lunedì 19 gennaio 2015

ULTIMO RESPIRO



Hyppolyte Bayard, autoritratto come un annegato, 1840






Il mio vicino di letto è simpatico. Lo viene a trovare la moglie, brutta e materna, un figlio silenzioso, che forse lo odia, amici da bar e ragazze giovani. Quando ci sono queste ultime la moglie sparisce. Un giorno ci confesserà che conosce benissimo la passione del marito per le ragazzine, ma il medico gli ha detto di soprassedere. Lui parla con lei di Tavor, ne prende a quintali, di male e bene ma soprattutto di male. Con le amiche e gli amici parla di storie intrecciate, amori possibili sempre a portata di mano. La banconista del Torrenti, una delle più assidue, gli porta Quattroruote e bottigliette di Ballantines. Beviamo alla salute nostra, che solo a dirlo ci va tutto di traverso dal ridere e spruzziamo la miglior medicina sulle lenzuola bianche di questo reparto di merda. Ogni tanto arriva quello che fa il barbiere non ho capito dove, che forse ha trovato uno interessato alla macchina. Sono tre anni che lui e il mio compagno di stanza cercano di piazzare questa Austin, che a starci seduti sembra di strisciare con il culo per terra, ma nessuno ne vuol sapere di spendere tutti quei soldi per uno spiderino da rimorchio con i ricambi introvabili. I due ci hanno speso un capitale per rimetterlo a posto e ora vorrebbero almeno riacchiappare la spesa. Mi sono adeguato al linguaggio, come spesso del resto, e anche la mia vita sembra centrata sulla fase del motore. Parliamo molto di niente e ho sempre fame, chissà se è buon segno questa fame, e ancora sulla strada. Per fortuna Carlo, così si chiama il mio vicino, oltre che di macchine, è appassionato anche di moto. Ne possiede tre, anche le macchine sono tre, una da cross, una da strada e una grossa enduro per andare al mare. Di mestiere aggiusta i computers e tutti i soldi li spende in pistoni. Vive con la madre, è da lei che tiene tutta la mercanzia, dalla moglie e dal figlio torna saltuariamente.

