Primo è morto. Era l’amico di mio
padre, un cane randagio e bastardo che s’aggirava col branco tra i resti di
Anzio nei giorni successivi allo sbarco annusando tra i mucchi di materiali
abbandonati dappertutto dagli alleati. Primo è morto da una settimana e è
andato a raggiungere nella terra il suo braccio masticato dalla fabbrica venti
anni prima. Primo era il fedelissimo compagno gregario di mio padre, lo
accompagnava in quei giorni selvatici in cui la guerra era appena finita e le
camice delle ragazze si facevano con i paracadute e le barche fino agli anni
settanta hanno continuato a andare coi motori dei carrarmati e le cartelle per
portare i libri a scuola erano cassette metalliche delle munizioni. Mio padre
si ricorda che la mattina, prima sentivi il rumore degli scarponi chiodati nei
corridoi, che se scivolavi coi chiodi sul cemento frizzavi di scintille e era
già un bel ridere, e poi sentivi il rumore di quando entrava l’insegnante e si
tiravano fuori i libri e tutti insieme cadevano a terra i coperti metallici
pesanti delle cassette portamunizioni. Primo è morto anche se a forza di
zabaioni e marsala s’era fatto uno scudo contro la fame, recuperando su quei
giorni maledetti dei tedeschi e delle bombe. Ogni volta che artigliavano del
metallo di pregio, che quando la draga cacciò nel mucchio un’elica di ottone, per
portarsela via quasi ci restarono secchi sotto il mucchio successivo, lo
vendevano e coi soldi recuperati si compravano la roba da mangiare altro che
itunes store. Mio padre si faceva le ciriole col pecorino e Primo le uova
sbattute col marsala. Cascasse dio sempre uova sbattute col marsala. Una volta
pescarono un polpo enorme e a tirarlo fuori, parlo di ragazzetti di otto anni e
fischia, quello non ci voleva stare e s’abbrancò a mio padre e gli infilò un
tentacolo in bocca facendoglielo uscire dal naso e Primo lo inchiodò con un
morso in testa. Al polpo, mica a mio padre. Primo è morto e a scuola era un
disastro, lui figlio di friulana e portato in quel mondo di mare e pelle
seccata a secoli di sole. Mio padre che pure veniva da qualcosa di meno della
povertà ma a scuola era un prodigio e leggeva quintali di libri chiuso sotto
coperta nel rimoschiatore o sotto le cabine dei primi turisti ci aveva pure
provato ad aiutarlo ma lì le strade si dividevano e c’era già il sospetto
allora.
Primo è morto ora ma c’era andato
vicino già parecchio tempo prima. Il padre era pescatore, tutti erano pescatori
lì, pure mio nonno e i miei zii. Una notte mio padre e Primo decidono di
approfittare della passata dei calamari e di stendere i palamiti. Peccato che
barca e palamiti e tutto erano del padre di Primo che quella notte doveva
uscire come al solito. “Ma che te frega” come se li vedessi “pigliamo il vuzzo
di tuo padre al tramonto e in due ore siamo già di ritorno al porto”. Il vuzzo
mica era a motore, c’era da spingere sui remi e ficcati nel buio maledetto
della notte in mare a un certo punto sentono gridare “Primooo, viè qua. Nun te
faccio gnente, te spacco solo la testa”. Su un’altra barca c’era il padre di Primo
che li cercava. Furibondo. Avessero pescato i calamari tanto quanto ma le
cassette stavano lì mezze vuote. Hai voglia a remare, quello era grosso e a un
certo punto li raggiunge. Nel casino s’erano avvicinati pure quelli delle
lampare e gli altri vuzzi usciti per i calamari. A portata di remo a Primo gli
arriva una legnata in testa da farlo secco. Quelli delle altre barche
trascinano via il furibondo e dicono a mio padre, che Primo poteva anche essere
morto steso lì sul fondo della barca, di andarsene svelti. Mio padre rema a
farsi scoppiare le braccia, rema con l’abitudine di quei giorni lì che l’estate
quelli di Roma affittavano barca e ragazzino e si facevano portare sui fondali
bassi per pescare colla lampara e l’arpione e prendevano solo le razze che son
buoni tutti a prendere un pesce immobile sul fondo e poi a mio padre, che li bestemmiava in silenzio, toccava pure togliere la preda dalla fiocina prendendosi
le scosse che quei pesci regalano per maledirti. Le luci di Anzio erano lontane
e buio tutto intorno e il rumore dell’acqua e Primo morto sul fondo. A un certo
punto Primo a fil di voce “Oddio m’ha ammazzato. Peppì, m’ha ammazzato, me esce
tutto sangue dar naso. Peppì sto a morì”. Mio padre smette di remare ma quel
cazzo di buio è maledetto. Gli tocca colla mano la faccia e l’altro è tutto
impiastrato e sta morendo sul serio. Arrivati verso il porto, nei secondi
cadenzati di luce che regala il faro mio padre riguarda l’amico e vede che è
tutto sporco di fraffo, di moccio, di come cazzo lo chiamate voi. La remata
l’aveva preso di striscio e non gli aveva fatto nemmeno il bozzo e Primo se
n’era rimasto a credere di morire per tutto il ritorno, sdraiato sul fondo. Una
volta a terra è toccato a mio padre chiudere il conto a calci in culo.
Primo un giorno che ero piccolo
me lo ricordo che è venuto a trovare mio padre che stavamo in strada alla Casba
di Anzio, che lì vivevano i nonni miei e ha messo in fila un numero impossibile
di figlie femmine e ce le ha presentate in ordine di altezza una a una. Siamo
andati tutti a prendere il gelato al bar da Ringo che acveva appesi al muro un
lazo e un cappello come nei film. Erano passati gli anni, mio padre era partito
per il mondo che nemmeno era uomo e era tornato mille anni dopo con una moglie
e figli. In questi tempi si sono telefonati spesso. Quando telefonava Primo mio
padre, che per principio al telefono non parla mai, s’attaccava alla cornetta e
era uno spettacolo sentirli recuperare le storie loro di topi giganti e scarpe
ricavate dallo stivale di un tedesco che l’avevano trovato ancora con la gamba
dentro.
Primo è morto e mio padre m’ha
detto solo “i colpi cadono sempre più vicini”.