domenica 27 maggio 2018

Porta cavalleggeri, io porto il vino




ph. Giorgio Olmoti



A Porta Cavalleggeri c'è uno su una sedia a rotelle che presidia un lembo di strada davanti a un paio di pizzerie. Chiede l'elemosina ma senza troppo strepito a quelli che passano per andare o tornare dalla madre di tutte le chiese. Frotte di turisti di tutte le nazionalità e preti vecchi e preti giovani e suore e guide sudate con il microfono sudato e sandali e calzini e cappelli di paglia. Lui ha la faccia con la pelle di cuoio, come mio nonno che s'era fatto tre vite in mare. Sta lì seduto e l'ho visto combattere e vincere contro altri questuanti che si volevano fare la zona sua. Gli passo accanto mille volte, che ormai questa zona, senza volerlo davvero, è diventata la mia e nei bar mi sorridono e la trattoria comincia a scoprire cosa mangio e come mi chiamo. Da qui parto la notte per le mie lunghissime camminate con le scarpe da bosco e il coltellino svizzero che mi ha regalato Franchino quando eravamo ancora ragazzi e che a tenerlo in tasca mi sento invincibile. Stanotte verso le due, tornando da strade buie e misteriose, sono passato per quella strada e l'ho trovato infilato in un portone con una coperta addosso che dormiva. sempre sulla sedia a rotelle, sorta di centauro della modernità metà uomo e metà macchina. Dormiva con quella pelle di cuoio, che non si stende mai, a coprirgli la faccia. Ha aperto mezzo occhio sentendomi passare. mi sono chiesto come cazzo fa quando deve andare al bagno. Un pensiero stupido, leggero, della notte, a piedi tra cani di strada. S'è aggiustato la coperta e ha ripreso il respiro del sonno, del riposo è più difficile. e anche io ho continuato a respirare, Vivo di abitudini.





Piano ferie








Ho fatto diversi lavori da dipendente, il libretto di lavoro parla di una ventina d'anni distribuiti tra mansioni che vanno dal bracciante di quando facevo le vendemmie al lavoro culturale di bianciardiana memoria. La cosa più triste di quando facevo un lavoro da dipendente era la compilazione del piano ferie. Una sorta di programmazione della felicità a tavolino, in cui a marzo dovevi immaginarti felice a agosto. Era una cosa tremenda in cui usavi i giorni e le ore e i minuti distribuendoli sull'anno solare come merce preziosa, tenendo da parte qualche giornata perché non si sa mai e concentrando in un pugno di giorni quello che sentivi di essere tutto l'anno mentre in realtà continuavi a vivere di gesti e parole che non ti sentivi mai addosso davvero. Per non parlare dei colleghi, quella lotteria dell'umano che genera cortocircuiti della comunicazione e può farti scoprire amicizie bellissime e rancori che si trascinano dalla macchinetta del caffè alla bollatrice. Stima se ne respirava poca ma ci si sorrideva per sopravvivere. 
Poi te ne vai e non li senti più, non li vedi più e capisci che non era solo un sospetto. Ora faccio una maledetta fatica e le ferie praticamente non le ho mai, che lavoro sempre. ma lavoro dalla spiaggia, dal bosco, dal mondo e pure se non avrò mai una pensione e non avrò mai la malattia e non mi daranno mai un mutuo, non devo fare il piano ferie, non devo fingere di non aver capito che mi stai parlando di cose di cui non sai nulla. Il piano ferie mi faceva impazzire ma mai quanto il time report in cui rendevi conto delle ore, una a una, passate alla scrivania. Si compilava una volta al mese. come cazzo ho fatto dico io. I miei colleghi Bianciardi non lo sospettavano. E lavorano in editoria. Forse per questo riescono a resistere ancora.