Oggi è il turno dell’amica. Niente bottigliette ma un pacchetto di sigarette. Non fumo, ironia della sorte, ma sono contento per lui. L’altro giorno il primario, trascinando la sua gamba polio, è entrato nella nostra stanza. Ha chiesto al mio vicino se aveva fumato ancora e mentre Carlo giurava sulla moglie, sulla fighetta del Torrenti mai, gli ha afferrato una mano e, dopo avergliela annusata come un lagotto, l’ha coperto di insulti. Adesso, dopo aver fumato, Carlo si lava le mani con il bagnoschiuma al pino silvestre e giura di andare pazzo per le fondenti alla menta. Rido pensando che forse col suo male le fondenti possono rivelarsi fatali. 
Carlo il suo cancro se lo porta nelle budella, niente a che vedere con il mio ampio respiro. Gli stanno facendo un sacco di analisi tremende ma nemmeno io me la passo bene. Tra qualche giorno lo aprono, di me non si capisce ancora.
I miei sono arrivati da qualche giorno e vengono a trovarmi con la frequenza degli altri ricoveri. Mia madre è sempre qui, che dice di star tranquillo con la sua faccia da sceneggiata che piange emigranti, carcerati e figli morti. Per quel che riguarda mio padre, si caga sotto come al solito e ogni volta che arriva mi tocca far finta di stare un capolavoro e faccio il pagliaccio, insulto i medici, rido degli altri che sono davvero malati mentre io me la spasso. Per fortuna di fratello ne ho uno solo, che se erano in tanti a prenderla così eran cazzi. La colpa di tutto è di quella volta che stavo al Forlanini, ancora il respiro protagonista, per la broncoscopia e la broncografia e lui, bassotto d’un pugno d’anni, non poteva entrare per venirmi a trovare. Una domenica mi sono vestito e sono andato davanti al bar dell’ospedale, lo stesso di quando, bassotto io, avevo brindato alla nascita del fratellino col latte e menta, tropical dicevo io. Lui stava lì, al tavolo con mamma e babbo e, porco quel cazzo, troppo pischello per essere uomo, mi sono messo a piangere che non ce la facevo più a stare lì. Lui mi guardava con gli occhi sbarrati fissi su quel buco in gola che m’avevano fatto e le braccia cariche di prove anallergiche giocavano a sfavore. Da allora credo mi odi ogni volta che sto male. Quando mi son operato d’ernia, relitto d’uomo direte voi, mio fratello l’ho visto solo quando si è presentato, mandato dalla provvidenza, a notte fonda con una scorta di cibi e bevande. Quella volta era Perugia, topaia subsanitaria con gli infermieri secondini che faceva schifo darli, adesso è Udine, efficientissima e, forse per questo, mille volte più inquietante.
Parlare di lei mi costa già più fatica. Quando entra nella stanza vorrei morire e i suoi occhi, troppo verdi e troppo grandi per ricordarmi che sono ancora chiuso qui dentro, si muovono attorno e riempiono tutto di luci e riflessi come in un planisfero. Sono sicuro che anche adesso, maledetto questo casino attorno, se ci lasciassero un po’ soli, lei si infilerebbe nel mio letto. Questo è il suo modo per dirmi che mi vuole vivo. In questi dieci anni passati con lei, a vedermi non sono certo un tipo gracile, non sono mai stato male e credevo che tutto fosse un ricordo, un impaccio adolescenziale. In tutti questi anni, io, che per prendere un’aspirina mi devono tenere in quattro e non ce la fanno uguale, sono rinato con lei, per lei.
Vengono anche gli amici, talvolta quelli veri, e mi portano libri, giornali e notizie. Roby mi ha portato, in prestito per fortuna, un libro enorme sulle battaglie della seconda guerra mondiale. Non capisco perché dovrei leggermi il resoconto di Guadalcanal ma sento che quell’enorme tomo, con le sue illustrazioni che celebrano il massacro, poggiato lì sul comodino, veglia il mio sonno con i suoi mille e mille morti descritti.
Nel cassetto del comodino tengo i pochi spiccioli e i guinzagli dei cani. Me li sono trovati in tasca quando sono arrivato qui e ho voluto tenerli. L’altro ieri ho detto a Stefania di portare Chinook e Blu sul marciapiede davanti alla mia finestra, un mozzicone di porfidi sconnessi che si intravede appena. Loro stavano lì e io fischiavo e mi sbracciavo. Non mi hanno visto, anche se sospetto che Blu abbia solo finto di non vedermi. 
Carlo è appena uscito dal bagno, è andato a fumarsi un’altra fondente alla menta. Ascolto Tom Waits con le cuffiette, Rain Dogs è colonna sonora adeguatissima, e leggo Beerbohm senza prestargli eccessiva attenzione. Cigola nel corridoio il carrello del pranzo e ancora una volta regoliamo i nostri orologi biologici sulla demente scansione della giornata dell’ospedale. Sono le undici del mattino e noi si pranza. Oggi posso mangiare, dice la suora, ma il mio amico deve stare a digiuno. Sospettiamo che la storia del digiuno serva a far risparmiare alla confortevole struttura nella quale siamo alloggiati decine di pasti al giorno. L’altra settimana ho avuto diritto al cibo solo due volte e sempre con la scusa del prelievo, che se me ne levano ancora divento l’Horlà. Per fortuna, per il sostentamento ci arrangiamo come possiamo, col dubbio che i medici finiscano per credere che stiamo meglio grazie alle loro cure. Del resto stare meglio, nel nostro caso, finisce per essere solo uno stato d’animo.
Abbiamo anche un televisore, piccolo e in bianco e nero, lo stesso che i miei mi regalarono per la Prima ed Ultima Comunione. Allora non si navigava certo nell’oro, che anche ora si galleggia appena nei bot, e mio padre mi chiese se per regalo avrei preferito una moto, perfetta replica in miniatura di quelle dei grandi, motore e benzina compresi, o un bel tele per tutta la famiglia. Ho scelto la televisione, ingoiando il rospo senza dare a vedere la mia pena e sono stato così bravo che i miei, ancora oggi, non riescono a spiegarsi la mia sfrenata passione per le due ruote. Avrei potuto anche sopravvivere ma il fatto è che per tutte le elementari mi è toccato in sorte di dover passare davanti alla vetrina dove era esposta la maledetta, mai un Cristo che in tutti quegli anni avesse deciso di farne dono al suo fortunatissimo figlio, e alla fine mi pareva di sentire, ogni volta che la vedevo, le mani che vibravano strette alle manopole.


