martedì 21 ottobre 2014

Tango figurato del disdoro: figura 6





Il divano era quello in pelle recuperato da qualche avanzo di trasloco di amici e che per anni è stato il nostro Pequod. La sera dopo cena io e Dani ci piazzavamo sul divano e partivamo alla volta del Mar dei Palazzi. Spesso incrociavamo altre navi da salutare e c’era Giacinto Corsaro Dipinto, c’era la Calipso piena di scienziati subacquei, c’era il Sottomergibile, c’era Bomby Dick la balena ciccia e soprattutto c’era lui, il Comandante Diavolo. Infatti le altre barche e i cetacei che incrociavamo e salutavamo se erano amici o facevamo bersaglio dei nostri cannoni se non ci piacevano, galleggiavano su un mare trasparentissimo e erano trasparenti anche loro ma Comandante Diavolo stava lì sul tavolo, dritto al timone e affrontava la maledizione di essere un eroe silenzioso. Quando anni dopo mio figlio scoprì che c’era una canzone dedicata a Germano Nicolini, il comandante Diavolo, non ci voleva credere che anche gli altri sapessero di quella barca che avevamo trovato nei mucchi di robaglia buttati in terra al mercato di Porta Palazzo. L’avevamo pagato un euro il Comandante Diavolo e da allora veglia sulle nostre tempeste domestiche. Il comandante Diavolo vero per mare forse non c’è mai andato ma questo è un dettaglio. Quella sera avevamo cenato da poco, avevamo già fatto salire i cani a bordo e stavamo levando le ancore.  Nessun film alla televisione ci avrebbe convinti a fermare la nostra crociera in quella casa in affitto che a norma aveva solo la pasta con le melanzane. Sta di fatto che il ramponiere di un’altra baleniera, per disgrazia o per dispetto, lascia andare il suo attrezzo micidiale verso la mia schiena. Un dolore maledetto. Mai sentito. Ste corre a vedere cosa sta capitando e mi ritrova per terra in preda a fitte tremende. Colica renale. Dani ha due anni e se vi dico che ora ne segna quattordici fate due rapidi conti. Nessuno può accompagnarmi al pronto soccorso e io non posso certo prendere la moto. Chiamo l’ambulanza per la prima e, lo giuro, ultima volta della mia vita. Arrivano due avanzi di astanteria che mi guardano e dicono “Vabbè, mica possiamo portarti in barella con la scala così stretta. E poi sei grande e grosso. Ce la fai a scendere a piedi. Ti reggiamo noi”. Dice che il dolore della colica renale, da allora non ne ho più avute, è secondo solo al parto e io ero alla colica gemellare. Arrivati in ambulanza mi siedono su uno strapuntino e partono e a ogni buca una maledizione. Per fortuna l’ospedale è molto vicino a casa mia. Il pronto soccorso è il set de “I guerrieri della notte” però non quello originale ma un remake girato da una società di produzione del Tagikistan. Arriva di tutto. Persone intere e pezzi sfusi, gente aperta a bottigliate e decine in coma etilico come se piovesse vino fuori, tossici in carenza, barboni in cerca di riparo per la notte che giurano di avere qualsiasi malattia, ogni tanto entra un malato standard, un ragioniere con sospetto d’infarto o un geometra preso da labirintite ma vengono trattati come degli intrusi. Se vomiti in sala di attesa guadagni punti a bestia. Se rubi lo stetoscopio al medico di turno sei reginetta della notte nosocomiale. Mi lasciano lì, come Ungaretti nei giorni di Natale. Passano e non mi degnano di uno sguardo e corrono che c’è una che sta partorendo un alien nell’altra stanza. Poi ripassano con le mani che grondano sangue verde, che quello è alien davvero, e vanno a ricevere una scatola di montaggio di tre persone direttamente spedite dalla tangenziale dove c’è stato un incidente a catena. E io lì a soffrire quel dolore che è secondo solo al parto e quindi, a mio giudizio, dopo alien c’ero io. A un certo punto arriva un infermiere e mi dice di sedermi su una seggiola che è uguale per design e dimesioni a quelle dell’asilo. Riesco a incastrare una chiappa tra i due braccioli. Prende un bombone di flebo e mi pianta di fretta un ago da calzolaio in vena “Vedrai che andrà meglio” mi sibila mentre corre verso uno con la sedia a rotelle che il volontario ha lasciato parcheggiato sulla rampa in discesa delle ambulanze. Sorrido e svengo quasi subito. Non entro negli aspetti tecnici ma sono certo che buona parte della mia generazione potrà capire se dico la magica parola: fuorivena. Mi si è gonfiato il braccio a scoppiare e son svenuto. Mi risvegliano e mi piazzano su un letto di quelli per portare le cavie anziane in sala operatoria. Non ci sono letti liberi mi dicono e quindi mi sistemano in corridoio, vicino alla porta di ingresso delle barelle delle ambulanze. Faccio a tempo a guardare fuori in cortile e vedere un enorme nero che è arrivato con un motorino, un Garelli credo, e si regge la faccia che gli hanno aperto in due. Cammina senza fretta ma chiede se possono richiudergli il volto gentilmente. Mi addormento e non so più nulla.
