martedì 24 aprile 2012

è arrivato Primo




Primo è morto. Era l’amico di mio padre, un cane randagio e bastardo che s’aggirava col branco tra i resti di Anzio nei giorni successivi allo sbarco annusando tra i mucchi di materiali abbandonati dappertutto dagli alleati. Primo è morto da una settimana e è andato a raggiungere nella terra il suo braccio masticato dalla fabbrica venti anni prima. Primo era il fedelissimo compagno gregario di mio padre, lo accompagnava in quei giorni selvatici in cui la guerra era appena finita e le camice delle ragazze si facevano con i paracadute e le barche fino agli anni settanta hanno continuato a andare coi motori dei carrarmati e le cartelle per portare i libri a scuola erano cassette metalliche delle munizioni. Mio padre si ricorda che la mattina, prima sentivi il rumore degli scarponi chiodati nei corridoi, che se scivolavi coi chiodi sul cemento frizzavi di scintille e era già un bel ridere, e poi sentivi il rumore di quando entrava l’insegnante e si tiravano fuori i libri e tutti insieme cadevano a terra i coperti metallici pesanti delle cassette portamunizioni. Primo è morto anche se a forza di zabaioni e marsala s’era fatto uno scudo contro la fame, recuperando su quei giorni maledetti dei tedeschi e delle bombe. Ogni volta che artigliavano del metallo di pregio, che quando la draga cacciò nel mucchio un’elica di ottone, per portarsela via quasi ci restarono secchi sotto il mucchio successivo, lo vendevano e coi soldi recuperati si compravano la roba da mangiare altro che itunes store. Mio padre si faceva le ciriole col pecorino e Primo le uova sbattute col marsala. Cascasse dio sempre uova sbattute col marsala. Una volta pescarono un polpo enorme e a tirarlo fuori, parlo di ragazzetti di otto anni e fischia, quello non ci voleva stare e s’abbrancò a mio padre e gli infilò un tentacolo in bocca facendoglielo uscire dal naso e Primo lo inchiodò con un morso in testa. Al polpo, mica a mio padre. Primo è morto e a scuola era un disastro, lui figlio di friulana e portato in quel mondo di mare e pelle seccata a secoli di sole. Mio padre che pure veniva da qualcosa di meno della povertà ma a scuola era un prodigio e leggeva quintali di libri chiuso sotto coperta nel rimoschiatore o sotto le cabine dei primi turisti ci aveva pure provato ad aiutarlo ma lì le strade si dividevano e c’era già il sospetto allora.
Primo è morto ora ma c’era andato vicino già parecchio tempo prima. Il padre era pescatore, tutti erano pescatori lì, pure mio nonno e i miei zii. Una notte mio padre e Primo decidono di approfittare della passata dei calamari e di stendere i palamiti. Peccato che barca e palamiti e tutto erano del padre di Primo che quella notte doveva uscire come al solito. “Ma che te frega” come se li vedessi “pigliamo il vuzzo di tuo padre al tramonto e in due ore siamo già di ritorno al porto”. Il vuzzo mica era a motore, c’era da spingere sui remi e ficcati nel buio maledetto della notte in mare a un certo punto sentono gridare “Primooo, viè qua. Nun te faccio gnente, te spacco solo la testa”. Su un’altra barca c’era il padre di Primo che li cercava. Furibondo. Avessero pescato i calamari tanto quanto ma le cassette stavano lì mezze vuote. Hai voglia a remare, quello era grosso e a un certo punto li raggiunge. Nel casino s’erano avvicinati pure quelli delle lampare e gli altri vuzzi usciti per i calamari. A portata di remo a Primo gli arriva una legnata in testa da farlo secco. Quelli delle altre barche trascinano via il furibondo e dicono a mio padre, che Primo poteva anche essere morto steso lì sul fondo della barca, di andarsene svelti. Mio padre rema a farsi scoppiare le braccia, rema con l’abitudine di quei giorni lì che l’estate quelli di Roma affittavano barca e ragazzino e si facevano portare sui fondali bassi per pescare colla lampara e l’arpione e prendevano solo le razze che son buoni tutti a prendere un pesce immobile sul fondo e poi a mio padre, che li bestemmiava in silenzio, toccava pure togliere la preda dalla fiocina prendendosi le scosse che quei pesci regalano per maledirti. Le luci di Anzio erano lontane e buio tutto intorno e il rumore dell’acqua e Primo morto sul fondo. A un certo punto Primo a fil di voce “Oddio m’ha ammazzato. Peppì, m’ha ammazzato, me esce tutto sangue dar naso. Peppì sto a morì”. Mio padre smette di remare ma quel cazzo di buio è maledetto. Gli tocca colla mano la faccia e l’altro è tutto impiastrato e sta morendo sul serio. Arrivati verso il porto, nei secondi cadenzati di luce che regala il faro mio padre riguarda l’amico e vede che è tutto sporco di fraffo, di moccio, di come cazzo lo chiamate voi. La remata l’aveva preso di striscio e non gli aveva fatto nemmeno il bozzo e Primo se n’era rimasto a credere di morire per tutto il ritorno, sdraiato sul fondo. Una volta a terra è toccato a mio padre chiudere il conto a calci in culo.

