“Prego
vada prima lei che scende prima” “a che piano?” “vada, vada che ho la spesa…”.
Vivo in un vecchio palazzo sbrecciato e l’ascensore originariamente non c’era.
Poi i condomini, sulle tracce di questo maledetto destino della città industriale
che muore, hanno cominciato a sentire il peso di quei gradini annunciati da una
guida rossa che nel tempo è diventato un villaggio vacanze per gli acari che
lavorano in campagna. E allora hanno fatto mettere quest’ascensore in un
palazzo che originariamente forse non sospettava nemmeno esistessero aggeggi
meccanici di quella fatta. S’è ricavato un colon architettonico tra la tromba
delle scale e l’antico scivolo del pattume, un esofago che rigurgita povere
persone inacidite in un reflusso antropologico che è tutto quello che possiamo
raccontarci dell’oggi. Così adesso abbiamo l’ascensore, che come non bastasse
la possibilità ridotta del budello, è stato costruito con le porte che si
aprono verso l’interno, scatenando pressioni e strusciamenti che, considerato l’andamento
demografico dei condomini, sembrano più prova di fossa comune che guizzi
d’erotismo spicciolo. I vicini li ritrovi pressati a filo d'alito e piomba
quell’imbarazzo che è tipico di quel momento lì dello scendere e del salire e
dell’averci finalmente anche tu un piano nella tua vita. “Che piano?” chiedono
gli altri che ti conoscono e già lo sanno ma lì dentro non puoi guardare il
cielo dicendo che forse pioverà o cazzate così e allora te la giochi come puoi.
“Che piano?” sussurra quella del terzo che è rimasta signorina e quella
promiscuità la agita. “Che piano?” chiede quello che è arrivato da qualche mese
e avrà la mia età e misura una fottuta solitudine con il rumore delle bottiglie
di vetro che lascia cadere la notte, con cadenza ordinata da uno spartito che
gli balla in testa, nel contenitore della differenziata. Cammina a filo di muro
e sussurra qualcosa che non saprò. “Che piano?” quello del quarto che alla fine
siamo diventati amici e si parla rimanendo appoggiati ai cofani delle auto e si
scherza e poi ognuno a casa sua e non ne conosco il nome. “Che piano?” chiede
quella che aveva scritto una lettera all’amministratore perché i miei cani
anche se non li senti mai potrebbero portare malattie e quando mi chiede “che
piano?” rispondo sempre “di distruzione di massa”. Invece a quell’altra che
faceva la modella e la notte telefonava a uno e gridava e piangeva e aveva
sempre un trolley da trascinare e forse non era proprio modella e aveva gli
occhiali scuri e neri a coprire il velo di bonza posato sui pensieri le ho
detto una volta “a coda” in risposta alla fatidica domanda ma quella non
m’ha curato per niente e già
preparava le lacrime per la telefonata che aveva in punta di dita.”Che piano?”
mi domando da solo, che mica mi ricordo.
Ficcato
in quella polpa d’umanità sospesa ho letto la portata e i numeri d'emergenza
milioni di volte con la faccia del "ma guarda tu" mentre mi studiavo
gli altri di traverso, in un annusarsi reciproco. E quelli del piano di sotto
che non salutano e guardano a terra e tu pensi che è colpa del letto che
sussulta spesso la notte e devi deciderti a operare delle modifiche silenzianti.
Per averne in cambio un sorriso. Illusioni in millesimi.