La mattina, lo scoprirò dopo che è mattina, sento una voce familiare che mi risveglia dal sonno pesante indotto dalle sostanze che, più o meno con perizia, mi hanno buttato in circolo. “Ma che cazzo stai facendo”. Non c’è dubbio la voce è quella di Ste ma il tono non è quello di chicorre al capezzale del caro infermo. Che sarà mai. Apro gli occhi e la vedo. Avrà una settantina d’anni ma chi può dirlo, magari m’è coetanea. Malgrado il tempo sia clemente indossa una sorta di giaccone pelosetto color verde biliardo zona fumatori. Capelli giallo nicotina. Grossa. Puzza come un cane bagnato ma più intenso. Ed è ficcata nel mio letto, sotto le coperte. Con me. La guardo e guardo Ste. La gentile barbona che ha trovato rifugio dentro le mie coperte alle mie confuse domande non rivolge minima attenzione. Sta facendo colazione bevendo un barattolo di lenticchie che sa iddio come si è aperta dentro il letto. Ingolla a garganella e il sughetto le corre frivolo giù lungo il mento. “Cazzo, alzati da lì” mi urla Ste che evidentemente ritiene che ci sia una mia colpa e la flagranza. Per tutta risposta la tipa, che ha finito di rifocillarsi con la colazione dei campioni, si gira verso Ste e le pianta un rutto in faccia che le fa i colpi di sole ai capelli. Rotolo giù dal letto. Maledico il mondo. Il dolore non si sente più forte come la notte. Vado dal medico e firmo per uscire, non ci voglio stare ancora un minuto lì dentro. Il medico legge quelle quattro righe sghembe che mi riguardano e mi chiede senza interesse “Lei beve?” “Pochissimo” rispondo io “Malissimo” risponde lui. Mi illumino e sento che diventerà il mio medico curante a vita. Lui intuisce l’equivoco “Acqua, parlavo dell’acqua, deve berne moltissima durante il giorno” .“Ah… grazie… ho capito” rispondo io visibilmente deluso dalle frontiere della medicina che ancora non si decidono a spostare i confini.

Per strada, a piedi, cammino barcollando e Ste non mi parla, indecisa se portarmi rancore. Ma è già l’alba in questo grumo postindustriale che dobbiamo pensare essere la nostra città ora. Alla fine ridiamo e quella risata risveglia il ramponiere nelle reni che m’assesta un’altra stilettata. Ma si fa l’abitudine a tutto e andiamo in un bar a fare colazione. 




