Poche cose mettono tristezza come
l'uomo vestito da Babbo Natale davanti ai grandi magazzini o
all'ingresso del ristorante la sera. Ernie alle corde vocali che
esplodono nella gola dei babbinatali, poveri cristi messi in croce
con il nastro dei regali, e la voce impostata profonda e baritonale,
a grattare lo stridore di tutto quello che non hanno mai urlato in
una vita e resta incrostato tra la carotide e la ghiandola delle
bestemmie.
Poche cose mettono tristezza come
quella voce cavernosa che dovrebbe portarsi dentro una nota allegra e
paciosa e la mano che saluta e la barba finta che pencola e
s'aggrappa come naufraga al relitto delle labbra. Ma la barba, almeno
lei, mi infonde minimo conforto, che mi figuro offra un baluardo
fragile alla puttana morsa del gelo, che tradizionalmente azzanna i
babbinatali e li costringe a barcollare come alpini sul Don.
Poche cose mettono tristezza più
dell'alito del Babbo Natale e pagine ne sono state scritte a migliaia
e fotografie e film e canzoni a raccontare la disperata esistenza
caracollante di quella ombra d'uomo che si cela dentro i panni rossi e
il cappuccio e tutto l'armamentario che sappiamo. I bambini poi,
quelli sono la maledizione di quel mestiere lì. S'avvicinano spesso
timidi e tu, condannato Babbo Natale per via del capestro di
quell'intrico di debiti minimi invalicabili, che sono le bollette e
gli affitti arretrati, sei lì ad accoglierli con il sorriso che non
hai mai saputo. Senza contare il conto aperto come una coltellata
recente al Coguaro, il bar solito, che da un giorno all'altro potrebbe
trasformarsi in un embargo al conforto di quel vino da poco, unico
indizio di resistenza nella vita tua. E devi fargli una carezza a
quei banbini. Proprio tu che i figli sono un forse nei tuoi giorni.
Proprio tu che muori ogni volta che finiscono le ore che ti sono state
assegnate, settimanali e d'ufficio, per essere padre sotto lo sguardo
giudice del mondo, mentre li riporti alla madre che s'è fatta una
vita decente e il cardine di quella decenza pare essere la voce di
quel pezzo di merda che risponde al citofono e avresti potuto esserci
tu al suo posto, con la tua voce vera e non con questo scherzo
baritonale e artefatto dei babbinatali. I figli salgono le scale e si
girano a salutarti con le mani ancora sporche del gelato che gli hai
saputo offrire coi soldi prestati apposta. E sorridi dal vetro di
quel portone che non ti è dato varcare nel nome di quella voce al
citofono e nel nome di quell'alito tuo, che ti riconosci da solo. E
ti vergogni di sentirti sollevato mentre i figli se ne vanno e ti
lasciano a far di conto con i giorni tuoi, che non hai potuto
condividere con nessuno, arrivando a parlare, senza crederci, anche
di dignità. Te ne vai e intanto nel vino acido perennemente
depositato nel fondo della tua anima galleggia il dubbio di non
avergli mai fatto una carezza a quei figli che salutano e ora, ironia
della malasorte, ti pagano per carezzare serialmente bambini
sconosciuti che ti fiutano come un'impostura e non si fidano e
dimenticano la timidezza e ti disprezzano e qualcuno ti assesta un
calcio maledetto alle gambe bruciate dal freddo della strada. E non
puoi bestemmiare, per non perdere l'occasione di due franchi da
infilare nel tascone della pancia, badando che a fine serata i
tossici non decidano di farti la festa e le monete. Cerchi quindi di
essere simpatico per ingraziarti la mano del genitore che fruga nelle
tasche.
“Grazie signore”.
Che beffa ringraziare il signore,
qualsiasi signore, con la bella grazia di quell'alito.
E pace in terra agli uomini di scarsa
voluttà.
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