L'enoteca si chiama “Il Coguaro”:
Non ci è mai venuto in mente di chiederne il motivo. Siamo gente che
pratica la plausibilità come stile di vita. E poi, in quel locale
lì, domandare è scortesia. Lo capisci guardando le facce e,
meglio, i tatuaggi distribuiti a casaccio sulle braccia degli
abituali appoggiati al bancone. Disegni sulla pelle fatti alla buona,
un ago e l'inchiostro rubato a una biro. Graffiti epidermici fatti
nella mezza ombra di qualche cella del regno mentre si resta a
scontare qualche innocenza fraintesa. Mille anni prima di questo e di
quello e di tutto. Quando il mondo era ancora in bianco e nero.
Braccia di maschi vecchi, Braccia di femmine vecchie, storie vecchie
portate sulla pelle che casca sblusata sull'anima e sulle ossa.
L'albo da colorare di un popolo basso, armato di una grammatica
storpia che governa aliti in bonaccia di parole. Braccia e pelle e
disegni stanno lì a regalarti una sorta di cappella sistina delle
maledizioni a un dio qualsiasi. Federico lo chiama il discount
dell'umanità e, mentre lo dice, troviamo anche noi posto nello
scaffale di competenza, nelle offerte speciali con la data di
scadenza taroccata. E le facce lì dentro sono un carnevale dipinto
da Ensor e pochi denti nelle bocche e occhiali aggiustati con il
nastro isolante. In un angolo c'è la chitarra che tiene in tiro sei
corde uguali che fanno più stendino che arte. Sei MI cantino
impiccati alla disperata e annodati come cime di nervi saltati alla
bitta del molo ultimo.
La vita di un uomo è leggera d'ombra
ma questo non le impedisce di colare a picco.
Aggrappati al relitto del bancone si
beve spalla a spalla con il naufragio degli altri ed è furia di
buttarsi in gola il nero denso del pintone per restare a galla
ancora. Quante volte sono partiti e un treno valeva l'altro,
un'occhiata era coltello e non c'era mai dono e si godeva del rubato.
Quante volte si sono sentiti immortali e già morti e vittime e boia
e fuggire gli sbirri e non avere paura mai tranne quando c'era da
avercene sul serio. Quante volte hanno unito carne alla carne, con la
rassegnazione dell'acqua che passa dal tubo crepato e con l'ingiuria
di qualche maledetta nostalgia. “Mangio quello che riesco a
pescare” dice quel clone tisico di un cantante da balera
invecchiato precocemente dalla gonorrea e con le dita macchiate di
nicotina. “Mangio quello che riesco a pescare”, come a dire non
ho bisogno di nessuno. “Mangio quello che riesco a pescare”, come
a dire mi accontento e ho giorni avanti e dietro da guardare senza
dar credito all'attesa. “Mangio quello che riesco a pescare” e se
pensi che questa città e tenuta alla larga dal mare da un patto tra
alpi e appennini e l'unica acqua che ci corre dentro è quella dei
fiumi avvelenati, compreso il padre di tutte le acque dolci italiche,
riempito di pesci siluro che se li mangiano all'Est nel nome di una
miseria che è quasi un marchio registrato nei secoli. E ni cosa
peschiamo noi, di che cosa campiamo? Lì a quel bancone ci fanno
posto e ci salutano come ospiti di pregio. Il vino è buono, ottimo.
A versarlo sono lui o lei, una coppia uscita da una tela di Kokoshka
che fa il verso sarcastico a Botero ma più morbidi e con un sentore
di mediterraneo. Lui dal profondo Sud, lei donna di Fiandra, come
certi tessuti di pregio che si portò nel corredo mia madre e che non
uscivano mai dal baule attendendo un'occasione che non venne mai. E
il vino è buono, se puoi pagare il giusto è di pregio sul serio e
te lo versano con competenza e godono a spiarti la sorpresa in bocca
e nel viso. E poi la chitarra e cantare cose che non avresti
sospettato d'averci in gola e una sera io e Federico, con altri due
usciti da una decorazione di un carretto siciliano, ci siamo scoperti
a sapere tutta Self Control di Raf e per fortuna lì si può vivere
che a nessuno scappa di filmare e taggare come fanno quelli della
vita altra. Complice un vino sardo che ti rubava alle pieghe amare di
quei giorni si cantava Raf e Baglioni.
Una sera di inizio estate, c'era appena
stato un acquazzone e stavamo lì in bilico su un Vermentino. Fuori
dal Coguaro. Fuori dal giro che conta. Fuori. Il cinema porno di
fronte l'hanno chiuso ed è un peccato. Pareva tutto così in
armonia. Arriva questo basso e secco con la tuta da lottatore di
strada e il borsello e un cane tipo volpino consunto, con un
impermeabilino rosso addosso e puzzo di bestia bagnata. “Mi tieni
un attimo il cane che devo correre da quel mio amico” e indica
verso uno spazio astratto verso la vecchia fabbrica del Lingotto.
Prendo in mano il guinzaglio unto e il cane ringhia e puzza e ha
l'impermeabile tutto storto che quasi lo strozza. Il tipo attacca a
correre. Non l'abbiamo più visto.