domenica 22 marzo 2020

Di passaggio





Nel 1987 tutta la mia famiglia se n’è andata da Udine, Mio padre è stato trasferito prima a Perugia e poi a Roma, a finire la carriera militare spiaggiato, come si usa in quel mestiere lì delle armi, in qualche corridoio del ministero. I giorni del trasloco sono stati un frenetico imballare e impilare e impacchettare e pennarelloni per scrivere sulle scatole. Tutto quel tira e molla del trasloco. Io e mio fratello, nel fiore di quella demenza che non ci avrebbe mai abbandonato, ci immaginavamo le facce dei traslocatori quando avrebbero letto “testa impagliata della nonna” o “peli, unghie, tazze della colazione”. In quei giorni lì abbiamo buttato tutti i giocattoli di quando eravamo piccoli varcando la soglia verso l’età adulta come in un rito di passaggio di qualche tribù africana. Buttammo i soldatini Atlantic, che erano una sorta di Lilliput della vita lavorativa di nostro padre e da bambino pensavo mi fossero assegnati d’ufficio dal Ministero dei Beni ludici e che i figli dei fruttivendoli giocassero con dei fruttivendolini e i figli dei medici con dei medicini. Furono eliminati anche i Big Jim, quegli ometti di silicone che dovevano essere la variante maschia della Barbie e  avevano un tasto sulla schiena che gli provocava un su e giù del braccio che avrebbe dovuto essere un colpo di karate, ma che più probabilmente era stato la nostra palestra didattica verso l’atavico gesto onanistico. Un natale me lo avevano regalato anche a me lo sportivissimo Big Jim, nella versione base, ovvero, un triste tarchiatello anabolizzato in mutande, senza accessori e vestiti e mezzi di trasporto. Nelle pubblicità su Topolino questo personaggio era un’arma potentissima di americanizzazione delle giovani menti europee. Vestiva con camicie a scacchi e ampi cappelli da cowboy e aveva sempre un fucile o un pistolone in mano e elicotteri, barche, camper, rifugi atomici e catene di fast food. Lontanissimo dalla nostra realtà. Era difficile pensarlo alle prese con un Garelli tre marce e una rosetta con il salame ungherese. Come quando ti serve una foto per illustrare una famiglia italiana a pranzo e l’agenzia ti manda dei sanissimi californiani che pasteggiano mangiando tacchino ai mirtilli bevendo latte. Tu lo sai che quella foto non è plaiusibile ma è come se riconoscessi in quei gesti che non ti appartengono il segreto della loro potenza mondiale. Siamo culturalmente sudditi del mondo di Big Jim. E i vestiti del muscoloso bambolotto erano carissimi e il mio si dovette adattare a certi pantaloni di velluto a coste, cuciti da mia nonna utilizzando indumenti frusti miei. Praticamente il mio Big Jim era inabile a qualsiasi movimento, ingessato in pesantissimo pantaloni stretti alla vita da un pezzo di elastico di mutanda che su di lui facevano un tragico effetto cinto d’ernia. Quando andavo in cortile a giocare con gli altri il mio Big Jim, con i pantaloni di velluto a coste grossissime e l’elasticone alla vita e una canotta ricavata dal tulle di una bomboniera azzurra sembrava uscito da una rivista per soli uomini che gli piacciono gli altri uomini. Una sorta di grottesca replica di un set di  Robert Mapperthorpe in scala. Senza contare che mia nonna aveva scarsa dimestichezza con la lavorazione dei pellami, per cui il mio amico di silicone e velluto a coste girava a piedi nudi. Il fucile lo aveva ricavato mio padre da uno stecchino del ghiacciolo di legno. Lo aveva sagomato ed era venuto anche bene, che mio padre passava l’estate a intagliare pugnali e kriss malesi per me e i miei amici e il suo era anche un talento. Sta di fatto che quando arrivavo dai miei amici con il mio Big Jim conciato in quel modo finiva sempre che dovevo fare a botte per difendere l’onore mio e del mio bambolocchio estroso. Fino a quando tornò mio zio da un viaggio a New York e mi portò in regalo la versione americana di quel gioco lì, che avevo abboffato la uallera a tutta la mia famiglia con la storia che ero un appassionato di quei personaggi avventurosi. Il postino un giorno mi recapitò una grossa scatola e lo zio poi confessò di averla rubata rischiando la sedia elettrica perché in America se ti beccano a rubare in un negozio di giocattoli è un attimo e ti friggono. Dentro c’era un capo indiano che quanto a altezza e muscoli gli dava la pastina a Big Jim che, sia detto per inciso, era il solito complessato bassotto che si bombava di sostanze per darsi un tono, ma era pure più tappo di quello sfigato di Ken, il fidanzato ufficiale di Barbie. Insomma il mio capo indiano era un colosso come quello che volava sul nido del cuculo e parimenti forte. Aveva un set pieno di accessori, ricostruzione fedelissima di tutto l’armamentario di un vero capo Cherokee. Sembrava che più che un giocattolo quel set fosse una sala dello Smithsonian Museum a cui avevano collaborato antropologi, storici e John Wayne in persona. Sta di fatto che ogni volta che scendevo in cortile con il mio gigante con le trecce sentivo il peso di essere diverso. Tutti prendevano in giro il mio pupazzo piumato e nulla valeva spiegare cos'era un wampum o come si accendeva un kalumet. Alla fine andò in fondo a un baule e perse le mani in qualche zuffa con i soldatini in quel mondo di plastica dei miei giochi che sarebbe piaciuto a Lemuel Gulliver. Poi venne il trasloco e il Big Jim nel suo sudario di velluto a coste e il capo indiano con le mani mozze, come un Guevara della rivoluzione dei giocattoli, e i soldatini e le biglie finirono nei bidoni della spazzatura. A dire il vero non me ne resi conto, credo che mio padre si occupò di sopprimere l’ombra dei miei passi di bambino senza dirmi niente. E così tutta la famiglia è partita e io sono rimasto solo a Udine e ho trovato un cane nero, il primo di quella razza nera e spettinata che ha fatto la guardia all’ombra dei passi da uomo.