giovedì 10 luglio 2014

RIDUZIONE IN SCALA









“Prego vada prima lei che scende prima” “a che piano?” “vada, vada che ho la spesa…”. Vivo in un vecchio palazzo sbrecciato e l’ascensore originariamente non c’era. Poi i condomini, sulle tracce di questo maledetto destino della città industriale che muore, hanno cominciato a sentire il peso di quei gradini annunciati da una guida rossa che nel tempo è diventato un villaggio vacanze per gli acari che lavorano in campagna. E allora hanno fatto mettere quest’ascensore in un palazzo che originariamente forse non sospettava nemmeno esistessero aggeggi meccanici di quella fatta. S’è ricavato un colon architettonico tra la tromba delle scale e l’antico scivolo del pattume, un esofago che rigurgita povere persone inacidite in un reflusso antropologico che è tutto quello che possiamo raccontarci dell’oggi. Così adesso abbiamo l’ascensore, che come non bastasse la possibilità ridotta del budello, è stato costruito con le porte che si aprono verso l’interno, scatenando pressioni e strusciamenti che, considerato l’andamento demografico dei condomini, sembrano più prova di fossa comune che guizzi d’erotismo spicciolo. I vicini li ritrovi pressati a filo d'alito e piomba quell’imbarazzo che è tipico di quel momento lì dello scendere e del salire e dell’averci finalmente anche tu un piano nella tua vita. “Che piano?” chiedono gli altri che ti conoscono e già lo sanno ma lì dentro non puoi guardare il cielo dicendo che forse pioverà o cazzate così e allora te la giochi come puoi. “Che piano?” sussurra quella del terzo che è rimasta signorina e quella promiscuità la agita. “Che piano?” chiede quello che è arrivato da qualche mese e avrà la mia età e misura una fottuta solitudine con il rumore delle bottiglie di vetro che lascia cadere la notte, con cadenza ordinata da uno spartito che gli balla in testa, nel contenitore della differenziata. Cammina a filo di muro e sussurra qualcosa che non saprò. “Che piano?” quello del quarto che alla fine siamo diventati amici e si parla rimanendo appoggiati ai cofani delle auto e si scherza e poi ognuno a casa sua e non ne conosco il nome. “Che piano?” chiede quella che aveva scritto una lettera all’amministratore perché i miei cani anche se non li senti mai potrebbero portare malattie e quando mi chiede “che piano?” rispondo sempre “di distruzione di massa”. Invece a quell’altra che faceva la modella e la notte telefonava a uno e gridava e piangeva e aveva sempre un trolley da trascinare e forse non era proprio modella e aveva gli occhiali scuri e neri a coprire il velo di bonza posato sui pensieri le ho detto una volta “a coda” in risposta alla fatidica domanda ma quella non m’ha  curato per niente e già preparava le lacrime per la telefonata che aveva in punta di dita.”Che piano?” mi domando da solo, che mica mi ricordo.
Ficcato in quella polpa d’umanità sospesa ho letto la portata e i numeri d'emergenza milioni di volte con la faccia del "ma guarda tu" mentre mi studiavo gli altri di traverso, in un annusarsi reciproco. E quelli del piano di sotto che non salutano e guardano a terra e tu pensi che è colpa del letto che sussulta spesso la notte e devi deciderti a operare delle modifiche silenzianti. Per averne in cambio un sorriso. Illusioni in millesimi.

mercoledì 2 luglio 2014

Quando vedo non sto mai guardando






 