mercoledì 1 ottobre 2014

Tango figurato del disdoro: Figura 5

le dieci figure di merda che ti hanno segnato nella vita.
numero 5
Siamo nei giorni che precedono il natale. Siamo nel capoluogo piemontese vinto dalla morsa del gelo. Siamo nei primi anni del nuovo millennio, a occhio sono passati quattro anni da quando abbiamo passato la cilindrata delle nostre agende a duemila. Orso, mio figlio, ha quindi quattro anni appena e frequenta con bel profitto l’asilo di Cavoretto. A questo punto devo cercare di ricollocare geograficamente la vicenda perché è possibile che, per quanto a questo punto mi sembri impossibile, ci siano persone che non hanno ben chiaro dove sia Cavoretto. Partiamo dal presupposto che noi all’epoca si viveva a Torino città e per i più esigenti possiamo dire che eravamo a un passo dallo stadio del grandissimo Toro e a uno sputo e mezzo dalla madre di tutte le fabbriche. Abbiamo cambiato casa da allora ma siamo sempre in zona. Quando s’è trattato di scegliere l’asilo ci siamo resi conto che questa città è ormai avvitata alla carogna spiaggiata della produzione che ne ha segnato pesantemente la dimensione antropologica, sociale e emotiva. Così i giardini d’infanzia ci sono sembrati una sorta di preparazione alla cupa scansione dell’esistenza attraverso i ritmi della produzione, magari era solo suggestione nostra, magari a uscire tutte le mattine guardando verso i cancelli e canticchiando “Vincenzina e la fabbrica” nemmeno ci siamo molto avvantaggiati. Sta di fatto che Ste decide di iscrivere Orso all’asilo di Cavoretto. Trattasi nella fattispecie di un paesetto sulla collina torinese. Giusto qualche chilometro di curve in salita che mi hanno immediatamente convinto della bella pensata di Ste e che mi hanno fatto immaginare le gare in salita con la moto che avrei ingaggiato con gli altri papà. Ogni mattina, piovesse o ci fosse il sole, Ste , che è di una tempra che femmine così non le fanno nemmeno all’Ansaldo, prendeva la bici e arrivava fino al lembo ultimo della salita, poi prendeva un autobus senza mai fare il biglietto e saliva a Cavoretto. Giuro che ho visto Ste e Orso sparire nella nevicata sulla loro bici, la stessa che avevo trovato per strada nella campagna senese e m’ero rimesso a posto alla meglio. Orso si chiama davvero così, mica per scherzo, e già da piccolo era di buona pezzatura e il seggiolino si fletteva pericolosamente. Per fortuna un giorno amici ci hanno regalato una vecchia vespa e, guarda tu i casi della vita, sono andato a prenderla che non funzionav,a proprio a Cavorett. L’ho spinta di notte per quei dieci chilometri fino a casa e l’ho fatta ripartire consentendo all’equipaggio mattutino di agevolarsi di un mezzo sfrecciante e efficace. Ero fiero di quella mia avventura di recupero.
Ma dicevamo del natale. In casa editrice in quei giorni si chiudevano volumi e cataloghi e io lavoravo come un tragico scarabeo stercorario. A un certo punto mi arriva la telefonata di Ste “Guarda che la recita sta per iniziare”. Cazzo, la recita natalizia all’asilo. Ci sono tutte le mamme, tutti i papà, tutti i nonni e tutte le tate peruviane. Sono dalla parte opposta della città. Fuori è già buio da un pezzo, fa un freddo cane, lo ripeto così enfatizzo, e non ho una macchina ma solo la mia Guzzi California. Mi infilo il giaccone scendendo al volo le scale a quattro a quattro. Arrivo in strada e la sella, come capita spesso d’inverno, dopo ore di attesa delle mie chiappe trepidanti, è coperta da una brina che rischia di influire tragicamente sulle mie pulsioni da lì a sempre. Mi piacerebbe dire che salto in sella ma il California 1100 a carburatori è una cazzo di massa ferrosa mica da scherzarci e se sbagli la mossa per recuperarti ci vuole la protezione civile e i cani da macerie. L’abitudine di una vita sulla moto però gioca a favore e parto sfrecciando per i viali. La moto si intraversa sull’asfalto ghiacciato ma confesso che quello è il bello. Nella fretta non ho preso i guanti e il casco si appanna e devo tenerlo aperto. Se sei uno che ha avuto almeno un Garelli nella vita ora lo sai cosa vuol dire non avere i guanti a Torino a fine dicembre di sera con la brina che ti inchioda