giovedì 14 marzo 2013

bastava dirti solo Ciao

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E la distanza generazionale. Capita spesso che ci si scontri tra padre e figlio e le incomprensioni crescono e fanno muro e la notte ritorni da quella vita fuori che ti stai strappando a morsi e magari hai un dolore che ti manda in risonanza la pelle o un’emozione che vorresti gridare e non hai voglia di fare i conti con le maledizioni che arrivano da quella stanza da letto al buio. Poi a tavola, quando ancora ci si incrocia, volano parole grosse e ti sta stretta questa gerarchia del branco e cominci a girare al largo e le tue passioni non pulsano più sull’accordo di un sorriso d’approvazione ma piuttosto trovano altra identità tra quelli come te, stesso odore e stesso guizzo. Capita anche spesso che il tempo restituisca vecchie pellicole della memoria, la mia è prevalentemente in bianco e nero, è una scelta che ho fatto andando su “impostazioni del cervello” e cliccando “scala di grigi” per cui c’è consapevolezza. E allora cambi l’angolo visuale, e allora sei in altri panni e non giustifichi tutto, almeno per la certezza che nessuno sarà mai disposto a giustificare tutto di te, ma riguadagni alla tenerezza gesti e sguardi e parole. Scopri che hai una casa, l’unica che ti sei permesso, perduta nel bosco, che è stata l’arena delle nostre condivisioni, perduti dietro i funghi e spiando gli animali e pescando di frodo. Scopri ancora che se ti guardi nelle foto lo ritrovi. Scopri che sei padre a tua volta.
In età adolescenziale mio padre lo vedevo poco, come prima del resto. Era stato un riferimento mica da ridere. Ancora me lo ricordo il giorno che lo raggiungemmo ad Asiago e lui arrivò nella locanda dove ci eravamo sistemati con mamma guidando una rumorosissima Guzzi Superalce. Ero timido, una timidezza che mi fotteva. Con lui non avevo grossa confidenza. Arriva con il giaccone di pelle nera e la Guzzi. Se lo sai che rumore fa quel monocilindrico cinquecento sai anche che quando è acceso vibrano tutti i muri intorno. Mi guarda, e io tutto il viaggio con i trenini locali m’ero dato ansia per questo incontro in cui volevo fare bella figura e m’ero portato un cinturone con la pistola da cowboy, come Zagor ma ancora non lo sapevo, e lui si presenta con quella Guzzi e azzera tutta la mia macchina scenica. Che cazzo me ne facevo ora di un cinturone di cartone pressato e una pistola finta a confronto con quella potenza futurista di motore e olio e biella e muscoli grinta officina sole come canta il bolognese di Pavana che scelsi proprio in adolescenza come riferimento paterno e allora, direte, te le vai a cercare. Lui mi sorrise e mi disse “sali che facciamo un giro”.Il mio rifiuto fu categorico. Per nulla al mondo. Alla fine se ne andò, ingoiato dal sentiero di ghiaia bianca e quel battito del motore. Dai diciotto anni a ora ho avuto una decina di Guzzi. Per dire.
Avevo la mia passione per la musica, una cosa ossessiva con pochi mezzi messi in campo. Un giradischi mono a cui avevo collegato le casse di un’autoradio procurate chissà come in quel quartiere di frontiera. Avevo un registratorino per le cassette che mio padre aveva comprato nel nome della santa tredicesima. Collegato con dei fili torti alle stesse casse. Registravo le canzoni dalla radiolina della cucina, con tutti i rumori di sottofondo. Mia madre che friggeva, mio fratello che giocava a pallone in corridoio, mia madre che si incazzava, mio fratello che smetteva per un po’ di giocare a pallone in corridoio. Facevo partire la registrazione e appena lo speaker riprendeva a parlare fermavo. Per aver la suggestione di un disco. Di vinili ne avevo tre o quattro, comprati usati dalla collezione del fratello di Gnagno, che viveva a Bologna e quindi noi si approfittava. Il fratello di Gnagno faceva il Dams e arrivava con certi vestiti fighissimi e la moto e il maggiolone e sempre un giro di figa mica da ridere per cui averci un suo disco era vivere un po’ come lui. Ora