insomma, dovresti aver capito come funziona ma magari te lo spiego di nuovo che se sei qui a leggere mica sarai tutto in bolla di tuo. fai andare la canzone qui sotto e poi leggi. La cosa migliore resta ascoltare la canzone e lasciar perdere il testo. Poi non dire che non ti avevo avvertito.
Dal mondo son tornato
sempre vivo, lo posso ben dire. Che sono tornato tutto intero però direi che è
già una bella affermazione azzardata. Avrò avuto circa sette o otto anni. In
quell’inverno la crisi petrolifera aveva picchiato giù duro sull’Italia ancora
coperta dalla polvere gloriosa dei fasti del Miracolo economico ma quando sono
nato io, giuraci, non era più aria di miracoli per nessuno. Resta il fatto che
s’era inaugurata per gli italiani l’Austerity e la domenica c’era il fermo
totale delle macchine e si poteva sfrecciare per i viali della città in assoluta
libertà. La bicicletta non l’avevo ma spesso mio padre lavorava la domenica e a
quel punto fu d’obbligo comprarne una. Andammo tutti insieme in un garage di
via Caccia dove c’era un vecchio che accroccava alla meglio vecchie bici e le
rivendeva. Una cosa un po’ losca ma costavano un bianco e un nero. Mio padre
tornò a casa con una pesantissima bici bianca e azzurra da donna, col
portapacchi che scattava come una trappola per topi e il campanello e il fanale
con la dinamo funzionante. Marca Dei. La guardavo e mi sembrava sul serio un
pezzo di pregio, la più bella di tutte le bici. Quando la domenica mio padre
partiva per andare a lavoro in bici ci affacciavamo tutti dalla cucina e lo
salutavamo felici. Lui un po’ meno. Poi ‘sta storia dell’austerity venne meno e
la bici, che sospetto mio padre odiasse, restò nel garage. Non che fossimo
usciti dalla crisi, che se escludi gli anni Ottanta in cui pensammo che la
nostra economia fosse un fulmine di guerra, scambiando una bambola gonfiabile
per una femmina vera, dentro la crisi ci sono cresciuto e m’avvio a farmi
vecchio. Però a quel tempo di nascosto andavo in garage e la provavo la
benedetta ossessione a due ruote e riuscivo a pedalare perché era da donna e
non aveva il cambrone e quindi restavo in piedi sui pedali e a vederla da
lontano poteva sembrare la bici del demonio che pedalava da sola perché io ero
uno gnappetto di venti chili. Un giorno d’estate scendo in cortile e gli altri
si stanno attrezzando per andare alle collinette con le bici. Mi scoppia il
cuore che se c’è una cosa che voglio fare quel giorno è andare con gli altri
alle collinette con la bici e quel posto lì non è nemmeno così vicino e quella
che si prepara è un’avventura degna di quelle esplorazioni alla fabbrica dei
fiammiferi che facevamo certe sere estive. Le collinette, il santo Graal di
tutti i biciclanti bambini dell’epoca e del quartiere. Sono salito a casa con
una scusa, ho preso le chiavi del garage e già ve lo immaginate che l’ho fatto.
Addosso avevo quell’adrenalina maledetta di quando fai una cosa che non
dovresti ma che hai una fottuta voglia di fare. Una maledizione che non mi ha
più abbandonato. La salita del garage con quel ferro pesantissimo era un’impresa
degna di certe tappe alpine del giro d’Italia e ho stretto i denti e ho
pedalato alla maledetta che quegli altri erano in cima e mai sarei arrivato
spingendola a mano. Una volta in strada mi sono fatto fottere dall’aria in
faccia. Quando provi per la prima volta l’aria in faccia mentre corri su
qualcosa a due ruote quell’ebbrezza lì ti possiede e ti fotte per tutta la
vita. Una trappola che ti porti addosso per sempre come una maledizione e che
vuoi riprovare ancora, roba che m’è capitata solo con l’aria in faccia e la
topa. Eravamo un branco e mezzo e stavamo ancora aspettando gli altri e io non
riuscivo a stare fermo e continuavo a andare su e giù per la strada e gli altri
mi urlavano cose e ridevano e ridevamo tutti. Non l’ho sentita arrivare ma in
quel momento ero fermo a bordo strada, parlavo con Valentino, il fratello scemo
di un mio amico, uno grande più di noi, parecchio più grande, che se la girava
con noi per sentirsi quello che comandava ma non ce lo filavamo di pezza.