le palle alla sella e con le dita che in un breve lasso temporale si trasformano in magici Polarelli. Se non hai idea di cosa io provassi in quei momenti perché nemmeno il Garelli nella tua vita allora prova a immaginare che al posto della spina dorsale ti nasce un ghiacciolo arcobaleno e il cervello ti diventa come un Cucciolone, con tanto di formidabile barzelletta a fumetti sopra. Se ancora non ho reso l’idea rinuncio a evocare la ritirata di Russia e la sacca maledetta del Don e ti prego di non continuare oltre la tua lettura. Sta di fatto che corro come un pazzo e brucio i semafori e brucio anche le dita e la sensazione è quella delle unghie strappate. Arrivo alla salita e me la faccio a gas spalancato, rischiando nelle pieghe con la ruota che era quella che costava di meno e ora capisco perché. Alla fine arrivo nel cortile dell’asilo. Non c’è uno specchio e non mi posso vedere. I capelli che all’epoca portavo lunghi e fuori controllo inconrniciano un volto paonazzo e il corpo già pesante di suo e peggiorato dal giaccone enorme che indosso per salvarmi dal freddo. Le mani sanguinano dalle pieghe delle dita e, ma questo non ho modo di constatarlo subito, anche in corrispondenza delle pieghe all’angolo esterno dell’occhio, quelle di quando strizzi per il sole o il freddo in faccia, i tessuti hanno ceduto quando ho disteso il volto e ora sembro la madonna di Civitavecchia che piange sostanza ematica. Senza nemmeno l’avallo dei credenti. Sono una sorta di morto vivente uscito dalla bella fantasia di Romero. E così faccio il mio ingresso nell’asilo e mi dirigo alla sala delle recite. Lì non mi hanno mai visto perché, come ho già detto, è Ste che ogni giorno affronta la salita e porta il ragazzo a conquistarsi un pezzo di carta che gli sarà utile nella vita. Entro e attacco a fare le foto, che quello è mestiere mio. Lo capisco subito che la gente mi guarda con insistenza, sono uno di strada e me ne accorgo quando qualcuno mi punta. Se poi mi puntano in ottanta persone diciamo che vado in leggera tensione. Ste è davanti ma mi ha visto. Anche Orso mi ha visto e sorride. Questo volevo. Questo e basta. Mi rilasso. Però Ste si gira e mi fa dei brevi cenni segnalandomi qualcosa sul viso. Forse mi chiede dove ho gli occhiali. Mai io riesco a fotografare anche senza. Tranquilla, le faccio cenno, tutto sotto controllo. La recita finisce. I piccoli vanno dietro le quinte e i genitori rivolgono la loro attenzione al rinfresco apparecchiato sui banchetti con le torte e le patatine e le bibite e anche delle bottiglie di vino. Eccolo, penso io, il vino. Con tutto questo maledetto freddo ora mi bevo un goccio di Barbera e mi recupero alla vita. Però prima mi devo dare una ripulita alle mani con il sangue secco che ancora corre tra le dita. Della faccia nemmeno mi rendo conto e poi è l’aspetto mio solito con la barba lunga e il corpo fuori misura che non facilitano mai. Insomma afferro la bottiglia, la stappo con lo svizzero che ho in tasca e comincio a vagare tenendola stretta in mano e cercando un bicchiere che sembra brutto andare giù a canna. Ed è in quel momento che accade. Mi ritrovo circondato da tre o quattro maestre e un bidello. Tutti molto più bassi di me ma incalzanti. Una in particolare mi dice con l’occhio feroce “Scusi ma lei a che titolo è qui. Mi può mostrare un suo documento”. La sala si ferma. Mi guardano tutti. Un grosso barbone reduce da una rissa è entrato nell’asilo e si sta mangiando tutto il rinfresco della recita del natale. Stanno pensando così. Poi dal fondo della sala si sente una vocina “Quello è il mio papà, lasciatelo stare”. Orso mi corre incontro, si abbraccia alla mia gamba e comincia a dare calci in giro distribuiti tra le maestre e il bidello. Tutti si risollevano e ridono. Cerco di spiegare quel fatto che sono arrivato in moto e il freddo e nessuno mi ascolta davvero e già si sono dimenticati di me. Tutti tranne Ste che si avvicina, mi guarda e scoppia a ridere. A pasqua sono tornato all’asilo per la festa in giardino. I primi caldi mi hanno agevolato mentre me la giravo con la maglietta “Sono il papà di Orso”. Fosse stato in Trentino mi avrebbero sparato. Una vita sempre in pericolo.

