Il divano era quello in pelle
recuperato da qualche avanzo di trasloco di amici e che per anni è stato il
nostro Pequod. La sera dopo cena io e Dani ci piazzavamo sul divano e partivamo
alla volta del Mar dei Palazzi. Spesso incrociavamo altre navi da salutare e
c’era Giacinto Corsaro Dipinto, c’era la Calipso piena di scienziati subacquei,
c’era il Sottomergibile, c’era Bomby Dick la balena ciccia e soprattutto c’era
lui, il Comandante Diavolo. Infatti le altre barche e i cetacei che incrociavamo
e salutavamo se erano amici o facevamo bersaglio dei nostri cannoni se non ci
piacevano, galleggiavano su un mare trasparentissimo e erano trasparenti anche
loro ma Comandante Diavolo stava lì sul tavolo, dritto al timone e affrontava
la maledizione di essere un eroe silenzioso. Quando anni dopo mio figlio scoprì
che c’era una canzone dedicata a Germano Nicolini, il comandante Diavolo, non
ci voleva credere che anche gli altri sapessero di quella barca che avevamo
trovato nei mucchi di robaglia buttati in terra al mercato di Porta Palazzo.
L’avevamo pagato un euro il Comandante Diavolo e da allora veglia sulle nostre
tempeste domestiche. Il comandante Diavolo vero per mare forse non c’è mai
andato ma questo è un dettaglio. Quella sera avevamo cenato da poco, avevamo già
fatto salire i cani a bordo e stavamo levando le ancore. Nessun film alla televisione ci avrebbe
convinti a fermare la nostra crociera in quella casa in affitto che a norma
aveva solo la pasta con le melanzane. Sta di fatto che il ramponiere di un’altra
baleniera, per disgrazia o per dispetto, lascia andare il suo attrezzo
micidiale verso la mia schiena. Un dolore maledetto. Mai sentito. Ste corre a
vedere cosa sta capitando e mi ritrova per terra in preda a fitte tremende.
Colica renale. Dani ha due anni e se vi dico che ora ne segna quattordici fate
due rapidi conti. Nessuno può accompagnarmi al pronto soccorso e io non posso
certo prendere la moto. Chiamo l’ambulanza per la prima e, lo giuro, ultima
volta della mia vita. Arrivano due avanzi di astanteria che mi guardano e
dicono “Vabbè, mica possiamo portarti in barella con la scala così stretta. E
poi sei grande e grosso. Ce la fai a scendere a piedi. Ti reggiamo noi”. Dice
che il dolore della colica renale, da allora non ne ho più avute, è secondo solo
al parto e io ero alla colica gemellare. Arrivati in ambulanza mi siedono su
uno strapuntino e partono e a ogni buca una maledizione. Per fortuna l’ospedale
è molto vicino a casa mia. Il pronto soccorso è il set de “I guerrieri della
notte” però non quello originale ma un remake girato da una società di
produzione del Tagikistan. Arriva di tutto. Persone intere e pezzi sfusi, gente
aperta a bottigliate e decine in coma etilico come se piovesse vino fuori,
tossici in carenza, barboni in cerca di riparo per la notte che giurano di
avere qualsiasi malattia, ogni tanto entra un malato standard, un ragioniere
con sospetto d’infarto o un geometra preso da labirintite ma vengono trattati
come degli intrusi. Se vomiti in sala di attesa guadagni punti a bestia. Se
rubi lo stetoscopio al medico di turno sei reginetta della notte nosocomiale.