Mi apparecchio la tavola e mi siedo sconsolato. Prima di iniziare, non riesco a fare a meno di stare qualche minuto a rimirare la triste miseria di quello che mi hanno messo davanti. La minestrina, invoco i miei fidati peperini di antichissima memoria, è di un brodo color dell’acqua in cui galleggiano le aborrite farfalline. Di secondo ancora la principessa. L’abbiamo chiamata così per capirci almeno tra di noi. I primi giorni la suora arrivava e ci annunciava che c’erano le polpette, la polpetta. In seguito la stessa pallozza di carne è stata fatta passare per ameroteutonica hamburger. Sempre la stessa per un periodo l’han chiamata svizzera e, Dio sa cosa ci serba il futuro, per ora si dilettano a definirla medaglione di carne.
Finite le ricche libagioni mi vado a rimettere a letto. Non mi sento per niente male e, se non fosse per quell’agguato nero nei miei polmoni, me ne sarei andato a fare un giro con il tettuccio aperto e vecchie cassette da squarciarsi la gola.
Stefania mi ha portato una paccata di giornali. Adesso che mi potrei consolare, tanto fuori tira un’aria di regime da farmi strizzare le viscere, mi sento ancora peggio. Sento quell’idea, il tarlo, il carul, come lo chiamava quel rincitrullito del mio professore di latino e greco, che mi mangia le meningi. Insulto tutto e tutti e suono il campanello dell’infermiera solo per rompere i coglioni. Arriva un tizio col camice bianco, la sigaretta pendula e l’aria scocciata. L’hanno assunto perché categoria protetta e lui sbandiera la sua mano di legno come giustificazione del suo essere uno stronzo.
“Che ti serve?”
“Mi serve una mano, me la puoi dare?”
Carlo ridacchia e ancora non ci siamo ripresi dalla faccia della caposala, quella con l’occhio di vetro, quando le abbiamo detto che quelle meravigliose scarpe dovevano esserle costate un occhio.
Dall’alto della nostra, inconfutabile fine prossima ci permettiamo ciniche marranate. Magari questo sfigato infermiere uscirà di qui e, investito da un camion della Sammontana, creperà prima di noi, senza averci avuto la stessa soddisfazione. Nell’incertezza del suo futuro, abbozza.
Intanto l’idea, prima scacciata per quel minimo di rispetto che ancora potevo avere di me stesso, comincia a farsi presenza costante. Apro il cassetto e la ritrovo ad aspettarmi sui pacchetti di fazzolettini, dentro le pagine delle cose che leggo e anche di quelle che soltanto sfoglio. Mastico piano il panino che mi ero inguattato in previsione del tristo pranzo e la sento, ormai è un chiodo fisso, pazza graffettatura nelle mie emozioni, che monta tra le mascelle.

