martedì 13 dicembre 2011

il cuore è uno zingaro e s'è fatto la macchina del cardiologo






Io me lo ricordo di quando sono andato al cine che c’era “balla coi lupi”. Avevo addosso una bella porzione di giovinezza, che son passati a spanna più di venti anni e era in un cinema di Perugia che forse ora non è più un cinema ma anche Perugia ora non è più Perugia e quindi i conti tornano. Mi ricordo anche che il film durava come un film e mezzo e quindi toccava appoggiare un supplemento in biglietteria e mi portavo dietro la ragazza e pagavo io pure se ero uno abbastanza fuori da queste smancerie ma a farmi pagare il cinema mi sentivo una tragica citazione gucciniana e quindi ci tenevo a fare la parte mia. E mi ricordo che quel film non mi era piaciuto, m’era sembrato una gondola in miniatura colle lucine da comprare a Venezia sulle bancarella che confrontato alle storie di laguna vere fa la sua misera figura. Però lo so che le gondole luminose hanno più mercato delle storie che piacciono a me. Lo so da sempre. Da quando mi hanno regalato una gondoletta luminosa almeno. Da quando studiavo lo sciamare degli scarafaggi dai tombini prima dell’acqua alta. Ma questa è un’altra storia. L’indiano di quel film si chiamava “vento nei capelli” o giù di lì, che dev’essere stato per via che quello che gli cavalcava davanti sofriva di aerofagia ma per quanto cercassi di destrutturare un’impalcatura narrativa fatta di stereotipi da spot pubblicitario tutti attorno a me si commuovevano. Quando ammazzavano il lupo “due calzini” la gente piangeva. Ora io volevo dirglielo “fratelli, il lupo non c’è più a giro perché li abbiamo ammazzati tutti, amici il lupo è quella roba lì che proiettate nell’immaginario dei vostri figlioletti per dare carne alla paura, sodali il lupo se ve lo trovate davanti non vi commuove di certo ma non ve lo trovate davanti perché un lupo me l’ha detto che ai cuccioli per fargli paura gli dicono “ti prende l’uomo cattivo” e loro hanno più ragione di noi a sostenere questa tesi, numeri alla mano”. Invece non ho detto nulla. Il film continuava raccontando come vivono i pellerossa e come è affascinante il loro legame armonico con la natura. Poi arrivano i bianchi e sterminano tutti. E giù di nuovo a piangere. Si accendevano le luci e tutti cogli occhi gonfi gonfi.

Un giorno invito Gianni Berengo Gardin a parlare a un nutrito gruppo di docenti delle superiori. Si parla di memoria e narrazione fotografica. Sempre ‘sta dannata narrazione direte voi. Io batto il ferro perché quello è il mestiere mio assegnato. Gianni è uno dei fotografi italiani più importanti di sempre, sicuramente il più testimoniato a livello editoriale. Gianni è uno che usa la macchina fotografica per raccontare ma con la consapevolezza che i suoi scatti non sono contorno alla storia ma sono piuttosto agenti di storia. Gianni entrava con Basaglia nei manicomi e ci raccontava l’orrore di quelle stanze intonacate a merda, sputi, sangue e disperazione. Gianni invece del filtro davanti alla lente sembrava avesse montato delle sbarre di ferro, tante sono le foto che raccontano il mondo oltre le grate.   



Tutti guardavano compiaciuti gli scatti. Gianni faceva vedere le foto di Venezia, col bacio sotto i portici, e quell’altra della coppia a bordo oceano dentro la macchina, un’icona senza tempo. Tutti guardavano compiaciuti gli scatti. Gianni alla fine della meraviglia mostrava i campi degli zingari e gli interni delle roulotte e i topi e i bambini. La gente lasciava da parte la meraviglia e cominciava a mormorare “a me m’hanno rubato la radio in macchina” “a mia cugina gli sono entrati in casa”. Uguali agli indiani della pellicola ma questi erano sotto casa non come i lupi e i pellerossa relegati in parchoi e riserve e quindi da piangere non c’era un cazzo di niente. A me non mi salta in mente di fare le tirate sul fatto che gli zingari son buoni e bravi che li conosco e bene e son dei discreti figli di puttana ma guardo tutti questi indignai e immagino non nutrano lo stesso risentimento per l’uomo in giacca e cravatta della banca anche se la porzione di furto consumata da quello lì va oltre tutte le autoradio possibili. Senza un briciolo di fottuta retorica ma piuttosto per completezza dell’informazione.



E allora mi son ricordato un altro film. Parla di due motociclisti come son motociclista io e tanti altri, e forse se lo sono è per aver consumato anche io la mia fetta consistente di suggestione filmica. ‘Sti due motociclisti non hanno una dimora fissa, guarda tu come fossero zingari. Se ne vanno in giro e vivono violando la legge, guarda un po’ tu, come capita agli zingari. ?Sti due motociclisti incontrano a un certo punto un altro sbiellato e son lì a raccontarsi che la gente, quel mucchiame lì indistinto di idea negata che definiamo per fiacchezza dell’informazione “la gente”, passa il tempo a parlarti dell’individuo ma quando se lo trovano davanti l’individuo poi si cagano addosso. E infatti la gente lo ammazza a bastonate quello sbiellato lì e poi si lavora anche gli altri due la bella gente lasciandoli morti sull’asfalto a farsi portare dalle note di Roger mc Guinn che è compartecipe dell’original soundtrack. Insomma io ho visto ‘sto film e l’ho capita la storia che devi averci ben presente l’idea di libertà, che l’idea che la ragione è della maggioranza non funziona, che la massa mugghiante non ha cervello ma monta come il fiume di piena sull’argine debole e porta come il fiume carichi di merda e carogne. ‘Sto film mi ha spiegato che ad averci le idee preconfezionate, già saltate nella padella, non c’è guadagno. Con buona pace di quelli che al cinema i film gli hanno insegnato a piangere fino allo scorrere dell’ultimo titolo di coda.





Ora, mentre scrivo, nell’aria torinese stagna ancora la puzza di bruciato. Una ragazza dopo aver scopato col suo uomo per paura della famiglia dice che l’hanno violentata gli zingari. Dalle Vallette, che non è proprio una zona d’agio, partono un mucchio di persone che dice che sono ultras della juve e pensa tu il cortocircuito delle appartenenze e delle territorialità che alle Vallette c’è pure il carcere torinese e le Vallette sono uno dei contenitori urbani riempito negli anni Sessanta o giù di lì di tutti i meridioni possibili. Bruciano un campo nomadi, che non mi sono simpatici a prescindere, perché io al cinema piango solo per Dumbo, ma che non posso odiare per abitudine. Non odio niente per abitudine, tranne i luoghi comuni e l’isteria collettiva. Ma evidentemente questi il film dei due motociclisti non l’hanno visto o non ci hanno capito un cazzo. Questi preferiscono averci un’idea collettiva, anabolizzata di leggende metropolitane e distorsioni del reale, questi si riconoscono sotto un segno d’apparttenenza, un grugnito, una svastica, un qualcosa. Preferiscono fare così che averci delle idee tutte loro, costruite a martellate su quello che la vita gli fa passare davanti. Sarà così. Come diceva Danilo Dolci “non sentite l’odore del fumo”. No, mi ripeto, questi il film dei due motociclisti non l’hanno mica visto mi ripeto. O non ci hanno capito un cazzo. Può essere.