Per alcuni anni della mia vita ho catalogato
beni culturali. Giravo per la penisola e scattavo centinaia di foto e compilavo
schede. Prevalentemente il mio lavoro era la documentazione fotografica da
affiancare alle schede di altri ma la straccia laurea che mi porto addosso e i
corsi successivi mi abilitavano anche alla gestione della scheda ministeriale e
non mi sono fatto mancare niente. Da solo o con i miei soci di allora, mi
alzavo la mattina, caricavo la macchina con i valigioni pieni di obiettivi e pellicole
e corpi macchina e cavalletti e lampade e stativi e filtri e pannelli
riflettenti e cavi e prolunghe e ponteggi e tra battelli e panini e bibite. Piovesse
o ci fosse il sole si partiva. Le norme ministeriali parlavano chiaro. Ogni
scheda di un oggetto degno di menzione in seno al catalogo dei beni storico
artistici, e già qui c’erano ampi margini di manovra e fantasia da impegnare,
pretendeva le coordinate croniche e topiche, la descrizione e una stampa in
bianco e nero grande, i provini a contatto e il negativo. Con le campagne di
catalogazione ci ha campato per anni un’intera generazione di laureati in
storia dell’arte, architettura e affini. A proposito del fatto che non mi sono fatto mancare niente io seguivo
come fotografo anche le campagne di catalogazione di antropologi e assimilati,
compilatori entusiasti delle formidabili schede FK e qualcosa concepite per la catalogazione dei beni
demo-etnoantropologici. Quella parte del lavoro era davvero incredibile. Giravo
le campagne a fotografare utensili da lavoro, pentole, qualche raro strumento
musicale e ancora mi ricordo i tipici campanacci documentati in Carnia con la
scritta all’interno “made in France” o la lunga teoria di zappe del Mugello che
ha occupato più di una delle mie giornate. Ho lavorato prevalentemente nel
Triveneto e in Toscana, ma m’è capitato di muovermi anche in altre zone, sempre
carico all’inverosimile di tutta quella ferraglia che ogni giorno mi camallavo
tra chiese, musei, case perdute e vicoli e scavi e catacombe per fare ancora la
magia del fotografo. Già, quando arrivavamo nei paesini, nelle pievi di
campagna, nei conventi sperduti d’appennino, era come mi immagino dovesse
essere l’arrivo dei musici e dei saltimbanchi in epoca medievale. La gente
veniva a vedere attratta dai mila watt delle nostre Janiro aggrappate ai
barracuda Manfrotto. Una suggestione in bilico sull’idea che tutti si portavano
addosso del racconto del cinema e della televisione visto dalla parte del narratore.
Ti facevano le domande, ti si sedevano vicini in trattoria e ti trattavano come
uno importante e ti offrivano un bicchiere, due bicchieri e tu bevevi e pensavi
che dopo saresti rimasto quattro ore in bilico sui ponteggi a decine di metri
da terra e speravi nella buona sorte. Poi c’erano i giorni in città e la gente
e il traffico e scaricare e spiegare al vigile. Scoprivi presto che tutto
s’aggiustava se dicevi “lavoriamo per il ministero”, e bada che noi si lavorava
per ditte o enti che appaltavano da altre ditte più grosse che a loro volte
redistribuivano lotti di lavoro ciclopici assegnati da ‘sto lontanissimo
ministero, sorta di galassia centrale che a noi pianeti ai lembi dello spazio
conosciuto era dato solo intuire. Ora in qualche corridoio delle segrete
ministeriali giacciono migliaia di scatti miei, che si portano addosso il
freddo di tutti quegli inverni che ho passato chiuso nelle chiese e nelle
cripte e nelle tombe a fotografare e misurare. Il freddo, quello non smetto di
ricordarlo, che a volte ci abbracciavamo alle lampade roventi per riprendere
l’uso delle dita. E dicevamo delle città. Lì le cose cambiavano, non era più il
paese con l’oste che era anche guardiano della pieve e ti apriva certi
catenacci rugginosi e un po’ ti guardava
sospettoso un po’ gli scappava, e quante volte è successo, di chiederti se la
domenica che si sposava la figlia si poteva scattare due foto così in amicizia.
A Firenze fotografavo in Santa Croce coi turisti che arrivati in prossimità del
mio cavalletto e dei miei stativi smettevano di parlare e camminavano in punta
di piedi, a rischio di sovraesporre col rumore le mie delicate pellicole. Un
mondo recente, roba che ha meno di vent’anni da misurare sul ricordo e che pure
è stato spazzato via. Come un mucchio di cose di questi tempi. Un mucchio di
cose che sento mie. Nel silenzio spazzate via. Pagine, pellicole, vinili, e
voci che spariscono dalle cornette dei telefoni e facce che di colpo smettono
di dividere i giorni con te e se ne vanno senza parole e senza saluti e se ce
ne fosse la possibilità di dirsi qualcosa resterebbe l’imbarazzo di chi rimane.