Primo un giorno che ero piccolo me lo ricordo che è venuto a trovare mio padre che stavamo in strada alla Casba di Anzio, che lì vivevano i nonni miei e ha messo in fila un numero impossibile di figlie femmine e ce le ha presentate in ordine di altezza una a una. Siamo andati tutti a prendere il gelato al bar da Ringo che acveva appesi al muro un lazo e un cappello come nei film. Erano passati gli anni, mio padre era partito per il mondo che nemmeno era uomo e era tornato mille anni dopo con una moglie e figli. In questi tempi si sono telefonati spesso. Quando telefonava Primo mio padre, che per principio al telefono non parla mai, s’attaccava alla cornetta e era uno spettacolo sentirli recuperare le storie loro di topi giganti e scarpe ricavate dallo stivale di un tedesco che l’avevano trovato ancora con la gamba dentro.
Primo è morto e mio padre m’ha detto solo “i colpi cadono sempre più vicini”.

martedì 17 aprile 2012

contando i mesi e i cani




Blu è un cane, dire era mi risulta a oggi difficile anche se non sono uno smancerioso. Blu è stato il principe di tutti i cani. Un'appendice pelosa del mio sentire. Della mia anima cisposa. M'ha seguito più della mia ombra. Ha visto tutte le mie giornate povere e affamate. Ha dormito sempre sotto il mio letto. Quando c'era un letto in cui dormire. Se il freddo lo giustificava davvero saltava tra le coperte e si metteva a ciambella. Blu era uno tostissimo. Se gli tiravi la palla si spostava quel tanto e ti piantava gli occhi negli occhi. E ti sentivi uno scemo. Se lo accarezzavi ti obliterava la mano col suo dente giallo. Quello dell'avvertimento. Se gli rompevi il cazzo ti piantava nella carne il suo dente bianco. Quello del conto al tavolo. Blu non era solo un duro, era un pezzo di merda. Addosso si portava un mucchio di segni e una narice squarciata come Jack Nicholson in Chinatown. L'ho trovato in un box del canile e tutti che gli giravano alla larga. Cimurro e tre giorni di vita. Per curarlo mi sono asciugato tutti i soldi messi via lavorando in nero per i sindacati. Di salire nella  macchina nemmeno a pensarci, che mordeva a sfiorarlo. Ho passato le chiavi della 127 a Ste e mi sono sfidato a tenere il passo per la decina di chilometri che passava dal canificio a casa. Io e lui. Giusto per saggiarci pasta e fibra. A me non mi ha mai morso. Ha occupato la facoltà, ha dormito sei anni sotto il mixer mentre lavoravo alla radio, ha viaggiato per tutta la vita tra bagagli, macchine fotografiche, cavalletti e lampade da un miliardo di watt. Odiava i pulotti e quelli che mi guardavano storto. Per questo i primi. S'era preso carico di proteggere Ste anche se non glielo chiedeva nessuno. S'era fatto una ragione di certi prolungati sobbalzi del letto e rimaneva sotto paziente. Due volte il letto s'è sfondato e per poco ci lascia il collare. Ricambiavo facendo il palo quando ai giardini trovava una struffa che gli piaceva. Io ero quello che dava a parlare al padrone.
Col tempo era diventato la celebrazione di se medesimo. Stimato da bikers, baristi e suonatori. Riusciva a dormire appoggiato alla cassa dello stereo a palla. Negli ultimi mesi era parecchio sordo e pure io sono messo maluccio. I rischi di certi stili di vita.
Un giorno è arrivato il camion. Ha caricato tutti i mobili e i libri e i dischi e i passi di tre anni tra quelle pareti. Blu quella notte è rimasto nella casa vuota. La mattina dopo tagliavamo il nastro alla nostra vita torinese. Io ero già a destinazione. Babà, l'altra metà della mia vita da cani, aveva accompagnato Ste a dormire da Alessia. In quel buio lì Blu è morto. Andato senza saluto per non doversi commuovere almeno quella volta. Era partito da lì quindici anni prima e forse non aveva voglia di tener duro fino al prossimo ritorno.
Ho pianto, dio bono se ho pianto. La sera ho comprato un kebab e l'ho lanciato lontano. Dopo averne mangiato mezzo.

