mercoledì 22 gennaio 2014

Di carne e d'acciaio

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 insomma, dovresti aver capito come funziona ma magari te lo spiego di nuovo che se sei qui a leggere mica sarai tutto in bolla di tuo. fai andare la canzone qui sotto e poi leggi. La cosa migliore resta ascoltare la canzone e lasciar perdere il testo. Poi non dire che non ti avevo avvertito.


 


Dal mondo son tornato sempre vivo, lo posso ben dire. Che sono tornato tutto intero però direi che è già una bella affermazione azzardata. Avrò avuto circa sette o otto anni. In quell’inverno la crisi petrolifera aveva picchiato giù duro sull’Italia ancora coperta dalla polvere gloriosa dei fasti del Miracolo economico ma quando sono nato io, giuraci, non era più aria di miracoli per nessuno. Resta il fatto che s’era inaugurata per gli italiani l’Austerity e la domenica c’era il fermo totale delle macchine e si poteva sfrecciare per i viali della città in assoluta libertà. La bicicletta non l’avevo ma spesso mio padre lavorava la domenica e a quel punto fu d’obbligo comprarne una. Andammo tutti insieme in un garage di via Caccia dove c’era un vecchio che accroccava alla meglio vecchie bici e le rivendeva. Una cosa un po’ losca ma costavano un bianco e un nero. Mio padre tornò a casa con una pesantissima bici bianca e azzurra da donna, col portapacchi che scattava come una trappola per topi e il campanello e il fanale con la dinamo funzionante. Marca Dei. La guardavo e mi sembrava sul serio un pezzo di pregio, la più bella di tutte le bici. Quando la domenica mio padre partiva per andare a lavoro in bici ci affacciavamo tutti dalla cucina e lo salutavamo felici. Lui un po’ meno. Poi ‘sta storia dell’austerity venne meno e la bici, che sospetto mio padre odiasse, restò nel garage. Non che fossimo usciti dalla crisi, che se escludi gli anni Ottanta in cui pensammo che la nostra economia fosse un fulmine di guerra, scambiando una bambola gonfiabile per una femmina vera, dentro la crisi ci sono cresciuto e m’avvio a farmi vecchio. Però a quel tempo di nascosto andavo in garage e la provavo la benedetta ossessione a due ruote e riuscivo a pedalare perché era da donna e non aveva il cambrone e quindi restavo in piedi sui pedali e a vederla da lontano poteva sembrare la bici del demonio che pedalava da sola perché io ero uno gnappetto di venti chili. Un giorno d’estate scendo in cortile e gli altri si stanno attrezzando per andare alle collinette con le bici. Mi scoppia il cuore che se c’è una cosa che voglio fare quel giorno è andare con gli altri alle collinette con la bici e quel posto lì non è nemmeno così vicino e quella che si prepara è un’avventura degna di quelle esplorazioni alla fabbrica dei fiammiferi che facevamo certe sere estive. Le collinette, il santo Graal di tutti i biciclanti bambini dell’epoca e del quartiere. Sono salito a casa con una scusa, ho preso le chiavi del garage e già ve lo immaginate che l’ho fatto. Addosso avevo quell’adrenalina maledetta di quando fai una cosa che non dovresti ma che hai una fottuta voglia di fare. Una maledizione che non mi ha più abbandonato. La salita del garage con quel ferro pesantissimo era un’impresa degna di certe tappe alpine del giro d’Italia e ho stretto i denti e ho pedalato alla maledetta che quegli altri erano in cima e mai sarei arrivato spingendola a mano. Una volta in strada mi sono fatto fottere dall’aria in faccia. Quando provi per la prima volta l’aria in faccia mentre corri su qualcosa a due ruote quell’ebbrezza lì ti possiede e ti fotte per tutta la vita. Una trappola che ti porti addosso per sempre come una maledizione e che vuoi riprovare ancora, roba che m’è capitata solo con l’aria in faccia e la topa. Eravamo un branco e mezzo e stavamo ancora aspettando gli altri e io non riuscivo a stare fermo e continuavo a andare su e giù per la strada e gli altri mi urlavano cose e ridevano e ridevamo tutti. Non l’ho sentita arrivare ma in quel momento ero fermo a bordo strada, parlavo con Valentino, il fratello scemo di un mio amico, uno grande più di noi, parecchio più grande, che se la girava con noi per sentirsi quello