mercoledì 17 settembre 2014

Tango figurato del disdoro. Figura 2

Le dieci figure di merda che mi hanno segnato nella vita
 

Figura 2


In fondo a Viale Volontari della Libertà, che sono cosa ben diversa da quelli che anelano alla Libertà ma perché obbligati, dietro l'albergo "Ramandolo" per capirci, c'è un parco pubblico. Oddio parco è parola grossa, in realtà è un fazzoletto di terra stitica che non è mai riuscito a attirare nessun tipo di utenza. Eppure chi lo ha progettato negli anni Ottanta s'era immaginato che quello spazio chiuso tra i palazzi e qualche casetta bifamiliare con l’omino che pota la siepe al sabato, potesse avere un’ utenza varia e anagraficamente trasversale. Nel suo piccolo c’è una pista di pattinaggio che s’è guadagnata nell’erba una sua rispettabilità fatta di un cemento rosso che segue il tracciato di un immaginario circuito progettato da un geometra del comune che la mattina aveva fatto colazione con le acciughe al verde e una punta di LSD. La pista è percorribile solo se si è muniti di pattini in linea e di una sola gamba, perché è strettissima e l’unica curva è un tornante che ti rispedisce a boomerang e con velocità decuplicata dall’effetto, noto in fisica come frombola della morte, alla casella di partenza. Ho visto bambini con il triciclo schiantarsi con incidenti spettacolari che al confronto Indianapolis sembra il brucomela.
Ancora nel suo piccolo, ci sono le panchine, una paio, messe proprio con le spalle alla siepe fitta che delimita il parco. Il progettista, in un delirio di visione ergonomica, aveva probabilmente pensato ad agevolare i manigoldi che potevano arrivare indisturbati alle spalle degli anziani per derubarli dopo avergli tagliato la gola o fracassato la testa con una mazzuola da muratore. Non ricordo bene, pur essendo l’unico fruitore attivo di questo spazio da sempre, ma originariamente c’era anche una rastrelliera di mazzuole da muratore a disposizione di chi frequentava il parco ma, come sempre, ci sono quelli che non hanno il senso del bene comune e dai oggi dai domani alla fine alcuni servizi sono spariti.
Ancora nel suo piccolo c’è una terza panchina che originariamente era sotto un alberello e che ora è stata inglobata da una sorta di pianta carnivora che si nutre dei barboni ubriachi che la notte riescono a trascinarsi fino a lì. I poveretti fuggono quella maledetta morsa all’anima che gli procura il vivere in una città come Udine, dove tutti ti offrono continuamente da bere e a barbonizzarsi, finendo per dormire abbracciati al cartone del Tavernello, ci si mette un lampo e una leggera disattenzione. Arrivano lì barcollando, giuro che la panchina in questione emette la notte una balugine nel buio tipo il riflesso di una bottiglia di verduzzo, attratti da quella bella possibilità di poter riposare il corpo lasso lasciando che il fegato si lavori in pace l’eccesso. Si sdraiano e in una frazione di secondo spariscono, ingoiati dalla perfida simbiosi tra pianta e panchina.
Ancora nel suo piccolo, il parco riserva altre sorprese. Per evitare la manutenzione di eventuali altalene e scivoli si è pensato di istallare dei giochi per l’infanzia che dessero belle garanzie di affidabilità nel tempo. Al centro dello spazio erboso è stata raccolta con la pala meccanica una bella quantità di terra, per farvi un’idea andate a guardarvi “La collina del disonore” che è una vecchia pellicola che però mantiene intatto il suo fascino. L’altura generata da questo dissesto geologico nasconde la vera magica sorpresa. Nel cuore della collina c’è una tubatura in cemento, pari pari a quelle usate per le cloache, che probabilmente nelle intenzioni del geometra del comune serviva ad abituare i piccoli friulani alle tragedie di miniera che pure li avrebbero attesi se si fossero decisi come tanti ad emigrare in Belgio. Un cunicolone che attiva nei piccini la sindrome di Vermicino e non offre neppure riparo ai barboni e se ora mi chiedete perché vuol dire che prima non avete letto con attenzione. Attorno ci sono degli altri alberelli che sono stati piantati da decenni ma hanno scelto la via del bonsai e restano piccini come quelli del presepe.
