venerdì 21 settembre 2012

I fatti di Genova

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In un’altra vita di questa stessa vita qui. A Genova stavamo in galleria con una lunga sequenza di tavoli colmi di libri scontati da vendere. Pagine fuori catalogo e cataloghi senza giudizio s’ammassavano in un bailamme che era la vera ricetta vincente della nostra scommessa commerciale. A dire il vero noi non si rischiava niente che la merce era di uno che arrivava coi furgoni e certi peruviani da combattimento e metteva in piedi la fiera del libro a prezzo smezzato e ci lasciava lì un mese, in una città qualsiasi. Quella volta c’eravamo io, Corrado e un altro che non lo conosco abbastanza bene da immaginare che abbia ancora piacere a essere ricordato in quel mestiere che per lui era una parentesi e per noi un’abitudine. Sta di fatto che dormivamo in una pensione nei vicoli del centro storico di quelle che se ammazzi gli scarafaggi e li consegni alla signora al tavolo delle chiavi, che parlare di reception pare brutto e dequalificante, ti scalano un tot dalla tariffa giornaliera. Alla fine quasi andavamo a guadagnarci che tornavamo alle cinque della mattina e trovavamo la camera occupata da una torma kafkiana di scarrafoni. Alle otto e mezza di mattina levavamo i teli dai tavoli e s’attaccava a vendere. Due, tre ore di sonno addosso e gli anni giusti per saperle portare e stare lì a dare musica al circo di strada di quei giorni. Avevamo una sequenza fissa di ospiti abituali, in genere completamente fuori di senno e se conoscete qualcuno che lavora in libreria vi confermerà che la pagina attrae il matto oltre ogni ragione plausibile. C’era uno che diceva di fabbricare pistole a casa sua e ci invitava la sera da lui ma non abbiamo mai avuto occasione la sera di ricordarci l’indirizzo. La russa enorme con gli occhiali spessi che era laureata in storia di qualcosa e s’ingozzava di tutti i pezzi di focaccia che la gente aveva a un certo punto iniziato a portarci. Senza ragione. Come tutto lì attorno. La russa enorme che una sera si mise a sedere al tavolo nostro della trattoria e cominciò a gridare insultandomi e era uguale alla tipa di dancer in the dark ma più grassa e più triste e mi diceva qualcosa di infervorato che passava da una mia idea sbagliata si Hegel e io m’ero limitato a ordinare un bicchiere di qualcosa senza chiederle se ne voleva uno anche lei. Del resto quella era una amicizia privilegiata di Corrado e non volevo sovrappormi. Di mio avevo una pattuglia di ragazzini marocchini che vendevano le rose in giro e che facevano pausa da noi al bar e ci bevevamo il tè freddo e si parlava del sugopronto che erano dei barattoli che tu vai a casa e anche se tua madre è dall’altra parte del mondo e tu hai undici anni ti attrezzi col fornellino e mangi una cosa proprio buona. All’inizio offrivo sempre io che a dire il vero offriva il boss ma lui non lo sapeva. Poi i ragazzini hanno cominciato la sera, quando tiravamo i teli sui libri, ad arrivare coi dolci di miele e certi biscotti al cioccolato e si chiudeva la giornata di lavoro insieme. Oltre a loro arrivavano altri che avevamo raccattato nei vicoli e ora uno è un comico famoso e alla televisione fa la torta di riso e si chiama Andrea Ceccon con la fidanzata che ci portarono una sera a casa loro a mangiare la trippa. Poi c’era Gigi Picetti che aveva un locale che era casa nostra in quei giorni e quando me ne sono andato m’ha ficcato nello zaino, lo stesso che ho adesso per la santa coerenza, una paccata di vecchi Urania. Il socio di Gigi aveva una scacchiera e giocava da solo e Corrado tutte le sere gli spostava un alfiere o un cavallo ma lui continuava