Tango figurato del disdoro: Figura 4

le dieci figure di merda che ti hanno segnato nella vita


numero 4


Da solo a casa. Me ne vado al parco a far correre i cani, che sguazzano in quella putrida polenta di neve fango e sale e merda e resti umani che è il nostro suolo d’abitudine in questo inizio di glaciazione. Ormai l’asfalto o i cubetti di porfido del marciapiede sono un’ipotesi, una possibilità, una antica credenza popolare, che qui è un pezzo che si cammina in un indistinto pastone. Sotto casa mia una signora è scivolata in terra di muso e hanno chiamato l’ambulanza e dal naso le zampillava in sangue alla spina che s’è impastato al sale e al ghiaccio e sono ormai sei giorni che quella memoria di sgozzo si conserva all’ingiuria del tempo grazie al gelo e al sale in un equilibrio perfetto. L’emocromo della vecchia verrà trovato pari pari tra seimila anni, come un mammuth siberiano ma coi trigliceridi più alti. Il parco è a un passo da casa ma io ci vado col magico picàp e non per pigrizia ma per far sgranchire il mezzo, che altrimenti resta spiaggiato sotto casa in attesa dei nostri viaggi, delle nostre partenze in cui ci portiamo giusto il necessario e in quella nozione comprendiamo canoe, chitarre e amplificatori, biciclette, affettatrici, infradito e anfibi, cappelli in numero minimo di duecentosei e di tutte le fogge. Di solito ci portiamo dietro anche l’asciugacapelli che di suo non sarebbe niente ma se dico che è il mio personale la cosa acquista un’altra luce. Ma come al solito state divagando e mi portate fuori tema. Insomma eravamo rimasti che andavo al parco coi cani. Ce li porto non perché abbiano bisogno di muoversi, che è cosa nota che me li porto in giro in ogni dove, ma per fargli ritrovare i loro amici e anche qualche bel nemico che averci dei nemici è sempre un bel vivere. Infatti appena arrivati scoppia una rissa che a dire il vero non viene innescata dai miei. Un grosso cane tardo va ad annusare Jack che per completezza dell’informazione è un cagnetto nero di una decina di chili col pelo tutto arruffato e la tendenza a fare sempre come dice lui. Il cane grosso preso da raptus s’avventa su Jack che non ha paura di nulla mai e che usa una tecnica ormai raffinata nel tempo. Si chiude a palla, scatta a molla e si aggancia alla gola dell’avversario enorme senza più mollare. Stiamo parlando di una cosa impari, un botolino e un enorme pastore tedesco coglione. Nulla di sanguinario ma tanto strepito. Per cui Sciumi che è decisamente più grosso e che di solito si occupa delle cose sue senza tanti penseri, sentendo l’amico gridare parte, e Sciumi che con le persone è timido e schivo coi suoi simili problemi non se ne fa per nulla. Parte una zuffa a dieci cani, tutti i padroni urlano ma senza convinzione. Lo sappiamo tutti che non sta accadendo nulla di grave e si ride. Infatti dopo un po’ ognuno ritorna a annusare l’albero di competenza e Jack cerca disperatamente di trombarsi una cagnetta screziata. La padrona è una ragazza simpatica che mi sorride e dice “quasi quasi le faccio prendere la pillola e che si divertano”. Il chiosco è chiuso e non posso offrire il caffè ma giuro che ci ho pensato. Vabbè, stiamo lì un’ora, mi leggo il giornale e gioco con Lucio che è un enorme schnauzer, stessa razza del mio ma con cinquanta chili di più. La padrona mi racconta dell’allevamento dove hanno preso il loro schnauzerr gigante e io non mi soffermo su come uno schnauzer nano sia entrato un giorno d' inverno nel letto di mio figlio piccolissimo, decidendo che quella era casa sua e di conseguenza noi i suoi sudditi. Il mio cane ha un concetto preciso del potere. Più sei grosso e meno vali nella sua piramide feudale. Io sono il più grosso di casa. Risaliamo in macchina e siamo tutto uno schifo di neve e fango e chissà cosa. Entriamo in casa e Sciumi nella foga di bere rovescia la ciotola. Me ne vado in studio e mi metto a lavorare su un video che devo montare da un mese. Ogni giorno mi sveglio e dico “oggi devo montare quel video” e di conseguenza le sequenze giacciono in una cartella del computer in