martedì 19 febbraio 2013

memoria fotografica




Per alcuni anni della mia vita ho catalogato beni culturali. Giravo per la penisola e scattavo centinaia di foto e compilavo schede. Prevalentemente il mio lavoro era la documentazione fotografica da affiancare alle schede di altri ma la straccia laurea che mi porto addosso e i corsi successivi mi abilitavano anche alla gestione della scheda ministeriale e non mi sono fatto mancare niente. Da solo o con i miei soci di allora, mi alzavo la mattina, caricavo la macchina con i valigioni pieni di obiettivi e pellicole e corpi macchina e cavalletti e lampade e stativi e filtri e pannelli riflettenti e cavi e prolunghe e ponteggi e tra battelli e panini e bibite. Piovesse o ci fosse il sole si partiva. Le norme ministeriali parlavano chiaro. Ogni scheda di un oggetto degno di menzione in seno al catalogo dei beni storico artistici, e già qui c’erano ampi margini di manovra e fantasia da impegnare, pretendeva le coordinate croniche e topiche, la descrizione e una stampa in bianco e nero grande, i provini a contatto e il negativo. Con le campagne di catalogazione ci ha campato per anni un’intera generazione di laureati in storia dell’arte, architettura e affini. A proposito del fatto che non mi  sono fatto mancare niente io seguivo come fotografo anche le campagne di catalogazione di antropologi e assimilati, compilatori entusiasti delle formidabili schede FK e qualcosa  concepite per la catalogazione dei beni demo-etnoantropologici. Quella parte del lavoro era davvero incredibile. Giravo le campagne a fotografare utensili da lavoro, pentole, qualche raro strumento musicale e ancora mi ricordo i tipici campanacci documentati in Carnia con la scritta all’interno “made in France” o la lunga teoria di zappe del Mugello che ha occupato più di una delle mie giornate. Ho lavorato prevalentemente nel Triveneto e in Toscana, ma m’è capitato di muovermi anche in altre zone, sempre carico all’inverosimile di tutta quella ferraglia che ogni giorno mi camallavo tra chiese, musei, case perdute e vicoli e scavi e catacombe per fare ancora la magia del fotografo. Già, quando arrivavamo nei paesini, nelle pievi di campagna, nei conventi sperduti d’appennino, era come mi immagino dovesse essere l’arrivo dei musici e dei saltimbanchi in epoca medievale. La gente veniva a vedere attratta dai mila watt delle nostre Janiro aggrappate ai barracuda Manfrotto. Una suggestione in bilico sull’idea che tutti si portavano addosso del racconto del cinema e della televisione visto dalla parte del narratore. Ti facevano le domande, ti si sedevano vicini in trattoria e ti trattavano come uno importante e ti offrivano un bicchiere, due bicchieri e tu bevevi e pensavi che dopo saresti rimasto quattro ore in bilico sui ponteggi a decine di metri da terra e speravi nella buona sorte. Poi c’erano i giorni in città e la gente e il traffico e scaricare e spiegare al vigile. Scoprivi presto che tutto s’aggiustava se dicevi “lavoriamo per il ministero”, e bada che noi si lavorava per ditte o enti che appaltavano da altre ditte più grosse che a loro volte redistribuivano lotti di lavoro ciclopici assegnati da ‘sto lontanissimo ministero, sorta di galassia centrale che a noi pianeti ai lembi dello spazio conosciuto era dato solo intuire. Ora in qualche corridoio delle segrete ministeriali giacciono migliaia di scatti miei, che si portano addosso il freddo di tutti quegli inverni che ho passato chiuso nelle chiese e nelle cripte e nelle tombe a fotografare e misurare. Il freddo, quello non