Comunque ero sul bordo della strada, dopo la curva, fermo con il piede sul
marciapiede per giocarmi un vantaggio vitale di qualche centimetro in più utile
per reggere il ferro di mio padre. E non l’ho sentita arrivare. Dice che ha
frenato, dice che ha sbandato, dice che correva come nei film degli inseguimenti.
Mi ricordo il sapore in bocca e la ruota che mi mangiava la gamba e mi
trascinava nell’asfalto e continuava a portarmi via e io ero ingombrato da
quell’unica angoscia della bici clandestina che forse me l’avevano distrutta e
volevo alzarmi e andare a vedere e chi lo sente mio padre ma questa cazzo di
macchina non si ferma e io sto sotto e mi trascina. S’è fermata alla fine e
quella troia è scesa dalla 500 rossa e ha gridato qualcosa vedendomi sotto la
cazzo di fottuta macchina sua e poi, non crederci se vuoi ma è andata così, è
risalita in macchina ha fatto retromarcia sempre ripassandomi sulla gamba che
era rimasta sotto la ruota, ed è scappata. Gli altri stavano zitti e vigliacco
se volevo piangere ma mi sono morso il labbro e ancora era la bici che m’occupava
i pensieri e mi sono alzato e me l’hanno portata e aveva solo il carter storto
e mi guardavano e nessuno parlava. L’ho presa dalle mani di qualcuno e stavolta
andare a piedi non era disonorevole e quelli continuavano a guardarmi e non
dicevano nulla. Da piccolo io la sera e la notte, che già allora dormivo poche
ore a notte, leggevo tantissimo e in quei giorni ero alle prese con le prime
pagine de “il giro del mondo in ottanta giorni”. Camminavo e continuavo a
ripetermi che un gentleman come Phileas Fogg non perde mai la calma. E certo
non sente nemmeno il dolore e soprattutto non deve guardare e io infatti la
gamba non la guardavo e meno male che altrimenti l’avrei capito perché quegli
altri, nel nome dei calzoni corti che tutti portavamo, erano rimasti azzittiti
dall’orrore. Camminavo verso il garage e la traccia di sangue c’è rimasta per
parecchio su quella discesa. Ho aperto il garage e ho rimesso a posto il carter
e tremavo e se dico che a piegarmi non mi faceva male sono un bugiardo. Mi
fottevo dal dolore ma non dovevo guardare. Poi sono andato verso il palazzo e
in ascensore le gocce di sangue che cadevano a terra erano a quel punto una
certezza. A quel punto il vero problema era che non dovevo dirlo a casa. Così
ho detto che ero caduto dal muro per andare a prendere le albicocche e mia
madre m’ha lasciato nella mia stanza con la gamba squarciata alla maledetta ma
io m’ero infilato dentro le coperte e non si capiva bene quanto ero di concia.
La sera è arrivato mio padre e forse mia madre non era convinta e gli ha detto
di darmi un’ occhiata. M’hanno caricato sulla macchina e m’hanno portato al
primo posto sanitario disponibile secondo la nozione topografica balenga di mio
padre, che era l’ospedale militare di via Pracchiuso, forse perché a sua volta
quando da ragazzino si era aperto in due tuffandosi dagli scogli a Anzio lo
avevano curato i militari americani. Sta di fatto che un cazzo di infermiere
scazzato mi guarda e dice “ tocca disinfettare” e apre una bottiglia di tintura
di jodio e me la versa sana sulla gamba dilaniata e sul braccio. Credo di aver
fatto un salto carpiato dal dolore e credo di essermi spento per qualche
secondo. Ma non parlai. Se mi conosci lo sai che è dura farmi dire quello che
non voglio dire ed è perché mi sono allenato da piccolo. Poi le madri degli
amici coglioni se la cantarono nei giorni successivi e a casa mi fecero un culo
a capanna perché gli avevo fatto fare la figura dei cretini col quartiere che
quelli erano gli anni che quando ti facevi male tornavi a casa e prendevi il
resto, proprio così si diceva. Per almeno sei estati la mia gamba non ha voluto
saperne di abbronzarsi e m’era rimasta un’isola di pelle bianca che col tempo è
smorta e ora è una traccia quasi invisibile ma io a volte mentre me ne sto
sdraiato al sole mi guardo la vecchia pelle mia e la intravedo e sorrido che
non era nemmeno la prima volta che morivo e ho cominciato appena nato a far
prove di quella forza lì per dirgli alla morte che sono un osso duro.
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