abbandono. Dopo un paio d’ore vado in cucina per farmi un panino, che è un modo lieve di raccontare come in queste circostanze mi regolo col frigo e con le cose varie, e inutili che contiene d’abitudine. Ed è allora, nel tragitto verso la cucina, che detto così sembra che abito a Versailles e invece son due passi, tre se sei stanco, mi rendo conto che abbiamo ridotto il pavimento una merda. Come uomo domestico io sono un disastro e non vi conviene pensare che ci pensi la femmina domestica, che noi si vive come ci piace ma non necessariamente come piace a voi. Sta di fatto che quando è troppo è troppo. Quando vivevo nella campagna senese un giorno ho pulito con buona lena tutti i marmi della casa, eravamo come sempre in affitto, con un anticalcare, riducendo i pavimenti a una sedimentazione di guano di gabbiani. Ora ho imparato la lezione e decido che ci vuole l’attrezzatura. Vado al supermercato solito e comincio a leggere le etichette, a soppesare spazzoloni e secchi e strofinacci. A casa ho già tutto ma decido di rinnovare l’attrezzatura di rigoverno. Compro un mocio enorme con il ricambio e un asta assurda, un secchio dedicato con rullo strizzastraccio e sgocciolatoio, cinque sei bottiglioni di qualcosa con la dicitura “non ingerire e tenere lontano dalla portata dei bambini”. Chiedo lumi alle signore che si fanno intenerire da questo omone casalingo e sono prodighe di consigli e sorrisi e mi rimbambiscono e mi caricano di prodotti e mi ritrovo anche un bombolotto di qualcosa per lucidare i mobili. Balbetto e queste mi continuano a seguire verso le casse e si sono aggiunte un paio di addette del supermarket che già mi conoscono e ridono e mi chiedono come mai. Arrivo alla cassa con passo dondolo che sembro le truppe cammellate alla conquista delle colonie. Non saprei dire esattamente qual è la dinamica ma sta di fatto che arrivato al corridoio della cassa mi intrigo con le attrezzature e i flaconi e le spugne e il secchio e cado rovinosamente a terra. Mi faccio un male cane alla spalla ma son troppo umiliato per lamentarmi e ripeto meccanicamente “non è niente, non è niente” mentre tutte le signore mi radunano le merci sparse e mi toccano le braccia e il collo e insomma mi toccano tutto, che qualcuna anche se non sono un pezzo di pregio coglie la palla al balzo per ripassare la materia. Pago e esco con le cassiere che ancora ridono e si raccomandano. Arrivo a casa e Ste è tornata. Quando mi vede e soprattutto quando vede il conto che m’ha asciugato il budget della settimana, vitto e alloggio e piccole spese compresi, lei che non si incazza mai e di solito ride stavolta non la prende benissimo. Allora le racconto la disavventura e dico che mi son fatto molto male a una spalla e a quel punto pare proprio che si stia incazzando e anche Jack va a ficcarsi sotto la credenza. Sorrido e le dico “Maddai, sto scherzando, figurati se davvero mi facevo una figura così al supermercato. Minchia ma davvero ci hai creduto. Ma lo vedi quanto sei scema”. Resta il fatto che ho comprato inconsulto un set per pulire lo stadio dopo il derby ma vabbè. Poi Ste mi dice che siamo a cena da altra gente e ci siamo presi l’impegno di fare la lasagna. Torniamo al supermercato e tutto subito non realizzo cosa sta per succedere. Appena entriamo le cassiere cominciano a trillare “Come stai? Ti fa ancora male la spalla? Ma che tenero, voleva pulire tutta la casa?”. Ste mi guarda e in quello sguardo c’è concentrata la portata distruttiva di un uragano. L’incazzatura dura fino al reparto frutta e verdura perché è lì che mi inginocchio, tra le patate e gli ananassi e le chiedo scusa con le mani giunte e il guanto di plastica trasparente ancora infilato. Per drammatizzare afferro una clementina e me la batto sulla testa con gesto pesantemente autopunitivo. La gente guarda, le cassiere ridono ma quelle ridono sempre, a volte anche quando io non ci sono. Lei non si trattiene, scoppia a ridere a sua volta e dice “Smetti di fare il cretino” che a dirlo a me investi le tue parole in bond ellenici. Ci sono uomini di casa e uomini di casino.