smetto di ricordarlo, che a volte ci abbracciavamo alle lampade roventi per riprendere l’uso delle dita. E dicevamo delle città. Lì le cose cambiavano, non era più il paese con l’oste che era anche guardiano della pieve e ti apriva certi catenacci rugginosi e  un po’ ti guardava sospettoso un po’ gli scappava, e quante volte è successo, di chiederti se la domenica che si sposava la figlia si poteva scattare due foto così in amicizia. A Firenze fotografavo in Santa Croce coi turisti che arrivati in prossimità del mio cavalletto e dei miei stativi smettevano di parlare e camminavano in punta di piedi, a rischio di sovraesporre col rumore le mie delicate pellicole. Un mondo recente, roba che ha meno di vent’anni da misurare sul ricordo e che pure è stato spazzato via. Come un mucchio di cose di questi tempi. Un mucchio di cose che sento mie. Nel silenzio spazzate via. Pagine, pellicole, vinili, e voci che spariscono dalle cornette dei telefoni e facce che di colpo smettono di dividere i giorni con te e se ne vanno senza parole e senza saluti e se ce ne fosse la possibilità di dirsi qualcosa resterebbe l’imbarazzo di chi rimane. Quasi una colpa mentre il tuo mondo muore e tu resisti perché hai imparato a resistere e sei fottutamente coriaceo e di morire non se ne parla nemmeno da morti. E a sopravvivere ero già bravo allora e mi sono trovato a mangiare con gente che non ho mai più rivisto e ho sorriso a femmine di passaggio con la distanza incolmabile tra noi che l’esposimetro Gossen mi confermava. Del resto l’esposimetro fornisce molte più informazioni di quello che si crede ed è un potente generatore di stati d’animo, da uno stop all’altro.. Ho dormito in auto e case che non saprei descrivere perché ci arrivavo al buio e me ne andavo all’alba. Ho comprato formaggi da pastori che mai più saprò ritrovare. Una volta a Sansepolcro, mentre lavoravo su Piero della Francesca e affini, ho mollato le attrezzature all’albergo del Cavaliere che era il nostro personale angolo delle meraviglie e che aveva nell’enorme titolare, giocoliere di piatti e sapori, la figura di riferimento e sono partito. Con la moto mi sono ficcato nelle curve d’appennino per stare con Ste una notte e ho messo una ricotta comprata lì per lì nel bauletto. Ancora calda. Quando sono arrivato, complice la maledetta vibra del monocilindrico della mia Yamaha XT Tenerè sempre sia lodata, la ricotta aveva invaso il bauletto e era montata a neve aumentando di sei volte il suo volume originario. Ste ha sentito la moto planare nel giardino, allora vivevamo a Sinalunga, s’è affacciata ridendo della mia follia, che è un po’ un marchio di fabbrica che mi porto addosso da sempre, e io fiero di me ho spalancato il bauletto. La ricotta è esplosa in giro e ho guardato Ste con l’aria stupita di chi ha inventato la bomba atomica mischiando detersivo per i piatti e marmellata.
Tornando alla catalogazione dei beni culturali. Musei e chiese delle contrade senesi, pievi sul carso triestino, ossari veneziani con la puzza di umido a tagliarti la gola, le location del mio campare erano sempre variabili e imprevedibili e mi arrampicavo su ponteggi montati con i pezzi del meccano e una volta ho visto precipitare la mia Pentax seisette da una trentina di metri e polverizzarsi sulla nuda roccia. Sono stato perseguitato da preti resi pazzi dall’astinenza, che mi facevano discorsi deliranti, ho fatto amicizia con incredibili frati di montagna che avevano le api e raccoglievano i funghi. Dalle parti di Montalcino ho conosciuto un prete cacciatore che aveva