Decido di alzarmi, giusto per passeggiare con Ste per il corridoio. Cerco nello stipetto le ciabatte. Ostento naturalezza in quei gesti goffi e intanto mi consumo di vergogna. Odio farmi vedere così, la vestaglia di mio padre, il pigiama comprato apposta per me che non sono mai riuscito a dormirci. Camminiamo per il corridoio e incrociamo lo sguardo con altri zombies. Tutti si portano questo porco odore di cura dietro e, anche a stare qui da un mese, non ci si abitua mai. Le cingo le spalle con il braccio e passeggiamo come se fossimo sul lungomare. Respiro forte con le narici che si dilatano a cercare il mio odore, tremando all’idea di sapermi contaminato da questo strozzante olezzo di corsia.
La beffa è tutta nella lucidità del mio male che mi ammazza senza concedermi, per ora, nessuna inabilità di rilievo. Tutto è cominciato per caso, mi faccio i raggi e le luci si abbassano, le voci si fanno gentili e comincia la processione di quelli, anche solo intravisti, che vogliono serbare un ricordo. Avrei voluto morire d’un colpo, stroncato da una caduta da un’impalcatura mentre fotografo la volta di un’anonima cappelletta. Mi sarebbe piaciuto morire crivellato di colpi in un memorabile duello, investito da un treno in un immemore attraversamento di binari. Almeno si sarebbe percepita, anche solo per un attimo, la materialità, la consistenza di ciò che mi stava ammazzando.
Ste mi sorride e i suoi occhi non riescono a dissimulare. A volte la tratto male, la copro di insulti, colpa di quella porca angoscia di vederla lì che mi guarda, stupita di non poterci fare proprio niente. A volte ci diciamo che ci amiamo e ci sentiamo ancora più miseri. Abbiamo travolto sempre tutti gli ostacoli che in questa decina d’anni si frapponevano tra noi, ci siamo inventati un lavoro che non esisteva solo per rimanere insieme, abbiamo coccolato i nostri piccoli sogni e placato gli infinitesimi risentimenti. Tutto questo per ritrovarci qui, ancora senza crederci.

Mi resta poco, meno del solo pensiero di sperarci, e se fosse di più del prevedibile sarebbe comunque solo uno scampolo di vita.

Oggi l’idea mi ha così martellato in testa che ho temuto avessero sbagliato l’ubicazione del mio morire. Mi faceva male dentro e mi mordeva forte. Credo di aver preso una decisione e ancora non capisco come. Non mi soffermo ad analizzare, il tempo è poco e bisogna muovere il culo.
Per prima cosa devo scegliere la persona e la cosa non è facile. Ste’ sarebbe sicuramente, dopo i soliti tentennamenti di prologo, disponibile. Resta il fatto che è nell’impossibilità materiale di potermi aiutare. Si tratta di farmi trovare oltre il muro la moto pronta al viaggio e il bestione non è facilmente governabile. Degli amici è difficile trovarne uno abbastanza fidato da potergli rivelare il mio progetto e allo stesso tempo così fidato da potergli affidare la mia moto.
Inevitabilmente la scelta cade su mio fratello e non devo nemmeno prendermi la briga di dargli tante spiegazioni. Stasera è venuto a trovarmi e mentre se ne andava gli ho passato le chiavi con gesto naturale. Non mi ha fatto nessuna domanda, nemmeno quando gli ho detto di fargli il cambio d’olio e il pieno, che a soldi son messo male.
L’idea si è fatta presenza ossessiva in questi ultimi giorni e mi ha tolto sonno e respiro, sempre questo stronzo soffio, senza mollarmi mai. Ci ho giocato come si fa con i cani, tirando un lembo dello straccio e accanendomi come se impossessarmene fosse per me di vitale importanza. Così l’idea mi è passata davanti ai pensieri con quel trofeo d’irrazionalità che le dondolava tra i denti, mi ha provocato, evitato e cercato ancora, mi ha trattato da puttana e da puttaniere. All’inizio ero stupito e forse divertito di sentire come corressero i miei pensieri. Mi sentivo nuovo e irreale. Sembrava che le rare occasioni che ancora la vita aveva deciso di concedermi fossero lì sul tavolo per l’ultima mano e io a smaniare per tutto il cucuzzaro. A poco a poco la cosa mi è sembrata possibile, plausibile e, infine, assolutamente improrogabile, che si capisce che uno nelle mie condizioni anche delle proroghe se ne può sbattere.