Tango figurato del disdoro. Figura 3

le dieci figure di merda che ti hanno segnato nella vita


numero 3


Siamo al campeggio. Tendina striminzita, mica l'igloo così in voga ora, che ci sono anche quelli che li lanci in aria in forma di pizzettoni plasticosi e sull'erba rugiadosa ricade una tenda tutta montata tre camere e cucina, riscaldamento autonomo e posto auto coperto. La nostra era ancora la cosiddetta "canadese", che vai a sapere se in Canada la chiamano così, ma che sostanzialmente consta di due paletti e un triangolo di telo a formare una cuccia instabile e poco accogliente. Di buono c'è che dormire in quel budello ti farà trovare preparato quando ti seppelliranno vivo per quei maledetti casi di morte apparente e passerai delle ore nella bara a fare i conti con l'ossigeno che viene meno. Eravamo arrivati a quel campeggio in riva al mare, parecchio a sud, senza nemmeno sapere come. Non ci interessava più di tanto. Ci spostavamo per la penisola come capitava e con mezzi di fortuna e quando un posto ci piaceva piantavamo la tenda. Non avevamo molto altro come attrezzatura da campeggio, neppure i sacchi a pelo ma era estate e si dormiva sotto le stelle in spiaggia spesso e ogni occasione minima dava il via a un tripudio inarrestabile dei sensi.
In quel campeggio c'era una numerosa famiglia che a pranzo si dedicava al cibo con mostruosa passione e ogni giorno era un combattimento all'ultima teglia. Poi i maschi adulti del branco prendevano le sdraio e si mettevano all'ombra dell'albero vicino alla nostra tenda. Noi, come ho anticipato, ci dedicavamo con quella passione che ha condizionato tutta la mia vita, impedendomi di diventare ricco e famoso perchè, troppo spesso vinto dal viluppo sfrenato delle lenzuola, non sono riuscito a cogliere le occasioni migliori a livello professionale e commerciale. Ma non ho nulla da rimpiangere e morirò felice. Sta di fatto che questi qui si piazzavano a ridosso del nostro nido d'amore e dopo un poco si alzavano sbuffando e dicendo cose tipo "stann affà semp chest" nel caso più blando. Le donne ridacchiavano ma i maschi questa cosa del tramestio carnale che giungeva dalla canadese nostra non lo reggevano proprio. Noi ne ridevamo. Vorrei che si apprezzasse lo sforzo che sto facendo per raccontare questo episodio senza diventare bassamente volgare. Non sono certo di arrivare in fondo in piena salute perchè lo sforzo è degno dei campioni di apnea.