se legge ne approfitto per dirglielo. Insomma la mia stanza era una canzone continua, sempre con l’impaccio delle tecnologie sghembe. Mi ero registrato “Radici” di Guccini su una cassetta strausata e a un certo punto de “la locomotiva” il nastro impazziva per qualche secondo, all’altezza di “sembrava dire ai contadini curvi” e accelerava e per anni suonandola quella canzone arrivato a quel punto mi scappava una voce alla Paperino e acceleravo. Mio padre di musica si interessava poco. Cantava canzoni in auto in un linguaggio inventato  e culminava con “borgo antico” che sapevamo tutti a memoria e quando leggendo “ragazzi di vita” ho scoperto che c’era un ragazzino che tutti chiamavano “Borgoantico” e che cantava rivolto al Tevere mi sono sentito che Pasolini ci aveva rubato una cosa nostra. Insomma casa mia, grazie a me medesimo, era una continua proposta sonora e solo ora che faccio i viaggi in macchina e mio figlio attacca l’ipod, e bada che io e mio figlio condividiamo un sacco di musica e passione, e ci fa da dj piazzando le sue scelte a volte mi prende un senso vago di vertigine e guardo il mio di ipod che resta zitto nel cassettino con maledetta nostalgia. La tecnologia viaggia veloce ma la vita ha sempre gli stessi tempi. Una sera mio padre è arrivato a casa e ha varcato la soglia della mia stanza, una branda, un tavolo e i dischi e i libri sparsi come in una cella da ergastolano. Non mi ha detto niente ma gli si leggeva in faccia che sapeva di giocarsi le carte migliori. Era stato a cena per lavoro da qualche parte e al ristorante aveva incontrato un cantante famoso che gli aveva regalato un suo disco con la dedica. Cito testuale “A Giorgio e Andrea con simpatia… Pupo”. Mio padre mi porge il disco come una reliquia convinto di aver avuto accesso a quel cuore nuovo incontrollabile che mi stava crescendo in petto. Lo guardo come il peggiore dei mentecatti, come l’archetipo di tutti gli idioti proposti pure in larga misura nel catalogo dell’umanità ma in lui distillato sapientemente. Pupo? Ma che cazzo me ne faccio. Nell’altra mano ha due fasce di spugna da mettere sulla fronte, siamo alla fine dei Settanta e usava, con scritto “Pupo fans”. Poi il disco alla fine lo mettevo lo stesso, il pomeriggio da solo, e ho imparato la canzone e certe sere la cantavo con gli amici che ridevano e dicevano ma come cazzo fai a sapere Pupo a memoria. Però è risaputo tra gli amici che ho questa maledizione della memoria e conosco centinaia di poesie e milioni di canzoni e allora la meraviglia durava il tempo di attaccare a cantare con l’arpeggio intimista “Il lungo, il corto e il pacioccone”.
Oggi è oggi e ho quarantasette anni e domenica ce ne siamo rimasti io e mio padre e mi ha raccontato che la notte sogna di quando lavorava e la fatica e la rabbia. Avevamo il caffè davanti e quante volte da piccolo ripulivo il cucchiaino dallo zucchero residuo di quella bevanda nera che m’era proibita. Ora siamo pari. Nel bene e nel male. E io mi sto preparando a fare un viaggio per tutta la pianura padana a bordo di un Ciao, il motorino Ciao. Come quello cdi quando ero ragazzo, quella possibilità d’essere liberi che ancora mi sento addosso se sento odore di miscela. Non gliel’ho detto a mio padre del viaggio, non gli dico nulla di quello che faccio, parliamo delle cose che possiamo fare insieme e delle cose che abbiamo fatto. Delle botte e le urla parliamo poco. Però mentre organizzavo questo viaggio m’è venuto in mente il mio motorino e l’ho chiamato Dersu Uzala come il film che vedemmo proprio io e lui al cinema e in cui lui rivide il padre suo nei gesti di quel vecchio cacciatore perché è così che va con la memoria e lui con il padre non ci ha mai parlato troppo e a diciassette anni, guarda un po’, era già fuori casa. Destino genetico il nostro. E pensando al fatto che la musica è sempre la cifra solida dei miei pensieri ho immaginato che per questa impresa ci voleva una canzone. “Ciao” come la canzone di Pupo. Guarda un po’.