distrutto un maggiolino, la Volkswagen mica l’insetto, per investire di proposito i cinghiali che nella notte aveva trovato sulla sua strada. Ci rimasi a cena e mi diede la grappa fatta da lui e mi mostrò le cantine e il congelatore con i lacerti di cinghiale tutti ordinati che nemmeno nella più efficiente delle morgue. In una piccolissima pieve senesem a non vi dico quale, ho ritrovato in una madia la testa mummificata di una monaca, con la pelle rossa come lo sciroppo di amarene e quattro denti che sporgevano, ficcata in un reliquiario con le vetrinette polverose. Un reperto da film dell’orrore, lontano dalle altre migliaia di reliquie: Mi sono immaginato che la monaca, forse in odore di miracoli e guarigioni, forse strega o chissà cosa, morta sul letto era oggetto dell’attenzione di un segaccio o di una mannaia che s’occupava del suo collo così da poterla tramandare fino a me nella migliore tradizione dei daiaki del Borneo di memoria salgariana.
Ho interagito con catalogatrici che già respiravano il lezzo del precariato a oltranza e s’aggiravano per le navate e le sagrestie come bestie ferite. La mia non era una situazione migliore ma io vivo sempre le cose per quello che di curioso sanno offrire. Mi sono misurato sul senso del bene, del male e del peccato per vincere la solitudine di quelle giornate di fottuto freddo chiuso nei luoghi sacri. Ne ho tratto debite conclusioni. Sospeso sulle impalcature ho visto una donna ben vestita rubare le elemosine e se sai che effetto fa una lampada da mille che si surriscalda e ti esplode in faccia già lo immagini che anche la mia condotta e le mie invocazioni non hanno potuto tenere in debito conto i luoghi in cui mi trovavo. Un giorno, sul Trasimeno, la macchina, ah già era una incredibile Renault Fuego nera duemila a gas, m’ha lasciato. Il meccanico che è venuto a ridarle vita ha visto le attrezzature e mi ha chiesto se facevo il cinema “No, faccio le foto” “Che fai, le foto porno?””No, fotografo i monumenti e le chiese””Per fortuna, se facevi le foto porno a forza di vedere la cicalina spalancata ti veniva magari a noia, ma se ti vengono a noia le statue che te ne frega”. Aveva potentemente riassunto il senso della mia vita.
Obiettivi decentrabili, scatti flessibili e rullini da caricare nei magazzini e fissaggio e tank e pentaprisma. Tutte parole lavate via da questa pioggia che mi mangia a bocconi voraci i giorni, il tempo e l’esperienza. E in bocca il gusto al mentolo dei rullini Ilford medio formato, che quando li avvolgevi dovevi fissarli con la linguetta adesiva come un francobollo e s’erano pensati quel gusto acidulo per far sorridere. Mi sono inventato altri mille mestieri, che quella stagione lì m’è morta mentre la tenevo stretta al petto come il più amato dei miei cani. Uno dei miei compagni di allora, mille se ne sono andati e qualcuno è riuscito a farmi pure schifo ma è nella regola, lo conservo come un fratello particolare e il suo nome se lo porta addosso mio figlio. Poi sono arrivate le macchine digitali e ho continuato a misurare la mia vita sul ritmo dei tempi e diaframmi ma erano più spesso le foto d’altri a occupare il mio tempo. Già, il tempo e la verità che pare occupino il senso compiuto delle fotografie e io non ci ho mai creduto. Nelle foto la verità non esiste. Ma avremo modo di parlarne. Intanto quella stagione è passata. In un altro maledetto sudario di silenzio. Tutto si trasforma ma non sempre ci riguarda davvero. Ma in fondo non è così importante. Almeno immagino non lo sia per gli altri. E questo vi può bastare.