Una mattina mi sveglio e vado al bar e compro mezzo litro di latte e i Ringo. Nel tentativo di imbastire una magica colazione d'amore sull'erba zellosa davanti alla tenda, la mia amica strappa il cartone del latte coi denti e ci rimette l'angolo di un incisivo. Nulla che pregiudichi la sua bellezza ma un incidente che genera un certo scompiglio accompagnato da invocazioni a santi che testimoniano della nostra buona fede. Alla fine la prendiamo a ridere e ce ne andiamo in spiaggia. Il pomeriggio, nella frescura degli alberi che agevola il rilassamento postprandiale, ci ritroviamo a rinnovare il patto di carne e amore che ci lega in quella torrida stagione canaglia (sono mica sicuro di poter continuare così) e lasciamo che la nostra passione corra tra le curve dei nostri corpi fino a rischiare un azzardo in testacoda (se non capite poi vi faccio i disegni). In quella golosa voluttà a un tratto provo una sensazione strana, qualcosa di simile a un'affettatrice Berkel intenta a ricavare fettine sottilissime da un pezzo di lardo di Colonnata. ZIIING. Restiamo sospesi nel gesto, una sorta di unduetrestella erotico. Poi lei dice "Cazzo" ed è effettivamente estremamente pertinente. Lo spigolo spezzato dell'incisivo, come affilatissima selce neolitica (sento che non reggo oltre con l'approccio scientifico divulgativo) ha reciso il frenulo con un taglio chirurgico e spietato. La zona, non ciedetemi di entrare nello specifico dei corpi cavernosi e affini, è fortemente irrorata e comunque io son laureato in materia umanistica e vorrei essere sollevato da ulteriore approfondimento, limitandomi a dire che nel giro di poco devo constatare che l'effetto è quello di una coltellata ben assestata all'addome. E parlo proprio dall'effetto filmico splatter in cui riesco a produrmi nella nostra bella intimità da campeggio. Esco dalla tenda e corro verso i bagni cercando di arrestare quella tremenda emorragia e già mi vedo morto dissanguato davanti alla roulotte dei panzoni che potranno così cogliere la loro bella rivincita. Raggiungo i bagni alla fine, che devo provare a metterlo sotto l'acqua fredda. Così mi continuo a ripetere. Corro con una mano ficcata nel costume che mi sono reinfilato al contrario. Corro come una gazzella ferita che va a morire da sola in un angolo della savanoa. Corro come il peggiore dei cretini al campeggio d'estate, balzando fuori da una canadese. Per inciso (mi pesa dire per inciso pensando al mio povero frenulo ma lo faccio per maggior chiarezza del pubblico da casa) nella repentina mossa verso i bagni tiro giù il paletto e lascio lei sotto le macerie della nostra magra attrezzatura da campeggio. Arrivo al lavabo e lo sapete come sono posizionati quegli affari lì nei campeggi. Lunghe teorie di sanitari per consentire bella comunanza ai campeggiatori che si lavano uno di fianco all'altro. Non me ne fotte niente, è nella mia natura, di quelli che possono arrivare. Il bagno è vuoto e io faccio partire l'acqua a palla e cerco di lenire la tragica ferita. Presto il lavandino diventa un set di un B movie splatter davvero agghiacciante. E poi entra lui. Non lo sento arrivare, son tutto preso a guardare i miei attrezzi d'amore con giustificata preoccupazione. E quello mi balza alle spalle e mi cinge con le braccia a cintura, come in una mossa di lotta e mi grida "Che cazzo fai... fermati... fermati...". Io ci metto quei secondi che ci metterebbe chiunque a decidere di mollare la presa dal coso e cercare di reagire. Ci metto quell' esitazione che ti prende quando pensi "ora lo lascio e cade a terra e addio vita". Però alla fine reagisco e non sono proprio un osso facile da rosicchiare e vado indietro contro il muro e di peso e lo scamazzo sulla parete e mi giro entrandogli con un gomito sul petto. Siamo faccia a faccia "Che cazzo vuoi" ringhio con una mano mia sulla sua gola e non smetto di pensare che sto gocciolando sui miei e sui suoi piedi. "Stai calmo..." dice lui che ha la faccia di uno a posto "Stai calmo..." continua a ripetere. "Mi sono fatto male" dico io "Cerco di fermare il sangue" "Cazzo... mi hai fatto prendere un colpo... Pensavo stessi facendo un qualche gesto folle". Sbarro gli occhi. Scoppio a ridere e quello ride con me dopo un po'. Pensava forse che mi stessi suicidando strangolandomi il prepuzio nel lavandino del campeggio. Gli chiedo scusa, mi risistemo alla meglio e la sera al bar del campeggio lo ritrovo con la sua ragazza e offro una birra. Non ci siamo mai davvero chiariti come era andata. Spero mi legga ora e abbia un quadro completo della situazione. Da allora ho perso significativamente ogni frenulo inibitore.