Quasi una colpa mentre il tuo mondo muore e tu resisti perché hai imparato a
resistere e sei fottutamente coriaceo e di morire non se ne parla nemmeno da
morti. E a sopravvivere ero già bravo allora e mi sono trovato a mangiare con
gente che non ho mai più rivisto e ho sorriso a femmine di passaggio con la
distanza incolmabile tra noi che l’esposimetro Gossen mi confermava. Del resto
l’esposimetro fornisce molte più informazioni di quello che si crede ed è un
potente generatore di stati d’animo, da uno stop all’altro.. Ho dormito in auto
e case che non saprei descrivere perché ci arrivavo al buio e me ne andavo
all’alba. Ho comprato formaggi da pastori che mai più saprò ritrovare. Una
volta a Sansepolcro, mentre lavoravo su Piero della Francesca e affini, ho
mollato le attrezzature all’albergo del Cavaliere che era il nostro personale
angolo delle meraviglie e che aveva nell’enorme titolare, giocoliere di piatti
e sapori, la figura di riferimento e sono partito. Con la moto mi sono ficcato
nelle curve d’appennino per stare con Ste una notte e ho messo una ricotta
comprata lì per lì nel bauletto. Ancora calda. Quando sono arrivato, complice
la maledetta vibra del monocilindrico della mia Yamaha XT Tenerè sempre sia
lodata, la ricotta aveva invaso il bauletto e era montata a neve aumentando di
sei volte il suo volume originario. Ste ha sentito la moto planare nel
giardino, allora vivevamo a Sinalunga, s’è affacciata ridendo della mia follia,
che è un po’ un marchio di fabbrica che mi porto addosso da sempre, e io fiero
di me ho spalancato il bauletto. La ricotta è esplosa in giro e ho guardato Ste
con l’aria stupita di chi ha inventato la bomba atomica mischiando detersivo
per i piatti e marmellata.
Tornando alla catalogazione dei beni culturali.
Musei e chiese delle contrade senesi, pievi sul carso triestino, ossari
veneziani con la puzza di umido a tagliarti la gola, le location del mio
campare erano sempre variabili e imprevedibili e mi arrampicavo su ponteggi
montati con i pezzi del meccano e una volta ho visto precipitare la mia Pentax
seisette da una trentina di metri e polverizzarsi sulla nuda roccia. Sono stato
perseguitato da preti resi pazzi dall’astinenza, che mi facevano discorsi
deliranti, ho fatto amicizia con incredibili frati di montagna che avevano le
api e raccoglievano i funghi. Dalle parti di Montalcino ho conosciuto un prete
cacciatore che aveva distrutto un maggiolino, la Volkswagen mica l’insetto, per
investire di proposito i cinghiali che nella notte aveva trovato sulla sua
strada. Ci rimasi a cena e mi diede la grappa fatta da lui e mi mostrò le
cantine e il congelatore con i lacerti di cinghiale tutti ordinati che nemmeno
nella più efficiente delle morgue. In una piccolissima pieve senesem a non vi
dico quale, ho ritrovato in una madia la testa mummificata di una monaca, con
la pelle rossa come lo sciroppo di amarene e quattro denti che sporgevano,
ficcata in un reliquiario con le vetrinette polverose. Un reperto da film
dell’orrore, lontano dalle altre migliaia di reliquie: Mi sono immaginato che
la monaca, forse in odore di miracoli e guarigioni, forse strega o chissà cosa,
morta sul letto era oggetto dell’attenzione di un segaccio o di una mannaia che
s’occupava del suo collo così da poterla tramandare fino a me nella migliore
tradizione dei daiaki del Borneo di memoria salgariana.
Ho interagito con catalogatrici che già
respiravano il lezzo del precariato a oltranza e s’aggiravano per le navate e
le sagrestie come bestie ferite. La mia non era una situazione migliore ma io
vivo sempre le cose per quello che di curioso sanno offrire. Mi sono misurato
sul senso del bene, del male e del peccato per vincere la solitudine di quelle
giornate di fottuto freddo chiuso nei luoghi sacri. Ne ho tratto debite conclusioni.
Sospeso sulle impalcature ho visto una donna ben vestita rubare le elemosine e
se sai che effetto fa una lampada da mille che si surriscalda e ti esplode in
faccia già lo immagini che anche la mia condotta e le mie invocazioni non hanno
potuto tenere in debito conto i luoghi in cui mi trovavo. Un giorno, sul
Trasimeno, la macchina, ah già era una incredibile Renault Fuego nera duemila a
gas, m’ha lasciato. Il meccanico che è venuto a ridarle vita ha visto le
attrezzature e mi ha chiesto se facevo il cinema “No, faccio le foto” “Che fai,
le foto porno?””No, fotografo i monumenti e le chiese””Per fortuna, se facevi
le foto porno a forza di vedere la cicalina spalancata ti veniva magari a noia,
ma se ti vengono a noia le statue che te ne frega”. Aveva potentemente
riassunto il senso della mia vita.
Obiettivi decentrabili, scatti flessibili e rullini
da caricare nei magazzini e fissaggio e tank e pentaprisma. Tutte parole lavate
via da questa pioggia che mi mangia a bocconi voraci i giorni, il tempo e l’esperienza.
E in bocca il gusto al mentolo dei rullini Ilford medio formato, che quando li
avvolgevi dovevi fissarli con la linguetta adesiva come un francobollo e
s’erano pensati quel gusto acidulo per far sorridere. Mi sono inventato altri
mille mestieri, che quella stagione lì m’è morta mentre la tenevo stretta al
petto come il più amato dei miei cani. Uno dei miei compagni di allora, mille
se ne sono andati e qualcuno è riuscito a farmi pure schifo ma è nella regola,
lo conservo come un fratello particolare e il suo nome se lo porta addosso mio
figlio. Poi sono arrivate le macchine digitali e ho continuato a misurare la
mia vita sul ritmo dei tempi e diaframmi ma erano più spesso le foto d’altri a
occupare il mio tempo. Già, il tempo e la verità che pare occupino il senso
compiuto delle fotografie e io non ci ho mai creduto. Nelle foto la verità non
esiste. Ma avremo modo di parlarne. Intanto quella stagione è passata. In un
altro maledetto sudario di silenzio. Tutto si trasforma ma non sempre ci
riguarda davvero. Ma in fondo non è così importante. Almeno immagino non lo sia
per gli altri. E questo vi può bastare.