Così comincia la mia storia torinese ufficiale, quella fatta di una casa con la cassetta della posta col nome mio e un garage per tenere la moto al caldo e qualcuno che mi apre la porta, che io le chiavi non le ho mai.


 

venerdì 13 aprile 2012

NEL NOME DEL PADRE



Il dieci luglio del duemila nasce Orso, che è mio figlio, il mio primo figlio. A dire il vero è anche il figlio di Ste. Ci hanno detto di trascinare la panza fino a Moncalieri che è un’isola felice e fanno il parto naturale. L’androne dell’ospedale ti lascia perplesso, l’ascensore ti getta nello sconforto, fai un moviolone col cervello cercando di ricostruire perché sei finito lì dentro. Poi scopri che il vantaggio è che lì i nanetti nascono e non sono i polli di batteria della metropoli. Ognuno si ritaglia un suo rispettabile spazio e il piccolo Orso se lo ritaglia grosso, che decide di esordire a quota quattro chili e otto. Davanti alla vetrata sentirò dire guarda quello è grosso come un maiale e rimarrò indeciso se offendermi o essere fiero del mio coda a cavaturacciolo.
A Ste le acque si rompono alle quattro del mattino, l’ora giusta per una rottura. Cerco di fare quello calmo e mentre lei prepara le sue cose metto il guinzaglio al cane e lo porto a pisciare fuori. Gesto privo di qualunque utilità visto che il cane è uscito un paio d' ore prima e non è affatto contento di affrontare l’alba. Arriviamo in ospedale che non c’è nessuno, passando per una strada completamente diversa da quella che mi sono allenato a percorrere in questi giorni. Ovviamente pensiamo di avere priorità su tutti, corsie preferenziali giustificate dal fatto che secondo noi non si tratta di una cosa normale ma piuttosto di un’evento che merita dovuta attenzione. Al bambinificio non fanno una piega e troppi ne vedremo arrivare nei giorni a seguire, tutti con la faccia da centro dell’universo. Che poi a non prenderla di fretta hanno pure ragione. Ste rimane tre giorni lì, a farsi procurare le contrazioni inutilmente e a monitorare, con me vicino che imposto la faccia dei padri delle pubblicità ma su di me funziona poco. Faccio su e giù con la moto e un pomeriggio, sono appena venuto via, mi telefonano per dirmi che Ste sta per entrare in sala operatoria. Cesareo. La moto vola come non le era capitato mai in città, brucio i semafori meditando di costituirmi ai carabinieri a fine corsa. Arrivo in bomba nel piazzale dell’ospedale, freno a spezzare la leva e il pedale. Le forcelle affondano, singhiozzano. Fermo. Cavalletto laterale e scendo dalla moto con un gesto atletico di cui non avrei mai sospettato. Il tempo di vedere il cellulare volare sull’asfalto, direttamente dalla tasca del mio giubbotto frusto e la batteria del medesimo passare la grata di un tombino e precipitare nella fogna. Il cellulare è di Ste. Raccolgo i resti della misera tecnologia che ci siamo potuti permettere e vado oltre. Ho ben altro a cui pensare. Vedo Ste che viene portata dentro, apro il varco tra i parenti in visita e riesco a darle un