non se ne dava per inteso. Poi c’era una donna mora di cui non ricordo il nome, che da giovane aveva avuto una carriera di canzoni e che cantava sempre quella cazzo di canzone del Che.. tu mano gloriosa y fuerte… tutte le sante sere. La mattina arrivava anche una donna sulla quarantina e noi verso le undici si era già a far di scherma coi gin tonici e mi afferrava il braccio e diceva che lei aveva i poteri per curare e mi teneva stretto e diceva “lo senti il calore che trasmetto”. Poi c’erano quelli che volevano parlare di libri e lì io e Corrado si gioca in casa ma ci piaceva inventare certe trame più belle di quelle ficcate in quelle pagine con lo sconto. Il migliore però era un algerinio nichilista che stava delle ore a parlare con noi di filosofia e politica e vecchie moto e che a pranzo si mangiava i panini con la mortadella con noi e i ragazzini delle rose passavano e lo guardavano come fosse il demonio e una sera due me l’hanno detto di starci attento che se io mangio maiale vabbè ma se lo fa un arabo dev’essere matto sul serio. Ce ne ho messo del mio per rassicurarli che non ero in pericolo. Del resto io mi riprometto sempre di starmene finalmente buono buono e poi succedono le cose e mi infilo nei guai a piedi pari e un’altra sera a quello stronzo che aveva tirato un calcio gratis a uno dei ragazzini delle rose gli ho spiegato la maledizione della vita. Poi sono arrivati quelli colla giacca giusta e io a cantargli “lo so che in fondo vieni dalle capre per imparare questo bel mestiere, però se almeno prima eri pastore adesso sei ridotto a fare il cane”. Come se nulla fosse. Di nuovo nei soliti guai nostri. E di nuovo fratelli che diventavano fratelli lì in mezzo alla strada che è terra nostra e terra di nessuno. Noi prendevamo una percentuale sugli incassi e ogni sera la toglievamo dal mucchio e lasciavamo quasi tutta la parte spettante al boss da un’altra parte. Poi si andava a cena col disavanzo e si cenava in parecchi in riva al porto che poi il cuoco ci portò che era quasi l’alba a casa sua e aveva una nicchia tutta dedicata al duce e noi si bevve con lui gli ultimi giri senza differenze e senza rancori, che aveva un mobile bar caricato a sogno proprio di fronte all’altare fascista e noi si beveva dando le spalle. La notte nei vicoli i topi enormi ti fissavano senza spostarsi e noi per entrare alla pensione dovevamo suonare perché la signora si rifiutava di darci le chiavi. L’ulttima mattina dovevamo smontare tutto. Vado al bar a fare colazione e non trovo più i soldi, tutta la mesata di soldi. Torno alla pensione e faccio un casino. Ammetto di aver sfondato la porta della camera a calci insieme a Corrado, ammetto di aver creato un certo disordine. Niente soldi. Li ho maledetti tutti. Per strada ho incontrato due dei ragazzi delle rose e gli ho raccontato la mia storia, l’ultima storia perché sapevamo già che non ci saremmo più rivisti e tra gente di passo non è un grosso problema. Uno dei due ragazzi m’ha guardato e s’è messo a piangere per me. Poi ho guidato il camion tutta la notte e siamo tornati in veneto a scaricare i libri restanti e i tavoli. La sera ero di nuovo a casa e raccontavo a Ste dello sbalestrato che aveva un occhio solo perché l’altro l’aveva perso facendo un numero di tiro a segno nelle televisioni private con la balestra e raccontavo del pesce spada buonissimo e poi ho aperto lo zaino e uno degli Urania è caduto a terra e dentro ci avevo nascosto i miei soldi e me ne ero dimenticato. Poi s’è fatto l’amore parecchio che me l’ero sognato tutti quei giorni lì. Perché così vanno le cose. Vanno e basta. Dove sono tutti ora. Io son qui a suonare sempre la ballata dell'assenza.


