Attenzione. Leggere attentamente le avvertenze e le modalità d'uso.
Prima di leggere fai partire la canzone qui sotto.
Preludio
“Sono
tre giorni che ho una cosa nell'occhio che mi procura un certo fastidio. Tutto è
cominciato venerdì, montando il carburatore al “Dersu Uzala”, che sarebbe il mio
motorino razza Ciao. Mi bruciava l'occhio e ho pensato ci fosse finita dentro della
benzina o dell'olio, succede spesso lavorando in officina. A me succede spesso.
Vado a casa e sopporto il bruciore oculare come il prezzo da pagare per
preparare il “Dersu Uzala” al viaggio africano che sto progettando da quest’inverno.
Il sabato vado a Genova e la sera torno a Torino e in treno ancora questo
fastidio che si sposta nell'occhio e mi rende meno piacevole la lettura dell’ultimo
romanzo di Mailer. Ultimo nel senso che l’ha scritto e poi è crepato. Soprattutto
a occhio chiuso il fastidio è una rottura di balle. La domenica mi vado a
vedere, bel lusso il vedere lo capisco bene ora, quella delusione di "Educazione
siberiana", che già il libro non mi convinceva ma il film è una vera
puttanata. Visto poi con l'occhio critico... . La notte il fastidio aumenta. Una
di quelle mie notti di insonnia a manetta per cui mi sono addormentato all'una
e alle tre leggevo. Sempre con la balbuzie oculare. La mattina dico a Ste
"guardami un po'", lei apre l'occhio con la disinvoltura di un
guaritore filippino e emette il responso "hai un cellophane
nell'occhio". Resto a guardarla con l'occhio abbacinato dalla lampada che
mi ha piazzato a sei centimetri dal cristallino."un cellophane?" e
lei con naturalezza "sembra un pezzo di cellophane"" un pezzo di
cellophane?". Telefono al mio amico oculista e cerco di spiegare che ho
una busta di plastica nell'occhio. Lui mi conosce da parecchio e dice
"vieni subito da me". A due passi. Arrivo e mi fa l'anestesia e poi
mi gira le palpebre come arancia meccanica. Estrae un'ala di insetto, una
libellula credo io a giudicare dalle dimensioni, un moscone dice lui. Ridono.
Che avranno tutti da ridere. Mi stanno spuntando le ali agli occhi. Dev' essere
la primavera.”
Si salgono le scale e
dal primo passo oltre la grossa porta a vetri sei già ficcato dentro quella
polpa dantesca di dolore e dolenza e conforto a sfioro di spalle e odori alla
gola e macchinette del caffè a monete e cigolare di ruote di mille dimensioni.
Ruote per spostare i letti, ruote per spostare le poltrone, ruote per spostare
i macchinari, ruote per il barbiere e la sua bottega, ruote per il giornalaio,
ruote per le medicine e le bende, ruote passate su gambe braccia e toraci e
fuggite via. Fuori da queste mura ancora la puoi vedere la ruota in cui
ficcavano i figli di nessuno. L’ospitalità sacra dell’ospedale è un fatto
etimologico ma è anche un fatto e basta, che ti sfido a trovarlo un altro posto
dove un estraneo può occuparsi con sbrigativa indifferenza delle tue deiezioni
e del tuo lamento. Dice che la ruota è stata un’invenzione potente, una
rivoluzione copernicana rotolata lì a dare maggior spinta al progresso umano. Forse.
Qui le ruote sono raramente della fortuna, muovono spesso altro che desiderebbe
magari spostarsi in bell’autonomia e deve far piuttosto di conto con quel
cigolio che enfatizza a ogni metro percorso la fatica di campare ancora. Già, la
fatica del campare. Il mestiere di respirare. Forse.
Primo intermezzo
Al
bar dell'ospedale. Arriva un’ infermiera, la stessa che mi ha riconosciuto
mentre facevo la visita e ha gridato "tu sei Blughost, sono stata alla
presentazione di Torino da bere" col medico che mi guardava come avesse
scoperto la causa di tutti i miei mali. La tipa si avvicina e complice
l'euforia mia da morte rimandata mi mette una polverina nel caffè. "Cannella"
sussurra "una libidine". Forse non lo so ma pure questo è amore.
E io oggi all’ospedale ci stavo per poco e nulla, Una formalità, solo una
formalità. Così cantavano quegli altri in un ennesimo spazio e in un ennesimo
tempo che pure ho vissuto. E gli stessi poi canteranno in lode a una grazia
ricevuta, mille anni dopo le formalità, le affinità e le divergenze, e nulla
arriva a caso e tutto ci riporta al nostro presente. Alla ruota che gira.