Ci siamo. La strada è liscia e la moto plana sulle curve che è un piacere. Oggi mi sento più debole ma sarà per quest’aria del mattino che mi entra dalle maniche del giubbotto e mi corre nella spina. Mi sono fermato al bar, quello del viaggio di due anni prima, e ho bevuto un caffè di cui non avevo nessuna voglia. Ho sorriso pagando e il tipo non ha nemmeno sollevato la testa dal cassetto degli spiccioli.
Risalgo sulla moto, la metto dritta per togliere il cavalletto laterale e anche quello sforzo d’abitudine mi inchioda le spalle. Sfioro il pulsante dell’accensione e il motore, ancora caldo, si mette a borbottare. Alzo i giri con un paio di botte alla manopola. Il borbottio diventa un graffio alle nuvole. La gente per un momento si ferma. Aspettano che io lo faccia e voglio stare ancora al gioco. Raggiungo il limite dello spiazzo, guardo oltre la spalla e mi immetto. Il grido si strozza sul fuorigiri e strizzo le marce con la moto che scodinzola e rampa. Quando sono solo un puntino per quelli laggiù rimasti a guardare mi rimetto in crociera. Sollevo completamente la visiera e respiro forte. L’aria mi passa dentro come un ciclone e la ributto fuori pompando forte. L’idea di una sorta di lavanda polmonare mi fa sorridere. Un forte getto d’aria che passa tra i bronchi e ti pulisce di tutto, ti rimette a nuovo.
La strada è vuota e il sole al mio fianco alza il pollice. Vai. Apro dolce. La moto sale di giri, seimila, settemila e il rumore prende una nota alta. Ancora, piego su un curvone in leggera discesa. Un grosso insetto viene a schiantarsi sulla mia visiera con un rumore secco. Apro ancora. Novemila e vai a salire. La tengo su un leggero sconnesso. Guardo nello specchietto ma le vibrazioni mi rimandano un’idea improbabile di quello che mi sono lasciato alle spalle. Apro il gas.



mercoledì 7 gennaio 2015

Questo solo volevo dire, che non ho detto mai

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Stanno davanti ai cancelli e gridano. Dicono che erano loro che venivano ai concerti e erano loro che compravano i dischi e quindi ora gli spetta la libbra di carne, ora chiedono a gran voce di sentire che odore fai da morto e dicono che sei cosa loro. Non ho idea se abbiano torto o ragione, non mi interessa. Vedo questa teoria di facce e lacrime e ricordi e penso che ognuno abbia il diritto di viversi le cose come crede ma la sensazione è strana e mi lascia inquieto. Forse ha ragione Daniele Sepe, quando dice che siete e siamo forse meglio disposti a essere orfani che a essere figli e se abbiamo un padre ci piace piangerlo da morto. Non sono sicuro di niente ora. Almeno non sono sicuro di quello che dovrebbe essere o meno condiviso. Come non sono certo mai di quello che riguarda una moltitudine, della marea che monta e della voce che si fa grossa delle altre voci. E allora parlo di quelle stinte certezze che mi porto addosso.

Pino Daniele è stata una colonna sonora formidabile di una mia stagione precisa. Era il peggior incipit possibile e me lo sono concesso perché il peggio è affar mio. Sta di fatto che vivevo a Battipaglia, il resto della mia famiglia era a Udine, e misuravo a passi affrettati la distanza verso la maggiore età, forse perché alle prime pulsioni verso gli undici anni le mie fantasie sessuali avevano come dead line del digiuno pelvico i diciotto anni. Stavo nel letto, chiudevo gli occhi davanti al buio della stanza di notte e partiva il disco che mi correva insistente dentro… “quando avrò diciotto anni mi troverò una ragazza tutta nuda, mora, la voglio mora con gli occhi chiari”… Ammetto che alla fine non ho saputo resistere e il regalo l’ho aperto prima del tempo che mi ero dato.