Il pezzo migliore però, sempre nel suo piccolo, è l’anfiteatro greco, non sto scherzando, ricavato nell’angolo estremo del parco. Gradoni in cemento e una scena che nell’idea del geometra del comune avrebbe dovuto accogliere con bella cornice drammi e commedie normalmente consumate dentro le mura domestiche. A volte ci vanno i ragazzi a farsi le canne su quei gradoni e scrivono “coso ama cosa” “cosa ciuccia coso” “coso gli piacciono i cosi” e altre frasi dove coso e cosa sono sempre protagonistissimi.
Lo conosco bene quel parco perché vivevo in uno dei palazzoni lì attorno e ci andavo a preparare gli esami seduto sulla panchina degli anziani quando non era sporca di sangue fresco o sdraiato sulla panchina dei barboni perché mi ero accordato con la pianta carnivora e gli procuravo delle variazioni alla dieta invitando gente di tanto in tanto. Ci andavo in bicicletta e con il cane e mi mettevo lì, a volte sdraiato su una delle tre linee di gradoni che nel suo piccolo componevano l’anfiteatro. Passavo dei pomeriggi bellissimi e mai nessuno a rompermi i coglioni. La gente passava a bordo parco ma nessuno osava metterci piede e io ero il signore di quel mezzo campo da pallone regalato alla fantasia dei cittadini. Gridavo nel condotto sotto la collina e i topi facevano l’eco per darmi soddisfazione, pisciavo contro gli alberelli bonsai per aiutarli nel loro tentativo di scomparire, lasciavo briciole per certi passeri mutanti che parlavano in serbo e sapevano essere crudeli.
Un giorno di fine estate stavo lì sdraiato sulla panchina. Mi ero tolto le scarpe di tela e mi ero portato le birre ghiacciate e un libro strampalato in spagnolo perché all’epoca preparavo esami di arte mesoamericana. Il cane stava sdraiato sotto la panchina e teneva lontani i passeri mutanti dalle lattine di birra. Il cielo non prometteva niente di buono e io guardavo quel denso grigiore senza troppa pena perché lì, a pochi metri, avevo parcheggiato la mia 127 verde coi fari supplementari gialli e la scritta a bomboletta “The Clash” sul cofano. Praticamente all’epoca vivevo dentro quella macchina. A un certo punto sento delle voci femminili. Giro la testa e sono due carine che in omaggio all’estate che fugge regalano alla vista belle porzioni di corpo. Fingo di fottermene, che secondo me è una strategia ma non mi ha mai portato molto lontano. Sono sedute di fronte a me, nella panchina del pensionato sgozzato e pare proprio stiano berciando rivolte da questa parte. Le guardo di nuovo. Stanno chiamando il cane. Con il cane al parco dice che si rimorchia ma io ho rimorchiato spesso risse con altri proprietari di cani, i vigili e signore logorroiche alla ricerca di attenzione. Queste invece sono carine e quel vecchio arnese di Blu s’è alzato e è andato a vedere cosa vogliono. Cerca cibo, cerca sempre cibo per dare ragione all' antica memoria di lager da cui l’ho strappato a suo tempo. Loro non lo sanno e dicono che carino e a dirlo di quel cane lì pieno di cicatrici e col pelo struffo c’è da essere matti. Ma io lo so che su quelle lì fa effetto quest’aura di libertà che il cane e il mio stare sdraiato sulla panchina a piedi nudi e il libro e quell’atmosfera da parco maledetto sanno evocare. Uso un vecchio trucco. Fischio e il cane torna verso di me e dico anche “Scusate”. Praticamente un cane da riporto. Puntuali loro mi rispondono “Ma no, siamo noi che lo abbiamo fatto venire qui, che