bacio e a dirle che ci sono. Sul cellulare sorvolo. Ci sono solo io, che a noi emigranti ci è data la fortuna di risparmiarci i parenti causa distanza. In questo caso poi Ste è stata categorica e li ha fatti rimanere a casa loro. A me m’è rimasto il mestiere mio di cane da guardia. Come nei cartoni di Silvestro. Mi figuro che per aprire una pancia e tirarci fuori un bambino ci voglia il suo tempo e invece dopo poco esce l’infermiera e dice dov’è il papà di Orso e che cazzo ne so penso io e me ne rimango contro il muro. Passano i minuti e la tipa torna fuori e ripete alla folla, siamo sempre in orario di visita, dov’è il succitato padre e allora ho un dubbio e mi avvicino. Sorridono e mi fanno entrare in una stanza piccola. Ste, mi dicono, è sotto anestesia e se non mi fa impressione loro il pupo lo passerebbero a me per dargli tempo di capire in che razza di guaio si è andato a cacciare. Ma certo, sorrido io, e dentro mi muoio di paura. E’ bello grosso, dicono, pensi che pesa quattro chili e otto. Sarà abbastanza penso io che ho come parametro le mozzarelle aversane, le trote che pescavo da piccolo e la bicicletta di Pantani. La stanza è buia. Mi piazzano il vermolone tra le braccia e mi mollano lì senza dirmi niente. E se caga, se ha fame, se gli spunta improvvisamente un dente, la dentizione dice che è un momento critico. Ma si fa così, nessun sostegno scientifico a questa mia paternità zoppicante. Forse dovrei telefonare a qualcuno ma il cellulare lo stanno usando le pantegane. Me ne rimango lì e lui arriccia il naso e sbadiglia e non piange. Minchia, non piange. Nei film i bambini appena nati fanno un casino da far impallidire i Ramones e questo se ne rimane zitto. Porca puttana ha dei problemi. Provo a chiamarlo ma non da segno di accorgersene. Per forza, è sicuramente sordo e muto. Un grosso sordomuto. Nessuno mi soccorre e decido che non è il caso di allarmarsi. Lo porto alla finestra e scosto la tenda. Fuori c’è un cielo meraviglioso e io voglio rubare al mondo questo momento irripetibile del suo primo cielo. Poi lo troverà normale e smetterà la meraviglia ma ora è ora. Comincio a cantargli piano Hotel Supramonte di De Andrè, che per fare bella figura mi piacerebbe buttare giù una scaletta meravigliosa di pezzi selezionati per vantarmi di averglieli cantati tutti con la voce calda e invece ripeto come un ebete le uniche due strofe di quella canzone. E se vai all’Hotel Supramonte e guardi il cielo tu vedrai…
La sera la passo a rispondere a tremila telefonate e invio un milione di sms con il vecchio cellulare, che per fortuna ancora conservavamo e che abbiamo continuato a usare ancora per un paio di anni. I resti di quell’altro, nuovo nuovo, se ne rimangono lì sulla mensola da allora. A dire il vero nella notte, passata la grande botta adrenalinica, ho provato a recuperare la batteria dal tombino, che era pure cementato al suolo e non si poteva sollevare. A parte essermi fatto un corroborante aerosol di merda, i miei tentativi sono stati inutili.