 

martedì 5 marzo 2013

Concerto per dolore e orchestra





Attenzione. Leggere attentamente le avvertenze e le modalità d'uso.

Prima di leggere fai partire la canzone qui sotto.




 






Preludio

“Sono tre giorni che ho una cosa nell'occhio che mi procura un certo fastidio. Tutto è cominciato venerdì, montando il carburatore al “Dersu Uzala”, che sarebbe il mio motorino razza Ciao. Mi bruciava l'occhio e ho pensato ci fosse finita dentro della benzina o dell'olio, succede spesso lavorando in officina. A me succede spesso. Vado a casa e sopporto il bruciore oculare come il prezzo da pagare per preparare il “Dersu Uzala” al viaggio africano che sto progettando da quest’inverno. Il sabato vado a Genova e la sera torno a Torino e in treno ancora questo fastidio che si sposta nell'occhio e mi rende meno piacevole la lettura dell’ultimo romanzo di Mailer. Ultimo nel senso che l’ha scritto e poi è crepato. Soprattutto a occhio chiuso il fastidio è una rottura di balle. La domenica mi vado a vedere, bel lusso il vedere lo capisco bene ora, quella delusione di "Educazione siberiana", che già il libro non mi convinceva ma il film è una vera puttanata. Visto poi con l'occhio critico... . La notte il fastidio aumenta. Una di quelle mie notti di insonnia a manetta per cui mi sono addormentato all'una e alle tre leggevo. Sempre con la balbuzie oculare. La mattina dico a Ste "guardami un po'", lei apre l'occhio con la disinvoltura di un guaritore filippino e emette il responso "hai un cellophane nell'occhio". Resto a guardarla con l'occhio abbacinato dalla lampada che mi ha piazzato a sei centimetri dal cristallino."un cellophane?" e lei con naturalezza "sembra un pezzo di cellophane"" un pezzo di cellophane?". Telefono al mio amico oculista e cerco di spiegare che ho una busta di plastica nell'occhio. Lui mi conosce da parecchio e dice "vieni subito da me". A due passi. Arrivo e mi fa l'anestesia e poi mi gira le palpebre come arancia meccanica. Estrae un'ala di insetto, una libellula credo io a giudicare dalle dimensioni, un moscone dice lui. Ridono. Che avranno tutti da ridere. Mi stanno spuntando le ali agli occhi. Dev' essere la primavera.”


Si salgono le scale e dal primo passo oltre la grossa porta a vetri sei già ficcato dentro quella polpa dantesca di dolore e dolenza e conforto a sfioro di spalle e odori alla gola e macchinette del caffè a monete e cigolare di ruote di mille dimensioni. Ruote per spostare i letti, ruote per spostare le poltrone, ruote per spostare i macchinari, ruote per il barbiere e la sua bottega, ruote per il giornalaio, ruote per le medicine e le bende, ruote passate su gambe braccia e toraci e fuggite via. Fuori da queste mura ancora la puoi vedere la ruota in cui ficcavano i figli di nessuno. L’ospitalità sacra dell’ospedale è un fatto etimologico ma è anche un fatto e basta, che ti sfido a trovarlo un altro posto dove un estraneo può occuparsi con sbrigativa indifferenza delle tue deiezioni e del tuo lamento. Dice che la ruota è stata un’invenzione potente, una rivoluzione copernicana rotolata lì a dare maggior spinta al progresso umano. Forse. Qui le ruote sono raramente della fortuna, muovono spesso altro che desiderebbe magari spostarsi in bell’autonomia e deve far piuttosto di conto con quel cigolio che enfatizza a ogni metro percorso la fatica di campare ancora. Già, la fatica del campare. Il mestiere di respirare. Forse.


Primo intermezzo

Al bar dell'ospedale. Arriva un’ infermiera, la stessa che mi ha riconosciuto mentre facevo la visita e ha gridato "tu sei Blughost, sono stata alla presentazione di Torino da bere" col medico che mi guardava come avesse scoperto la causa di tutti i miei mali. La tipa si avvicina e complice l'euforia mia da morte rimandata mi mette una polverina nel caffè. "Cannella" sussurra "una libidine". Forse non lo so ma pure questo è amore.


E io oggi all’ospedale ci stavo per poco e nulla, Una formalità, solo una formalità. Così cantavano quegli altri in un ennesimo spazio e in un ennesimo tempo che pure ho vissuto. E gli stessi poi canteranno in lode a una grazia ricevuta, mille anni dopo le formalità, le affinità e le divergenze, e nulla arriva a caso e tutto ci riporta al nostro presente. Alla ruota che gira. Forse. Comunque in questi immensi corridoi dell’ospedale ci sono soffitti alti contro ogni ragione architettonica e sanitaria plausibile. Per allenare l’anima ad abbandonare il corpo. Forse. Quanti forse. Me la giro in attesa del mio turno, che giusto qua mi permetto un largo anticipo, quasi a sperare che a far bella figura sapranno risparmiarti i dolori accessori. Ho tutto il tempo di prendere confidenza con la distanza che sappiamo mettere. Barricati nelle nostre poltroncine, il tempo di immergermi nello schema finale di Resident Evil. Dice che le gazzelle sane saltano alto per dire al leone "occhio che sono in forma cambia preda" e a me oggi scappava di saltare altissimo tra sacchetti pieni di merda e anoressiche ridotte un carasau e sfumature alte da chemio.


