava di personaggi, luci e odori tra le cui pieghe il mio sonno trovava brevi tregue e l’alba mi beccava sempre lì, con il coltello aperto nascosto sotto il maglione che rischiava ogni volta di aprirmi lo stomaco e la sveglia sul cruscotto che suonava quando ormai ero già desto. In seguito una copia del libro l’ho portata anche al barista che in quei giorni, senza chiedere mai più di quello che avrei voluto rispondere, mi vedeva entrare cisposo e arruffato e risortire ripulito e reso elegante dai vestiti smessi di mio padre che detto così sembra roba da poco ma era tutta stoffa buona e morbida che ancora indosso a distanza di venti anni.. Nel corso della giornata la mia ricerca riprendeva forma e tornavo ad essere il dottore di qua, dottore c’è questo e dottore posso offrire, che se solo avessero sospettato chissà come mi avrebbero guardato. A distanza di tempo, riguardando le fotografie su cui lavoravo in quel periodo non ho potuto fare a meno di pensare con una certa tenerezza a quei giorni e ho constatato divertito che il materiale selezionato a Firenze, l'archivio del Mondo di panunzio conservato in un sottotetto della biblioteca, è tutto in relazione con la realtà marginale, la periferia depressa e i mille piccoli espedienti della sopravvivenza disperata. Indubbiamente, per il mio libro questi sono temi interessantissimi ma l’influenza della mia esperienza di quei giorni sugli esiti della ricerca è palese.
Lavorando con le fotografie si finisce per fare i conti con il loro potere evocativo che, per la loro stessa natura, agisce in tempi brevissimi su di noi, bastando anche un’occhiata distratta per sollecitare ricordi ed emozioni e mentre scrivo questi appunti disordinati qualcuno magari starà sfogliando il mio volume riconoscendosi in un volto, in un luogo o in un semplice gesto o, e la catena diventa ossessiva, correrà col pensiero al giorno dell’acquisto del libro stesso, alla faccia della commessa, al bar dove fanno quel caffè di merda e via di questo passo. Per quello che riguarda me, con i soldi di questo libro ho comprato una macchina molto più spaziosa di quella di prima.