giovedì 4 maggio 2023

preso alla lettera

 


Ti scrivo per consegnarti le parole che la sera al telefono non è semplice gestire, in bilico sul sapore che resta della trattoria e lo spazio di queste stanzette, che annullano qualsiasi istinto territoriale e ti fanno eterno straniero. Ti scrivo in punta di polpastrello, sperando che lo schermo sia più veloce del sangue che carica le mie solite stilografiche. Ti scrivo dopo aver salutato l'alba senza vederla, affogato nel buio necessario regalato dalla tapparella per risparmiare a questo pulsare di vita del cortiletto, l'ombra del mio corpo pesante e nudo che muove il suo passo coattivo da qui a lì e da lì a qui, come la fiera del circo stipata nel gabbione tra un numero e l'altro. Ti scrivo per dirti di questa città che attraverso cercando e scoprendo ma restando in bilico come non m'era mai capitato. Fuggo la disposizione nevrite al nulla che scambiano per il tutto lasciandomi stupito, che è la cifra del mio presente, quello con cui sono arrivato a misurarmi ora. Ma ne ho viste di cose io, mi ripeto mentre il sonno mi saluta e mi lascia nel letto a ascoltare nelle cuffie questo sassofono napoletano e amico che mi recupera al respiro. Ti scrivo da una stanza che mi hai prenotato da lontano, scegliendo a caso che quella è la regola dell'ennesimo gioco che ci siamo inventati e mi accorgo che se mangiare a un tavolo da solo la sera mi piace, non si può dire lo stesso per il letto. Non mi piace dormire solo in un letto. In spiaggia, nel bosco, in treno, su un lembo di prato a bordo strada, in macchina ho dormito milioni di volte e da solo ma nel letto mi manca quella sensazione di un corpo altro, di un respiro altro. Ti scrivo come a salutarti con la prudenza delle parole, come accostassi a un molo senza abitudine. Scrivo e conto i passi che mi dividono dal bar del mattino che deve bastare. A pranzo passeggio per strade sempre diverse, non lo crederesti ma il tempo del pranzo lo passo da solo a camminare e a fermarmi sui ponti per guardare quel garbuglio di storie che fa intuire la forza dell'acqua che trascina. La mia prodigiosa memoria a pranzo mi lascia al presente e basta. Ancora non lo crederesti.
Così passo davanti alla chiesa di Sant'Andrea Apostolo, che quel santo porta il nome di mio fratello e già per questo mi piace. Ogni giorno c'è questa coppia di barboni e lei è anziana e ha piedi gonfi e la faccia pure, segnata dall'abitudine al merdosissimo vino nei cartoni e con la pelle conciata dal caldo e dal freddo, dal freddo e dal caldo. Lui è più giovane, alto e vestito sempre con un tocco folle. Cuffie rosa e gialle di lana e un mantello scuro e scarpe fuori tempo e misura. Tengono mille masserizie ordinate in un cubo monolitico di coperte e stracci. Lui legge giornali, lei guarda la gente che sfila. Parlano fitto tra loro e si bastano. Ieri sono passato nel tardo pomeriggio e lei cingeva il ragazzo in un abbraccio che accoglieva un abbandono disperato e vinto. La marea mugghiante dei turisti passava diretta all'arte raccontata dalle guide e nessuno s'avvedeva di quella formidabile Pietà.
Ti scriverò ancora da questi letti dormiti a caso. Sembra un buon trucco per dar tregua al calore bianco di questo amare che mi brucia da una vita.


Ph. Giorgio Olmoti