Sei venuta a cercarmi. Di notte sei venuta a cercarmi e m’hai trovato nel buio seguendo il rumore della pietra che affila. Avevo ripetuto, tutte le volte che non serviva ricordarlo, che ti avrei aspettato per sempre e poi sei venuta a cercarmi tu. Dovrei vergognarmi già solo per questo ma la vergogna l'ho data in saldo la prima volta che mi sono sognato addosso. Hai seguito le tracce che lasciano le mie suole sempre sporche di fango anche se giro da anni sospeso sulle moquette di questo tempo mediocre che mi resta. Sei arrivata alle mie spalle per non dovermi costringere all’imbarazzo di non averti visto di nuovo arrivare. Quando vedo non sto mai guardando. Sei venuta a cercarmi in punta di rabbia e in accesso di passione, roba che si controlla male e che quindi posso misurarmi addosso con bella disinvoltura. E io che ti dicevo t’aspetto mi sono distratto al primo incidente mortale all’incrocio e poi sono andato con una piega dentro che avrebbe dovuto ricordarmi qualcosa ma non ricordavo cosa. Sei venuta a cercarmi seguendo l’odore dei cani come solo i cani sanno seguirlo. Quando mi hai trovato non c’ero già più da un pezzo e mica perché scappo, piuttosto perché mi dimentico di esserci sempre. Dice che è la mia benedetta maledizione. Sei venuta a cercarmi e a svelare il tuo inganno c'era la borsa delle possibilità caricata di ricordi. Non funziona mica così.




martedì 1 luglio 2014

fila la lama, fila i tuoi giorni

















sto bevendo il caffè al bar sotto casa. piove di un'acqua che non si aspetta, altro che benedetta. sotto il tavolo i cani mi guardano con quello sguardo di rimprovero che hanno sempre quando piove. ho la certezza che mi ritengano responsabile dei temporali e dell'erba bagnata e dei tuoni, soprattutto sciumi ogni volta che c'è un tuono fa un salto e poi mi guarda come per dire "vediamo di piantarla". sto leggendo il giornale e mangio a piccoli morsi una ciambella ricoperta di una glassa rosa che è già presagio di avvelenamento. "ora tutti voi giovani ci avete la moda di farvi il carone, la capa rasata a zero come a militare" è un vecchio sbudellato che sta seduto davanti a me e che evidentemente, visto che sono l'unico non impegnato con le macchinette mangiasoldi, mi sta parlando. il fatto che abbia detto "voi giovani" mi lascia incerto ma alzo la testa dal giornale e lo guardo. sorride. sta parlando proprio con me. "i capelli quando ero giovane io erano importanti perchè alle donne ci piaceva a vederti pettinato colla brillantina come quelli del cinema e andavi a ballare e più eri pettinato più... ci siamo capiti. poi questa cosa dei capelli era pure una sicurezza". si studia la pausa. "all'epoca tutti avevamo dei fastidi con le guardie in questa zona, eravamo dei monelli" dice proprio così "e mica potevi andare in giro con la lama in tasca tanto tranquillo che se ti conoscevano finiva sempre che ti fermavano e ti guardavano nella giacchetta e magari si tenevano due spiccioli. allora non potevi girare con un coltello e il cannone lo tenevi nascosto per quando poteva servire sul serio ma se andavi in giro per strada mica tutti erano amici che quando uno ride qualcun'altro sempre piange. insomma ci eravamo imparati a tenere un pettine d'osso in tasca, era una cosa che forse si erano imparati quando si facevano l'albergo, e tu il pettine te lo facevi lavorare di fino colla mola e lo affilavi proprio sulla schiena d'osso e devi vedere come tagliava. con niente ci facevi la faccia a uno". questa storia del pettine già la conosco ma lui pare ci tenga proprio a lasciare la sua memoria appoggiata lì, tra il giornale e le briciole della ciambella rosa. "hai capito che i capelli sono una cosa comoda che se non li hai come cazzo te ne vai in giro con un pettine in tasca? vabbè, tu hai i cani e già stai abbastanza tranquillo ma uno col pettine giusto se ne frega dei cani tuoi?". sorrido. forse potranno affettarmi con mille arnesi ma se tirano fuori un qualcosa in osso giuraci che per i cani è un lampo ridurlo in briciole. osso è la parola magica. mi rimetto a leggere il giornale.