che comandava ma non ce lo filavamo di pezza. Comunque ero sul bordo della strada, dopo la curva, fermo con il piede sul marciapiede per giocarmi un vantaggio vitale di qualche centimetro in più utile per reggere il ferro di mio padre. E non l’ho sentita arrivare. Dice che ha frenato, dice che ha sbandato, dice che correva come nei film degli inseguimenti. Mi ricordo il sapore in bocca e la ruota che mi mangiava la gamba e mi trascinava nell’asfalto e continuava a portarmi via e io ero ingombrato da quell’unica angoscia della bici clandestina che forse me l’avevano distrutta e volevo alzarmi e andare a vedere e chi lo sente mio padre ma questa cazzo di macchina non si ferma e io sto sotto e mi trascina. S’è fermata alla fine e quella troia è scesa dalla 500 rossa e ha gridato qualcosa vedendomi sotto la cazzo di fottuta macchina sua e poi, non crederci se vuoi ma è andata così, è risalita in macchina ha fatto retromarcia sempre ripassandomi sulla gamba che era rimasta sotto la ruota, ed è scappata. Gli altri stavano zitti e vigliacco se volevo piangere ma mi sono morso il labbro e ancora era la bici che m’occupava i pensieri e mi sono alzato e me l’hanno portata e aveva solo il carter storto e mi guardavano e nessuno parlava. L’ho presa dalle mani di qualcuno e stavolta andare a piedi non era disonorevole e quelli continuavano a guardarmi e non dicevano nulla. Da piccolo io la sera e la notte, che già allora dormivo poche ore a notte, leggevo tantissimo e in quei giorni ero alle prese con le prime pagine de “il giro del mondo in ottanta giorni”. Camminavo e continuavo a ripetermi che un gentleman come Phileas Fogg non perde mai la calma. E certo non sente nemmeno il dolore e soprattutto non deve guardare e io infatti la gamba non la guardavo e meno male che altrimenti l’avrei capito perché quegli altri, nel nome dei calzoni corti che tutti portavamo, erano rimasti azzittiti dall’orrore. Camminavo verso il garage e la traccia di sangue c’è rimasta per parecchio su quella discesa. Ho aperto il garage e ho rimesso a posto il carter e tremavo e se dico che a piegarmi non mi faceva male sono un bugiardo. Mi fottevo dal dolore ma non dovevo guardare. Poi sono andato verso il palazzo e in ascensore le gocce di sangue che cadevano a terra erano a quel punto una certezza. A quel punto il vero problema era che non dovevo dirlo a casa. Così ho detto che ero caduto dal muro per andare a prendere le albicocche e mia madre m’ha lasciato nella mia stanza con la gamba squarciata alla maledetta ma io m’ero infilato dentro le coperte e non si capiva bene quanto ero di concia. La sera è arrivato mio padre e forse mia madre non era convinta e gli ha detto di darmi un’ occhiata. M’hanno caricato sulla macchina e m’hanno portato al primo posto sanitario disponibile secondo la nozione topografica balenga di mio padre, che era l’ospedale militare di via Pracchiuso, forse perché a sua volta quando da ragazzino si era aperto in due tuffandosi dagli scogli a Anzio lo avevano curato i militari americani. Sta di fatto che un cazzo di infermiere scazzato mi guarda e dice “ tocca disinfettare” e apre una bottiglia di tintura di jodio e me la versa sana sulla gamba dilaniata e sul braccio. Credo di aver fatto un salto carpiato dal dolore e credo di essermi spento per qualche secondo. Ma non parlai. Se mi conosci lo sai che è dura farmi dire quello che non voglio dire ed è perché mi sono allenato da piccolo. Poi le madri degli amici coglioni se la cantarono nei giorni successivi e a casa mi fecero un culo a capanna perché gli avevo fatto fare la figura dei cretini col quartiere che quelli erano gli anni che quando ti facevi male tornavi a casa e prendevi il resto, proprio così si diceva. Per almeno sei estati la mia gamba non ha voluto saperne di abbronzarsi e m’era rimasta un’isola di pelle bianca che col tempo è smorta e ora è una traccia quasi invisibile ma io a volte mentre me ne sto sdraiato al sole mi guardo la vecchia pelle mia e la intravedo e sorrido che non era nemmeno la prima volta che morivo e ho cominciato appena nato a far prove di quella forza lì per dirgli alla morte che sono un osso duro.