All’epoca non avevo un giradischi, un piatto si diceva tra noi che già a parlare così ci si sentiva del giro giusto, e dormivo nell’immenso salone di quella casa un tempo riempita dalle voci di una famiglia incredibile e impossibile. Mi ero messo una branda tra i divanoni inizio Novecento e di fronte a me avevo un pianoforte così scordato che non lo ricordava davvero più nessuno. Erano tracce di un passato fastoso di cui annusavo la presenza ma che non m’era mai stato possibile condividere. Serate con gli spartiti e il pianoforte e le auto rombanti dei miei avi e i cavalli e le femmine di nascosto, innumerevoli femmine, a dimostrare che come dicono da quelle parti la schiatta mia ha una sorta di ossessione nel sangue. Il palazzo portava nella targa sul portone il nome di quella famiglia, mia da parte di madre, e era un tempo segno di potere e ricchezza tra Salerno e le campagne di Eboli. Mi muovevo tra quei mobili e le suppellettili e l’odore di qualcosa che non c’era più e che sapeva vagamente di morto. Qualcosa di più di un sentimento vago a ben vedere, ma ne parlo con rispetto. E c’era un motorino elettrico per pompare l’acqua al sesto piano quando volevo farmi una doccia o anche solo bere un bicchiere d’acqua e un tavolo enorme rotondo in cucina e balconi sulla via principale, proprio all’angolo con la piazza buona.

La mattina mi svegliavo e partivo per il liceo. Liceo classico Enrico Perito. A Eboli. Mi sono diplomato lì. Cinquantotto sessantesimi. Senza sapere né leggere né scrivere, dicevo io. Per strada, andando a scuola, incontravo quelli che nel giro di poche ore erano diventati i miei fratelli di allora e per sempre. Ce ne stavamo pomeriggi interi nella mia casa che sembrava una sorta di Vittoriale sbilenco e borghese. Stravaccati sui divani e i broccati ascoltavamo la musica, tutta la musica del mondo. E parlavamo di femmine.

Non si batteva un chiodo all’epoca sul versante delle femmine. Poche cose raccattate alla peggio e un sacco di storie inventate e condivise mentre in quelle stanze cantava dal radione sul mio comodino Pino Daniele. Già, quando eravamo vinti da certi struggimenti e certe nostalgie per un mare mai visto, noi che il mare lo sentivamo a naso se le finestre erano aperte, ci sentivamo quelle cassette passate di mano in mano e a cui io avevo rifatto le copertine una a una con disegni e note ai testi. C’era rabbia oltre che struggimento nelle canzoni di Terra mia o di quella micidiale seconda prova su vinile che rispondeva all’appello se dicevi Pino Daniele, quella con la copertina di lui che si fa la barba. Già, le copertine, i titoli e la sequenza dei pezzi, la facciata A e la facciata B lo scricchiolio della polvere. Lo dicevo io che era una stagione precisa e a guardarla ora è davvero lontana. Perché a un certo punto ci mancavano le parole e restavamo a guardare il soffitto mentre pioveva sui palazzi scuri e si camminava e si camminava vicino al porto ricordando una Maria che non avevamo nemmeno mai sfiorato.