bello come si chiama” “Blu” “Come?” “Si chiama Blu” “Ma è bellissimo, perché si chiama così?” “Perché è blu, se lo guardi da vicino lo vedi che è blu” “Maddai” “Allora vieni a vedere”. Tutto questo sempre restando sdraiato. La più carina e intraprendente si alza ridendo e si avvicina. Si siede sull’erba a gambe incrociate, proprio sulle briciole dei passeri mutanti e vorrei dirglielo che rischia la vita ma ho paura di rovinare tutto. Il cane le si avvicina e lei infila le mani nel pelo nero nero e spettinato e ride. “Davvero è blu, incredibile”. La guardo con gli occhi socchiusi “Incredibile” dico a mezza voce. Resta sospesa e non capisce. “Blu non si lascia toccare da nessuno, solo io posso accarezzarlo. Non lo avevo mai visto fare così. Si vede che gli piaci. Devi essere una davvero speciale e io mi fido di Blu”. Non mi guarda ma sorride e accarezza il cane e sembra proprio che stia parlando come un santo al lupo. Blu mi regge il gioco come sempre ma mi guarda come a dirmi “potresti risparmiarti tutte le volte questa cosa pietosa del cane intoccabile”. “Cosa stai leggendo” chiede lei “Arte mesoamericana” dico io, con la voce tre ottave sotto. Ora ho davanti a me un’autostrada di surrealtà da percorrere a togliermi il fiato. Restiamo lì a parlare, lei vorrebbe fare i fumetti o non mi ricordo più e io sono a metà tra un bluesman al crocicchio e un esploratore che sta per partire per Cuzco. L’amica si avvicina ma ormai il palleggio è a due. Il cane si rilassa e si sdraia. Sulle sue gambe incrociate. Vecchio Blu quanto mi manchi anche se ti porto in quella specie di nome che nel tempo è diventato marchio di fabbrica. Di colpo scoppia a piovere. Fortissimo tutt’insieme. Mi alzo e dico “Scusami ma devo correre alla macchina altrimenti mi si bagna il libro: Se volete vi posso dare un passaggio” “No grazie, la mia amica abita lì di fronte” “Allora ci si rivede, io vengo a leggere qui tutti i pomeriggi” “Che bello allora, portiamo i panini la prossima volta. Anche per Blu”. L’amica è un po’ infastidita e fa la fiscale “Ma non gli metti il guinzaglio?” “No, il mio cane è un po’ di tempo che si chiama Libero” e mentre lo dico mi faccio schifo da solo. “Ciao allora” dico di rincalzo e attacco a correre verso la macchina a piedi scalzi nell’erba sfregna. Mi giro per chiamare il cane che mi corre dietro, come a dar sfoggio di complicità con quella bestia selvatica. Sembriamo la pubblicità del Vidal per il mercato bulgaro. Poi tutto accade in un lampo. A bordo parco la mattina si sono messi a fare dei lavori per le tubature. Hanno scavato e recintato alla meglio. Ma io salto la siepe come un capriolo in calore e precipito nella voragine rovinosamente. Senza un grido. Un male pazzesco. Mi tengo la caviglia, ho i pantaloni strappati e perdo sangue dai gomiti, dalle ginocchia e dalla dignità. Il cane resta sul bordo della fossa e abbaia come ha visto fare in televisione ai suoi colleghi del soccorso alpino dopo le valanghe. Se la tira alle mie spalle per quel panino promesso. Quelle accorrono preoccupate per avermi visto sparire dopo il balzo della siepe. “Ti sei fatto male”. Se c’è una cosa a cui è difficile rispondere senza spargere terrore e devastazione intorno in queste situazioni è “Ti sei fatto male”. Invece quasi fingo distanza e indifferenza. Cerco di sottintendere che fa parte del mio allenamento alla Mesoamerica. Esco dalla fossa tutto sporco e strappato e ormai la pioggia battente è una benedizione che purifica. “Vabbè vado” “Oddio, il libro si è tutto rovinato” “Tanto era della biblioteca” “Vabbè, sicuro che stai bene” “Tranquille, ora devo davvero andare. Alla prossima”. Nessuna risposta ma forse la pioggia ha coperto le loro parole. Il cane è già entrato in macchina saltando dal finestrino lasciato aperto.