Secondo intermezzo

Aspetto il turno mio al macello sanitario. Con il numero ciancicato tra le dita e ogni tanto lo sbirci sperando che sia cambiato in tuo favore e invece quello batte sempre la sua distanza incolmabile dal display rosso che pulsa precedenze e codici di riguardo. Come al bancone del salumiere. A fianco ho un figlio sui dodici e un padre con i calzoni da cantiere. Parlano fitto e ridono. Peruviani. "come si dice cazzo in quechua" chiede il figlio scosso da una risata che quel posto impone di trattenere "non si dice" "quando telefoniamo al nonno glielo chiedo". Ridono e rido anche io e penso alle pagine di Arguedas. Il mondo è meraviglioso pure qui.


L’ospedale è un fatto di solitudine. Nel senso che ci arrivi anche accompagnato, è nel novero delle possibilità, ma alla fine ognuno finisce per essere inchiodato ai propri pensieri. Una galleria di tipi umani, di un’umanità dolente che è certamente plausibile e addirittura scontata in questo luogo, ti sfila davanti. E ogni volta prendi le misure a spanne, confrontando il tuo male con quello degli altri. Anche quando stai bene. Bastano anche labili indizi, l’affanno di un respiro portato di gorgoglio e fischi, un colpo di tosse che è già la lotteria dei secondi che restano. Ci sono i malati e i parenti e i medici e il personale sanitario e tutto scorre davanti a te. Ogni tanto si ferma quel brulicare di gente che ti ricorda le bestemmie di tuo padre quando apriva un fungo con il coltello e ci scopriva una colonia verminosa. Quando succede è perché sta passando un letto con una coperta e tracce di vita accennate da un piede che cerca aria, da una mano secca secca che spunta. Passa l’invito a morte e tutti quelli che fino a quel momento avevano fatto come fosse normale non possono fare a meno di inchiodarsi al terrore d’un lampo di consapevolezza. Ti ripeti che tu non lascerai che il tuo corpo arrivi a quel punto. Con la certezza che anche quelli lì, quelli attaccati alla bombola o quegli altri vecchi uccellini implumi dallo sterno reso vuoto dai ricordi rubati, se lo sono detti prima di te. Forse.


Terzo intermezzo

I pigiami e le vestaglie e le ciabatte. Non smetto di guardarli. Quella volta che m’hanno ricoverato mia madre m’ha comprato il pigiama e le ciabatte. L’unico della mia vita. Le uniche della mia vita. E il pranzo alle undici e mezza e la cena alle sei. Per darti ragione del fatto che ti hanno in pugno e possono cancellarti tutto, anche le certezze minime di un quotidiano abusato. Amore e morte in bilico sulla busta gialla con i raggi che stringi tra le dita da un’ora e questi ancora non ti chiamano. Dentro gli ospedali mi sorprendo a spiare le femmine con un guizzo nella spina che è fretta d’esistere. Con l’insistenza della mia voglia che grida “ti porterò via di qui, nel nome di tutte le cosce del mondo”.


L’odore dell’ospedale è una cosa densa, è l’ospedale. Quelli che nella vita inorridiscono se scoprono che un uccello gli ha cagato sul parabrezza, ora qui devi darsi ragione del fatto che quell’omino si porta al collo il sacco con le proprie merde che sciaguattano. In quel sacco ci son gli spiccioli di resto per una vita spesa e tu abbozzi e non c’è carità cristiana ma piuttosto la consapevolezza che potrebbe toccare anche a te. I medicinali, il cibo, il sudore dei panni arrangiati, i pappagalli e le padelle, il riscaldamento che funziona come funziona. Questo è soprattutto l’ospedale. Una memoria di odori che non fa i conti con l’anosmia, perché quegli odori sono immagini, sono concrete pareti affrescate d’orrore. In Morte a credito, Celine descrive gli odori densi delle povere case che il medico protagonista di quelle pagine va a misurare in sincrono con un livore che gli cresce dentro e che trova nell’umano il portatore mai sano di un morbo maledetto. Celine era medico. Appunto. Invece i medici dell’ospedale li riconosci subito perché si sono allenati a prendere la massima distanza e sono sempre in bell’ordine, a stridere con certi cascanti panni da degente e curati e abbronzati e hanno lo stetoscopio che è come la maschera del monatto delle incisioni medievali e scaccia il morbo. I medici non sentono gli odori. Meglio. Gli odori evitano i medici.


Finale

Camminare per i corridoi di un ospedale è come spiare la morte dal buco della serratura.