eddai. come le altre volte. fai partire la canzone qui sotto e poi inizia a leggere.
Ho visto cose che voi umani non riuscireste a immaginare, perché sono il vostro quotidiano, i vostri
passi che credete sempre diversi e invece premono, alla stessa ora e
con la stessa millimetrica forza, le solite piastrelle e i soliti
vialetti e le solite scale. Ho visto cose che farebbero tremare i
polsi ai più arditi ma che solo la distrazione cela allo sguardo. Ho
visto cose che pochi possono guardare con i miei stessi occhi
strabici, che mi consentono d’essere attento a due scene, in due
direzioni contemporaneamente. Sempre con grande danno per
l’esperienza e per il cervello.
Corso
Vittorio al sole, nell’ora di punta dell’uscita dagli uffici e
dalla noia. Per correre come furetti furenti verso quell’altra noia
catodica e i piatti caldi come questa estate che porta sole e gente
ai murazzi la sera. Sono le sei ma siamo nelle giornate più lunghe
dell’anno o forse la mia memoria infallibile vacilla e sono solo le
quattro ed è maggio o luglio o settembre nero. Arrivo all’incrocio
col lembo ultimo del Valentino e poi davanti ho di nuovo il Po a
marcia invertita che è più un rito di passaggio che un luogo in
questa capitale sabauda cloppetettante sui tacchetti amplificati ad
arte. Il
Po passa schiumando tra i piloni di cemento, sempre nella direzione
opposta alla mia sensazione. Da piccolo passavo i ponti e vedevo la
distesa d’acqua, compatta e a specchio, senza indizi che svelassero
il senso della corrente. O forse c’erano e non li sapevo decifrare.
Adesso attraverso con la moto, attento come posso al traffico che
marca a uomo, a cofano, a paraurti. Ho solo un attimo per guardare
l’acqua e ogni volta mi meraviglio. Il Po a piazza Vittorio marcia
contromano da un pezzo e la gente non se ne accorge. Mille anni prima
di ora, non ricordo in quale carne io mi celassi ma c’ero, venivo
in riva a quest’acqua che correva come dio consiglia, da piazza
Vittorio a corso Vittorio, che allora si chiamavano con altro nome e
migliore fantasia.
Ma stavolta è successo qualcosa. Si è sfasciato un tubo, una condotta, un qualcosa che pompa
acqua nelle vene della metropoli e lo slargo è riempito da mezzo
metro d’acqua furibonda. Un paralitico se ne rimane in mezzo al
gorgo con le ruote affondate nel pantano e tutti sono sgomenti e quei
vigili, chili di cerebro rubati dal barattolo dell’AB qualcosa,
dirottano il traffico in un vialetto del parco che è strada chiusa e
non sembra che si siano accorti del tipo che stringe le dita sulle
ruote della carrozzella, i denti contro i denti e cerca di scampare
al diluvio che tutti ci punisce ma lui lo fotte proprio. Dio è
giusto. Giusto un po’. Sono in rara tenuta giacca e cravatta,
capita con la cadenza delle eclissi totali o quando cambio lavoro. Per la santa precisione in questi ultii quindici anni m'è capitato questa volta qui e un'altra volta che con il Boia ci siamo ficcati in una storia che va bene da raccontare la sera al bar tra amici ma che rendere pubblica è azzardato. Insomma sospetto che a me la giacca e la cravatta non portino grande fortuna anche se quella volta con il Boia ci hanno cavato fuori dai casini.
Ma torniamo alla porzione di città allagata. Me ne rimango seduto sulla mia Guzzi, che in questa sede eviterò di
celebrare con enfasi ma che è evidentemente un parto della volontà
divina cui l’uomo ha aggiunto la vernice e i filetti dorati tirati
a mano. Il bicilindrico, badate bene che mi sono risparmiato di dire il mitico
che di questa parola c’è manifesto e prolungato abuso, borbotta e
tossicchia davanti a quell’acqua che sembra un modellino in scala
delle tragedie di Po, delle acque invasate che invadono. Qui poi c’è
pure puzza di merda. Mi affianca uno con un’Honda customizzata che
mi guarda. Soprattutto la cravatta guarda questo qui e piega di
rinforzo la faccia a ghigno. Ha un casco plasticoso e mimetico. Un pupazzo come ne girano tanti nel percorso garage bar. Quando viaggi per il mondo questi non li incontri mai. Memore dei guadi con Jeio, roba da dogma
assoluto e fede incrollabile nella tecnica meccanica mandelliana, non
degno di sguardo e dico vado. La prima strappa, anzi è la frizione
che strappa mentre la prima entra con quel vezzo di certe volte di
farsi sentire da tutto l’isolato. E muovo tutto quel peso tronfio,
quell’eccesso di trippa ferrosa e affondo con le ruote e non mollo
il gas per non succhiare acqua con gli scarichi e sfioro il
paralitico che mi guarda speranzoso e lo supero che ho la moto mica
il pattìno del bagnino e raggiungo l’asciutto e vado oltre. Nello
specchietto, per tutto il tempo, mi è rimasto quello con l’Honda,
a seguirmi fiducioso. Poi scivola e cade e è solo un'assenza nello specchietto per quello che mi riguarda. La città, questa città, è una giungla e ci
sono pure le sabbie mobili.
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