In un’altra vita di questa stessa vita qui. A
Genova stavamo in galleria con una lunga sequenza di tavoli colmi di libri
scontati da vendere. Pagine fuori catalogo e cataloghi senza giudizio
s’ammassavano in un bailamme che era la vera ricetta vincente della nostra
scommessa commerciale. A dire il vero noi non si rischiava niente che la merce
era di uno che arrivava coi furgoni e certi peruviani da combattimento e
metteva in piedi la fiera del libro a prezzo smezzato e ci lasciava lì un mese,
in una città qualsiasi. Quella volta c’eravamo io, Corrado e un altro che non
lo conosco abbastanza bene da immaginare che abbia ancora piacere a essere
ricordato in quel mestiere che per lui era una parentesi e per noi
un’abitudine. Sta di fatto che dormivamo in una pensione nei vicoli del centro
storico di quelle che se ammazzi gli scarafaggi e li consegni alla signora al
tavolo delle chiavi, che parlare di reception pare brutto e dequalificante, ti
scalano un tot dalla tariffa giornaliera. Alla fine quasi andavamo a guadagnarci
che tornavamo alle cinque della mattina e trovavamo la camera occupata da una
torma kafkiana di scarrafoni. Alle otto e mezza di mattina levavamo i teli dai
tavoli e s’attaccava a vendere. Due, tre ore di sonno addosso e gli anni giusti
per saperle portare e stare lì a dare musica al circo di strada di quei giorni.
Avevamo una sequenza fissa di ospiti abituali, in genere completamente fuori di
senno e se conoscete qualcuno che lavora in libreria vi confermerà che la
pagina attrae il matto oltre ogni ragione plausibile. C’era uno che diceva di
fabbricare pistole a casa sua e ci invitava la sera da lui ma non abbiamo mai
avuto occasione la sera di ricordarci l’indirizzo. La russa enorme con gli
occhiali spessi che era laureata in storia di qualcosa e s’ingozzava di tutti i
pezzi di focaccia che la gente aveva a un certo punto iniziato a portarci.
Senza ragione. Come tutto lì attorno. La russa enorme che una sera si mise a
sedere al tavolo nostro della trattoria e cominciò a gridare insultandomi e era
uguale alla tipa di dancer in the dark ma più grassa e più triste e mi diceva
qualcosa di infervorato che passava da una mia idea sbagliata si Hegel e io
m’ero limitato a ordinare un bicchiere di qualcosa senza chiederle se ne voleva
uno anche lei. Del resto quella era una amicizia privilegiata di Corrado e non
volevo sovrappormi. Di mio avevo una pattuglia di ragazzini marocchini che
vendevano le rose in giro e che facevano pausa da noi al bar e ci bevevamo il
tè freddo e si parlava del sugopronto che erano dei barattoli che tu vai a casa
e anche se tua madre è dall’altra parte del mondo e tu hai undici anni ti
attrezzi col fornellino e mangi una cosa proprio buona. All’inizio offrivo
sempre io che a dire il vero offriva il boss ma lui non lo sapeva. Poi i
ragazzini hanno cominciato la sera, quando tiravamo i teli sui libri, ad
arrivare coi dolci di miele e certi biscotti al cioccolato e si chiudeva la
giornata di lavoro insieme. Oltre a loro arrivavano altri che avevamo
raccattato nei vicoli e ora uno è un comico famoso e alla televisione fa la
torta di riso e si chiama Andrea Ceccon con la fidanzata che ci portarono una
sera a casa loro a mangiare la trippa. Poi c’era Gigi Picetti che aveva un
locale che era casa nostra in quei giorni e quando me ne sono andato m’ha
ficcato nello zaino, lo stesso che ho adesso per la santa coerenza, una paccata
di vecchi Urania. Il socio di Gigi aveva una scacchiera e giocava da solo e
Corrado tutte le sere gli spostava un alfiere o un cavallo ma lui continuava
non se ne dava per inteso. Poi c’era una donna mora di cui non ricordo il nome,