Tango figurato del disdoro. Figura 1.

le dieci figure di merda che mi hanno segnato nella vita.

Figura 1


Aspetto tutti i giorni all'uscita del liceo, lì sulla scalinata. Faccio finta di parlare con gli altri ma in realtà aspetto lei. Un giorno riesco ad accompagnarla alla fermata del bus. tanto facciamo la stessa strada. ometto di dire che in realtà io sono in motorino e lo lascio lì dandogli un'occhiata complice. si tratta del solito ferro razza Ciao che se mi leggete avete imparato a conoscere. ho gli anfibi, i pantaloni neri di fustagno strettissimi, una catena che penzola dai pantaloni e un giaccone grosso e rosso che è inverno e fa freddo e il chiodo non regge (praticamente sono vestito come adesso ma all'epoca avevo trenta chili di meno addosso). ho circa quindici anni. parlo e parlo che quando mi intimidisco parlo ancora di più e mi ammazzerei come un moscone da solo. vorrei lei mi sorridesse (in realtà ben altre sono le mie aspettative ma devo scrivere così per la sensibilità del pubblico da casa). forse le parlo di musica, forse le parlo del sogno di viaggiare, probabilmente parlo di antinucleare che lei è fissata e frequenta un gruppo di quelli che fanno i campeggi nelle centrali nucleari per protesta e sono un po' della parrocchia un po' no. è evidente che parlo di fine settanta inizio ottanta. infatti i miei ricordi sono su pellicola e spesso negativi. non ci capisco un cazzo di antinucleare ma quasi mai parlo di cose con consapevolezza e competenza. mentre deliro di scorie e nubi tossiche scivolo su una cazzo di ghiaietta e mi inciampo nel gradino della discesetta di un garage. in pieno centro. ho le mani ficcate nelle tasche strettissime dei pantaloni strettissimi e sento una stretta al cuore strettissima mentre percepisco in mio corpo cadere al suolo come un pioppo giovane destinato alla cartiera (dai che questa similitudine omerica ti ha lasciato di stucco). le cado lungo davanti, come la sbarra del passaggio a livello (va bene, la smetto con le similitudini). lei resta interdetta. io mi dimeno nel tentativo di liberare le mani dalle tasche e sembro una grossa larva agghiacciante. mi sto rotolando nella polvere e scricchiolo nella fottuta ghiaietta. rido, madonna come rido e la risata mi toglie il fiato e le forze e alla fine mi abbandono, lascio che la testa s'appoggi al selciato e rido, sempre con le mani ficcate tra l'inguine e il fustagno. voglio morire. a questo punto non ha più senso alzarsi. lasciatemi qui come una cosa abbandonata in un angolo e dimenticata, diceva il poeta. io riesco solo a ridere con le lacrime agli occhi e questa qui che mi guarda e la gente che pensa "il solito drogato" che in quegli anni era di moda drogarsi e immaginare tutte le persone che rantolavano a terra dei drogati. lei alla fine si allontana. non dice una parola. resta a guardarmi a tre metri di distanza. la giusta distanza per non essere accomunata. arrestata eventualmente. alla fine riesco a rialzarmi.
il pomeriggio mia madre viene a chiedermi perchè continuo a ridere nella mia stanza come un cretino. me lo chiede ma le leggo negli occhi che sospetta mi sia drogato. lei l'ho rivista da poco e non ci salutiamo nemmeno. ha dei figli e un marito perfetto e la sua vita è rimasta contaminata dal tempo, che è peggio di qualsiasi scoria nucleare. io mi sono montato un contatore geiger sulle emozioni. per la bellezza dell'anima. ma non funziona.