Fatti e persone di questa storia son frutto della fantasia. Ti conviene crederci.

giovedì 6 settembre 2012

calor bianco

Giorgio Olmoti, dopo pranzo nell'afa di agosto, Udine, 2012

Un'amica una volta mi disse che ad andare al cinema con me si provava un velo di imbarazzo perchè sembrava che in sala tutti guardassero lo schermo e io continuassi a guardare la gente. Un maledetto vizio che m'ha portato a interessarmi più alle cucine che alla sala pranzo, ai camerini piuttosto che alla ribalta. Ogni volta che incappo in un "tempo tecnico", un inciampo nella natura umana che la governa, di una qualche macchina narrativa, mi incuriosisco e m'affascino. Il re è nudo e dio non esiste, e non esiste il racconto ufficiale, rimangono le frasi di strada e una memoria collettiva nutrita di invenzioni e dolore e risate senza nessun artificio che le renda immortali. Uscivo da una trattoria dove avevo trovato rifugio al maledetto caldo di questo agosto barricandomi dietro una birra ghiacciata e mi sono imbattuto in questa scena. Quando si dice una giornata al calor bianco

scheggia di terramossa


martedì 4 settembre 2012

tempo di scrivere, tempo di guardare

Carlo Naya, Scrivano e traduttore, Napoli, 1865



Carlo Naya, nato a Tronzano Vercellese nel 1816 e morto nel 1882 a Venezia, lega alla città lagunare la sua fama di fotografo. In realtà compì i suoi studi universitari a Pisa e viaggiò molto in Italia e all’estero ma è effettivamente a Venezia che la sua attività di fotografo ebbe chiaro compimento professionale. Normalmente dedicato al racconto della città secondo uno schema narrativo riconducibile all’esperienza dei vedutisti, subisce il fascino del fermento che si muove tra le vie strette della città che i suoi magnifici scorci non sanno certo raccontare. Nella sua produzione affiorano dunque reperti di quella che oggi chiamiamo foto sociale, racconti di marginalità, di piccoli commerci di sussistenza. Una foto notissima, risalente al 1865 e che, colorata, ritroviamo anche nel catalogo di Giorgio Sommer è quella dello scrivano e traduttore di piazza. Realizzata a Napoli questa immagine è una sintesi efficacissima del suo tempo. Siamo agli albori dell’unità d’Italia e il meccanismo di costruzione dell’identità nazionale è ancora lungi dall’essere avviato secondo la strategia che prevede l’attivazione di percorsi scolastici minimi estesi a ampie fasce della popolazione, così da poter costruire una lingua condivisa sulla babele di altre lingue e dialetti che suonano avverse al concetto stesso di unità. Il grado di scolarizzazione in quello che fino a pochi anni prima era il dominio borbonico era piuttosto basso e per leggere le lettere, per scriverle alle persone care che s’erano avviate verso i flussi migratori, toccava chiedere aiuto a persone istruite. Lo stesso valeva per la gestione burocratica della propria vita, documenti, ingiunzioni, chiamate alla leva, tutto quel sistema complesso che oltre la scolarzzazione puntava alla costruzione a tappe forzate di un identità condivisa. Nei vicoli napoletani Carlo Naya fotografa dunque questo scrivano e traduttore ambulante mentre offre i suoi servizi professionali a una donna. Il personaggio ha un aspetto strano, marca la sua immagine di studioso ponendo l’accento anche sui modi e l’aspetto secondo una divertente strategia di marketing. La donna, nella posa cercata dall’artista, guarda allo scrivano come al maestro di porta di un mondo misterioso e irragiungibile.
Sembrano memorie di un tempo lontano.
A Torino quando il tempo è propizio un ragazzo tunisino sposta il suo ufficio all’aperto e riceve i suoi clienti. Permessi di soggiorno, curricula, libretti di lavoro. C’è una piccola fila ordinata in attesa nel tardo pomeriggio e c’è un vassoietto con i biscotti per ingannarel’ansia. Guardandolo mi sono ricordato di Carlo Naya e del mio rifiuto di pensare “le immagini di un tempo” preferendo piuttosto pensare che le immagini hanno tutto il tempo che vogliono. Con buona pace di quelli che non seppero spiegarsi a suo tempo perché il mio racconto per immagini dei giorni del boom economico passasse dai vicoli delle città percorsi dall’acquaiolo e dall’impagliatore di fiaschi. Le fabbriche c’erano, certo che c’erano, perché i racconti valgono tutti. Tutti appunto. E questo me lo son fatto scrivere da un signore alla fermata del tram. Per pochi spiccioli in cambio. Tenetene il debito conto.


Giorgio Olmoti, Scrivano e traduttore, Torino, 2012