Mi lasciano lì, come Ungaretti nei giorni di Natale. Passano e non mi degnano
di uno sguardo e corrono che c’è una che sta partorendo un alien nell’altra
stanza. Poi ripassano con le mani che grondano sangue verde, che quello è alien
davvero, e vanno a ricevere una scatola di montaggio di tre persone
direttamente spedite dalla tangenziale dove c’è stato un incidente a catena. E
io lì a soffrire quel dolore che è secondo solo al parto e quindi, a mio
giudizio, dopo alien c’ero io. A un certo punto arriva un infermiere e mi dice
di sedermi su una seggiola che è uguale per design e dimesioni a quelle
dell’asilo. Riesco a incastrare una chiappa tra i due braccioli. Prende un
bombone di flebo e mi pianta di fretta un ago da calzolaio in vena “Vedrai che
andrà meglio” mi sibila mentre corre verso uno con la sedia a rotelle che il
volontario ha lasciato parcheggiato sulla rampa in discesa delle ambulanze.
Sorrido e svengo quasi subito. Non entro negli aspetti tecnici ma sono certo
che buona parte della mia generazione potrà capire se dico la magica parola:
fuorivena. Mi si è gonfiato il braccio a scoppiare e son svenuto. Mi
risvegliano e mi piazzano su un letto di quelli per portare le cavie anziane in
sala operatoria. Non ci sono letti liberi mi dicono e quindi mi sistemano in
corridoio, vicino alla porta di ingresso delle barelle delle ambulanze. Faccio
a tempo a guardare fuori in cortile e vedere un enorme nero che è arrivato con
un motorino, un Garelli credo, e si regge la faccia che gli hanno aperto in
due. Cammina senza fretta ma chiede se possono richiudergli il volto
gentilmente. Mi addormento e non so più nulla.
La mattina, lo scoprirò dopo che
è mattina, sento una voce familiare che mi risveglia dal sonno pesante indotto
dalle sostanze che, più o meno con perizia, mi hanno buttato in circolo. “Ma
che cazzo stai facendo”. Non c’è dubbio la voce è quella di Ste ma il tono non
è quello di chicorre al capezzale del caro infermo. Che sarà mai. Apro gli
occhi e la vedo. Avrà una settantina d’anni ma chi può dirlo, magari m’è
coetanea. Malgrado il tempo sia clemente indossa una sorta di giaccone pelosetto
color verde biliardo zona fumatori. Capelli giallo nicotina. Grossa. Puzza come
un cane bagnato ma più intenso. Ed è ficcata nel mio letto, sotto le coperte.
Con me. La guardo e guardo Ste. La gentile barbona che ha trovato rifugio
dentro le mie coperte alle mie confuse domande non rivolge minima attenzione.
Sta facendo colazione bevendo un barattolo di lenticchie che sa iddio come si è
aperta dentro il letto. Ingolla a garganella e il sughetto le corre frivolo giù
lungo il mento. “Cazzo, alzati da lì” mi urla Ste che evidentemente ritiene che
ci sia una mia colpa e la flagranza. Per tutta risposta la tipa, che ha finito
di rifocillarsi con la colazione dei campioni, si gira verso Ste e le pianta un
rutto in faccia che le fa i colpi di sole ai capelli. Rotolo giù dal letto. Maledico
il mondo. Il dolore non si sente più forte come la notte. Vado dal medico e firmo
per uscire, non ci voglio stare ancora un minuto lì dentro. Il medico legge
quelle quattro righe sghembe che mi riguardano e mi chiede senza interesse “Lei
beve?” “Pochissimo” rispondo io “Malissimo” risponde lui. Mi illumino e sento
che diventerà il mio medico curante a vita. Lui intuisce l’equivoco “Acqua,
parlavo dell’acqua, deve berne moltissima durante il giorno” .“Ah… grazie… ho
capito” rispondo io visibilmente deluso dalle frontiere della medicina che
ancora non si decidono a spostare i confini.
Per strada, a piedi, cammino
barcollando e Ste non mi parla, indecisa se portarmi rancore. Ma è già l’alba
in questo grumo postindustriale che dobbiamo pensare essere la nostra città
ora. Alla fine ridiamo e quella risata risveglia il ramponiere nelle reni che
m’assesta un’altra stilettata. Ma si fa l’abitudine a tutto e andiamo in un bar
a fare colazione.