Pino Daniele ha traghettato nei miei giorni una schiera di incredibili suonatori da tutto il mondo. M’ha regalato il gusto per la musica suonata e la rabbia e l’invettiva e il sospetto dell’amore. Non l’ho confessato mai prima d’ora ma ho imparato a leggere i libri con la biblioteca sgangherata di mio padre e le canzoni di Guccini e ho imparato a capire qual’era la musica buona, buona per me almeno, inseguendo le note di quei dischi lì. Fino a Bella’mbriana e ancora spingendomi al disco doppio dal vivo che uscì proprio in quei giorni spesi tra la casa e la piazza e la pizza a metro che ci facevamo tagliare a striscioline per mangiarla tutti. Si girava la sera fino a tardi ma le femmine rientravano molto prima e allora si ciondolava da una pizzeria a metro a un film con le prime cassette piratate a casa di qualcuno. Passavano quelli con la fidanzata ma noi non ce l’avevamo, passavano quelli con la moto ma noi non ce l’avevamo, passavano quelli con un futuro davanti ma noi non ce l’avevamo. Quello che avevamo noi erano quegli assoli di sax in faccia al mare e avevamo anche quello, il mare, da arrivarci con il costume da casa e gli zoccoli di legno che quando ho fatto l’orale della maturità sono arrivati gli amici vestiti da spiaggia e mia madre, che era venuta da Udine a cercare di capire cosa si poteva ancora salvare di quel figlio scasso e problematico, quando vide arrivare la mia tribù perse definitivamente la speranza di vedermi dignitosamente collocato nel mondo. E pure quel giorno, io che dopo una notte clandestina avevo dovuto dire addio a un amore che ancora mi mordeva alla gola, avevo Pino Daniele che usciva dalle casse del radione e le risate e quel giro di tre accordi che ripeteva al mondo Nun me scuccià.

Poi è successo che sono partito e ho continuato a vivere come un lazzaro e spesso felice, che la lezione l’avevo imparata e quel lampo d’acqua salsa che mi porto addosso me lo giocavo a favore ma ormai quei giorni erano lontani e nei dischi di Pino Daniele non mi ci ritrovavo più e per anni ho sospettato mi avesse tradito. Ora non saprei com’è andata davvero. Lui non ce l’aveva più la rabbia di un pulcinella avvelenato e neppure la nota sarcastica e l’ironia e alla carta sporca di quella città, che non smetto di amare odiandola di cuore, aveva sostituito certa pratica canzonettara in cui cantava alla donna “quando muovi il fisico in un ritmo isterico”. Quando muovi il fisico? Ma che cazzo di modo è di scrivere una canzone. Insomma è successo che non mi ci sono ritrovato più nelle canzoni e non ci trovavo più il blues delle origini ma ora che lo racconto, io che non lo avevo detto mai, non sono più sicuro. Se n’è andato lui o me ne sono andato io?

Anni dopo sono andato a intervistarlo. Suonavano la notte delle chitarre e ho stretto la mano al mio mito Randy California che di lì a poco sarebbe sparito su una tavola da surf per sempre. Dovevo fare l’intervista per Frigidaire e ci siamo messì li a fine concerto a Pordenone e lui mi ha guardato e mi ha detto “Ma tui hai capito dove devo andare a suonare… a Vienna... hai presente dove sta Vienna… la ncopp aggia i a sunà”. E ridevamo tutti e due, ficcati in un mondo e in una storia che era tutta un'altra storia.

L'ho visto tantissime volte in concerto. Pure quando non capivo cos'era successo davvero. E ci sono andato in autostop con la donna dei miei desideri. Questo conta e avrei voluto dirglielo.

Il disco dal vivo l’ho comprato originale all’epoca, uno sforzo economico da fottermi le finanze. L’ho comprato in cassetta che il piatto, l’ho già detto, non ce l’avevo. Quando ho saputo che Pino Daniele era morto ho alzato il telefono e ho chiamato il mio amico di allora e di sempre. Con lui è tutta la vita che cerchiamo di incontrarci in giro per il mondo fosse solo lo spazio di un caffè e con lui solo avevo voglia di parlarne. Le parole ce le siamo riguadagnate alla bocca come allora. Le stesse. La stessa meraviglia. Parlavamo nella stessa lingua di quei dischi, parlavamo cresciuti neri a metà. 

Ora ci saranno gli eredi e le raccolte gold e platinum e le vie intitolate e la venerazione delle reliquie e già c'è stato il flash mob e i veleni tra i parenti e il pubblico che reclama e il mistero della morte. Le canzoni, le benedette canzoni, quello c'è e basta. Poi c'è l'uomo ma è un'altra storia e riguarda lui e quelli che respiravano la sua aria. Roba che a noi che sentivamo le canzoni mica ci compete. Quello non sono io canta quell'altro e vale tenerlo a mente.

Questo volevo dire. Perché non l’ho detto mai.