Forse. Comunque in questi immensi corridoi dell’ospedale ci sono soffitti alti
contro ogni ragione architettonica e sanitaria plausibile. Per allenare l’anima
ad abbandonare il corpo. Forse. Quanti forse. Me la giro in attesa del mio
turno, che giusto qua mi permetto un largo anticipo, quasi a sperare che a far
bella figura sapranno risparmiarti i dolori accessori. Ho tutto il tempo di
prendere confidenza con la distanza che sappiamo mettere. Barricati nelle
nostre poltroncine, il tempo di immergermi nello schema finale di Resident Evil. Dice che le gazzelle sane
saltano alto per dire al leone "occhio che sono in forma cambia
preda" e a me oggi scappava di saltare altissimo tra sacchetti pieni di
merda e anoressiche ridotte un carasau e sfumature alte da chemio.
Secondo intermezzo
Aspetto il turno mio al macello
sanitario. Con il numero ciancicato tra le dita e ogni tanto lo sbirci sperando
che sia cambiato in tuo favore e invece quello batte sempre la sua distanza
incolmabile dal display rosso che pulsa precedenze e codici di riguardo. Come
al bancone del salumiere. A fianco ho un figlio sui dodici e un padre con i
calzoni da cantiere. Parlano fitto e ridono. Peruviani. "come si dice
cazzo in quechua" chiede il figlio scosso da una risata che quel posto
impone di trattenere "non si dice" "quando telefoniamo al nonno
glielo chiedo". Ridono e rido anche io e penso alle pagine di Arguedas. Il
mondo è meraviglioso pure qui.
L’ospedale è un fatto di solitudine. Nel senso che ci arrivi anche
accompagnato, è nel novero delle possibilità, ma alla fine ognuno finisce per
essere inchiodato ai propri pensieri. Una galleria di tipi umani, di un’umanità
dolente che è certamente plausibile e addirittura scontata in questo luogo, ti
sfila davanti. E ogni volta prendi le misure a spanne, confrontando il tuo male
con quello degli altri. Anche quando stai bene. Bastano anche labili indizi, l’affanno
di un respiro portato di gorgoglio e fischi, un colpo di tosse che è già la
lotteria dei secondi che restano. Ci sono i malati e i parenti e i medici e il
personale sanitario e tutto scorre davanti a te. Ogni tanto si ferma quel
brulicare di gente che ti ricorda le bestemmie di tuo padre quando apriva un
fungo con il coltello e ci scopriva una colonia verminosa. Quando succede è
perché sta passando un letto con una coperta e tracce di vita accennate da un
piede che cerca aria, da una mano secca secca che spunta. Passa l’invito a morte e tutti
quelli che fino a quel momento avevano fatto come fosse normale non possono
fare a meno di inchiodarsi al terrore d’un lampo di consapevolezza. Ti ripeti
che tu non lascerai che il tuo corpo arrivi a quel punto. Con la certezza che
anche quelli lì, quelli attaccati alla bombola o quegli altri vecchi uccellini
implumi dallo sterno reso vuoto dai ricordi rubati, se lo sono detti prima di
te. Forse.
Terzo intermezzo
I pigiami e le vestaglie e le
ciabatte. Non smetto di guardarli. Quella volta che m’hanno ricoverato mia
madre m’ha comprato il pigiama e le ciabatte. L’unico della mia vita. Le uniche
della mia vita. E il pranzo alle undici e mezza e la cena alle sei. Per darti
ragione del fatto che ti hanno in pugno e possono cancellarti tutto, anche le
certezze minime di un quotidiano abusato. Amore e morte in bilico sulla busta
gialla con i raggi che stringi tra le dita da un’ora e questi ancora non ti chiamano.
Dentro gli ospedali mi sorprendo a spiare le femmine con un guizzo nella spina
che è fretta d’esistere. Con l’insistenza della mia voglia che grida “ti porterò
via di qui, nel nome di tutte le cosce del mondo”.
L’odore dell’ospedale è una cosa densa, è l’ospedale. Quelli che nella vita
inorridiscono se scoprono che un uccello gli ha cagato sul parabrezza, ora qui devi
darsi ragione del fatto che quell’omino si porta al collo il sacco con le
proprie merde che sciaguattano. In quel sacco ci son gli spiccioli di resto per
una vita spesa e tu abbozzi e non c’è carità cristiana ma piuttosto la
consapevolezza che potrebbe toccare anche a te. I medicinali, il cibo, il
sudore dei panni arrangiati, i pappagalli e le padelle, il riscaldamento che
funziona come funziona. Questo è soprattutto l’ospedale. Una memoria di odori
che non fa i conti con l’anosmia, perché quegli odori sono immagini, sono
concrete pareti affrescate d’orrore. In Morte a credito, Celine descrive gli
odori densi delle povere case che il medico protagonista di quelle pagine va a
misurare in sincrono con un livore che gli cresce dentro e che trova nell’umano
il portatore mai sano di un morbo maledetto. Celine era medico. Appunto. Invece
i medici dell’ospedale li riconosci subito perché si sono allenati a prendere
la massima distanza e sono sempre in bell’ordine, a stridere con certi cascanti
panni da degente e curati e abbronzati e hanno lo stetoscopio che è come la
maschera del monatto delle incisioni medievali e scaccia il morbo. I medici non
sentono gli odori. Meglio. Gli odori evitano i medici.
Finale
Camminare per i corridoi di un
ospedale è come spiare la morte dal buco della serratura.
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