che da giovane aveva avuto una carriera di canzoni e che cantava sempre quella
cazzo di canzone del Che.. tu mano gloriosa y fuerte… tutte le sante sere. La
mattina arrivava anche una donna sulla quarantina e noi verso le undici si era
già a far di scherma coi gin tonici e mi afferrava il braccio e diceva che lei
aveva i poteri per curare e mi teneva stretto e diceva “lo senti il calore che
trasmetto”. Poi c’erano quelli che volevano parlare di libri e lì io e Corrado
si gioca in casa ma ci piaceva inventare certe trame più belle di quelle
ficcate in quelle pagine con lo sconto. Il migliore però era un algerinio
nichilista che stava delle ore a parlare con noi di filosofia e politica e
vecchie moto e che a pranzo si mangiava i panini con la mortadella con noi e i
ragazzini delle rose passavano e lo guardavano come fosse il demonio e una sera
due me l’hanno detto di starci attento che se io mangio maiale vabbè ma se lo
fa un arabo dev’essere matto sul serio. Ce ne ho messo del mio per rassicurarli
che non ero in pericolo. Del resto io mi riprometto sempre di starmene
finalmente buono buono e poi succedono le cose e mi infilo nei guai a piedi
pari e un’altra sera a quello stronzo che aveva tirato un calcio gratis a uno
dei ragazzini delle rose gli ho spiegato la maledizione della vita. Poi sono
arrivati quelli colla giacca giusta e io a cantargli “lo so che in fondo vieni
dalle capre per imparare questo bel mestiere, però se almeno prima eri pastore
adesso sei ridotto a fare il cane”. Come se nulla fosse. Di nuovo nei soliti
guai nostri. E di nuovo fratelli che diventavano fratelli lì in mezzo alla
strada che è terra nostra e terra di nessuno. Noi prendevamo una percentuale
sugli incassi e ogni sera la toglievamo dal mucchio e lasciavamo quasi tutta la
parte spettante al boss da un’altra parte. Poi si andava a cena col disavanzo e
si cenava in parecchi in riva al porto che poi il cuoco ci portò che era quasi
l’alba a casa sua e aveva una nicchia tutta dedicata al duce e noi si bevve con
lui gli ultimi giri senza differenze e senza rancori, che aveva un mobile bar
caricato a sogno proprio di fronte all’altare fascista e noi si beveva dando le
spalle. La notte nei vicoli i topi enormi ti fissavano senza spostarsi e noi
per entrare alla pensione dovevamo suonare perché la signora si rifiutava di
darci le chiavi. L’ulttima mattina dovevamo smontare tutto. Vado al bar a fare
colazione e non trovo più i soldi, tutta la mesata di soldi. Torno alla pensione
e faccio un casino. Ammetto di aver sfondato la porta della camera a calci
insieme a Corrado, ammetto di aver creato un certo disordine. Niente soldi. Li
ho maledetti tutti. Per strada ho incontrato due dei ragazzi delle rose e gli
ho raccontato la mia storia, l’ultima storia perché sapevamo già che non ci
saremmo più rivisti e tra gente di passo non è un grosso problema. Uno dei due
ragazzi m’ha guardato e s’è messo a piangere per me. Poi ho guidato il camion
tutta la notte e siamo tornati in veneto a scaricare i libri restanti e i
tavoli. La sera ero di nuovo a casa e raccontavo a Ste dello sbalestrato che
aveva un occhio solo perché l’altro l’aveva perso facendo un numero di tiro a
segno nelle televisioni private con la balestra e raccontavo del pesce spada
buonissimo e poi ho aperto lo zaino e uno degli Urania è caduto a terra e
dentro ci avevo nascosto i miei soldi e me ne ero dimenticato. Poi s’è fatto
l’amore parecchio che me l’ero sognato tutti quei giorni lì. Perché così vanno
le cose. Vanno e basta. Dove sono tutti ora. Io son qui a suonare sempre la ballata dell'assenza.
Fatti e persone di questa storia son frutto
della fantasia. Ti conviene crederci.