mercoledì 6 febbraio 2013

Diviso a Berlino





Una sera sono andato a vedere uno spettacolo in un locale che mi ricordo benissimo come si chiama ma che non menzionerò per evitare di tirarmela troppo con questa storia della supermemoria. Facciamo quindi che ho un vuoto e annaspo e frugo inutili sinapsi zeppe di storie di paperino sfaticato e pippo yukyuk e orsi che fuggono il ranger con un cestino della merenda tra le zampe. Sia come sia, per entrare in questo locale bisogna scendere delle scale buie e dopo una curva sui gradini, che è una prova di fiducia nel cliente, si arriva in un rettangolo lungo, una stanza bordata a sinistra dal bancone. 

Una chiara media, dici quando non sai ancora come muoverti e non vuoi sbilanciarti.

Parallelo a questa stanza ne corre un’altra. Più grande, ma non molto di più. Sul palco, perché c’è pure un palco, c’era una consolle, così si dice, ma era più moderna di quella che avevamo a casa da piccoli e che aveva uno specchio che io dicevo difettato e mia madre antico. Il tipo dietro alla macchina del suono, discobolo furente, dice che viene da Berlino e questo già basta a fargli guadagnare punti. Così almeno mi sembra, a giudicare dagli entusiasmi estatici di chi mi accompagna e anche di quegli altri, i "sono arrivato prima per prendere il posto migliore". Cosa non si farebbe oggi per un posto. Il tipo ha un caschetto di capelli biondi che a me, abituato ai tedeschi della costa adriatica, pare obbligo morale e di bandiera. Occhiali sottili, dita sottili, gesti sottili, tette sottili. Madò, ha le tette!!! Sodoma, Gomorra e Gallarate tutto insieme. La musica è quella dei giovani contemporanei, accessori da dehor, scissi in un ultimo cruciale congresso, tra la coazione ossessiva a ripetere e i videoclip che sono troppo una figata. Zibu zabu zibu zabu, rengheghe rengheghe, zibu zabu zibu zabu e poi urletti, fischietti e scorreggette a mordicchiare il tappeto sonoro. Che bravo, sento dire, e ho capito che intendono lui che non suona e non fa nemmeno le pernacchiozze e per intuire d’essere vivo mi passo la mano sul viso. Giusto per sentire il grattare dei calli della ridicola chitarra acustica che nascondo sotto il letto. E non saprò mai suonare. E quello, che, giuro, è bardato di cazzo, dondola le tette e la testa mentre alle spalle gli proiettano delle slide di immagini che devono essere molto artistiche pure quelle ma io me ne intendo poco. Che bella vertigine. Arte, suono, bellezza ditribuita ovunque e suono, arte, bellezza zibu zabu. Un trionfo futuristico di stimoli verso il futuro tecnologico. Ancora arte meravigliosa, pensieri profondi spremuti come limoni astringenti in quelle sfocature sciolte come llo sciroppo d'orzata nei bicchieri colmi d'acqua fresca i pomeriggi d'estate da piccolo. Sfocature che devono far intuire membri tesi tra la porta del paradiso e quella di servizio. E Laura, vabbè qualche indizio ve lo lascio cadere con disinvolto gesto, che è miope e non ha gli occhiali, sovrappone a quella sfocatura l’altra, quella che dio le ha montato come accessorio costoso per farle sembrare che tutto attorno è più leggero, almeno fino a quando dimentichi gli occhiali, mi chiede cos’è e io rispondo "un cazzo" e lei dice ma dove lo vedi e io traccio con pazienza nell’aria e nel buio il profilo del maschio proiettato. Attorno gli altri sorridono, ma solo per la mia manifesta impermeabilità a quell’arte altra e alternativa e trasgressiva per voi citrulli, penso, che io me lo vedo duro come e più di quello tutte le volte che voglio e lì fiocca poesia e immodesto soppesare attrezzi d’amore e valvole della passione eccedente. Topo di campagna, mi ringuatto col muso tra le zampe, guardandomi dal commento e, dio come può scendere in basso l’uomo mimetico, arrivando a muovere la testa a dondolo, come rapito dall’estasi ipnotica del suono maestro. Sognando l'estasi in bilico tra la fame e dio che prendeva le tarantate prima che fosse moda pure quella. Il terziario avanzato, lasciate le Bic dietro gli sportelli di banca, le impronte persistenti delle chiappe sulle seggiole a ruote, celebra invasato la sua santeria e io con loro. Forse mendicando briciole d’attenzione ma più sicuramente beando la mia strulla curiosità. Se solo avessi le tette sarei perfettissimo ora.

La notte si torna meglio a casa.