Si vive una morte sola. Ieri mattina chiamo Erne che oltre a
essere il titolare di Enò a Sansalvario è pure moltissimo amico mio, che i
nostri figli son nati a distanza di poche ore proprio dodici anni fa e da
allora non abbiamo più smesso di vederci e sentirci perché quelli simili a
volte si scoprono e non si perdono più. Insomma Ste e Pina sono al mare in
tenda con bambini nostri e quasi nostri e io son qui a Torino e gli telefono a
Erne che ho una mezza idea di andarmi a mangiare la tiella con i polpi che fa
lui con la ricetta di mia madre e così ci scoppiamo una bottiglia di bianco
freddo seduti a mezzanotte a quei tavolini che stanno in bilico tra il paradiso
e l’inferno di quei posti lì al buio. Siccome Erne ha il commercio nel sangue
mi risponde “Invece di venire a mangiare da me, mollo tutto e ce ne andiamo a
mangiare il pesce a Bergeggi”. “A Bergeggi? Son centoventi chilometri minimo,
che col ritorno raddoppiano e io domani mattina devo lavorare.””Ma ho la
macchina a gas” “Ah… a gas… e allora andiamo a Begeggi.” Sempre così, di fronte
alla logica ferrea cedo il campo e s’attiva il mio pericoloso sonprontismo.
Esco dalla casa editrice verso le sei, porto la moto a casa, il tempo di far
fare una corsa ai cani e di prendermi un caffè col cannolo al bar e Erne plana
con la pazzesca Volvo blu da magliaro che gli ho fatto comprare io. On the road
again.. Parliamo di politica e di Torino negli anni Settanta e ci fermiamo
all’autogrill per il seicentesimo caffè della mia giornata e nel passaggio dal
Piemonte alla Liguria ci ficchiamo in una sorta di tempesta nera nera che però
alla vista del mare ci abbandona e torna a rompere i coglioni a quelli
dall’altra parte, ai piemontesi. Sempre così, arrivi da Torino in una merda di
tempo appiccicoso e pioggia e nuvole e appena ti alzi di petto sul mare che
arriva davanti cambia il clima e cambiano gli odori e tu non capisci perché le
case editrici stanno a Torino e non a Spotorno. Stiamo andando in un posto che
Erne ha scoperto questo inverno, o l’altro inverno, o dieci inverni prima. Dice
che non si può comunicare col tizio che lo gestisce e insomma arriviamo lì alla
cieca ma siamo nati cani ciechi e non ci fa problemi. Le femmine son partite da
Albenga e l’appuntamento è lì in giro più o meno. Come sempre e sempre con
bella magia di ritrovarsi quasi per caso e di certo per culo. Il navigatore
della Volvo ha un mostruoso accento tedesco per cui alla terza curva alziamo le
mani al cielo colti dalla sindrome del rastrellamento. Cerco di pensare
rapidamente al nome di battaglia con cui verremo ricordati ma Erne con una
manata azzera l’istitutrice sadomaso del navigatore e navighiamo a vista che ci
è più congeniale. Infatti arrivati a Spotorno puntiamo il muso direttamente verso
Varigotti, in direzione opposta a quella giusta. La Liguria ha due versi soli
nell’andare, o di qua, o di là, che corrispondono a il mare alla tua destra e
il mare alla sinistra. Se però non sai un cazzo di geografia è come giocare il
rosso o il nero. Noi giochiamo rosso sempre e canniamo direzione subito.
Parliamo e parliamo e parliamo e a Finale Ligure, che se si chiama finale vuol
dire che lì termina qualcosa, ci rendiamo conto che Bergeggi non esiste,
l’hanno cancellata. Intanto le femmine ci telefonano che hanno trovato il posto
e si stanno già piazzando. Prendi due femmine che son sortite vive da tutte le
vite possibili, affidagli dei bambini e quelle ti spaccheranno il mondo con
noncuranza e avranno ancora il tempo dei sorrisi. Invece io e Erne siamo nel
buio della nostra nozione geografica insabbiata su vecchi sussidiari. Si parla
di galera e di vecchie storie di amici
per far la parte di quelli che hanno altro da pensare che trovare
Bergeggi ma quasi vien voglia di riaccendere la voce teutonica del navigatore.
Fanculo. Erne dice che riconosce il posto e io obietto che il camioncino delle
femmine non c’è e quindi, che son ben conscio che le femmine ci battono e mica
ai punti proprio coll’imbarazzo del tappeto del ring a fior di faccia, non siamo arrivati. Ci fermiamo e non
siamo al posto. Non siamo nemmeno a Bergeggi a dire il vero. Attacchiamo a dire
ma che nomi del cazzo hanno ‘sti paesi. Laigueglia, Bergeggi, Spotorno,
Varigotti. Ci raccontiamo che Cesare Pavese andava a Varigotti e facciamo i
disinvolti. Poi di colpo il camioncino delle femmine si palesa e anche le
femmine medesime a bordo strada che fanno gesti e ridono. Fanculo. Ora per anni
ci scherzeranno. Decidiamo di dire che c’è stato un incidente sull’autostrada
ma io non ce la faccio e confesso tutto prima di scendere dalla Volvo. Sono ancora
sotto l’influenza traumatica della voce del navigatore. Insomma siamo arrivati.
C’è la spiaggia libera di sera e c’è una capanna sbilenca che sta in piedi con
lo sputo e ci sono i tavoli scompagnati tra la sabbia e le rocce, pochi tavoli
a dire il vero e c’è il nome di sto posto scritto a pennarello su un pezzo di plastica
gialla. Gagollo si chiama e io mi riprometto di scoprire senza la magia di google
ma per bocca di qualcuno del posto che cazzo è il gagollo. Intanto facciamo
chiarezza sulla situazione. Cooperativa di pescatori che arrivi lì e mangi quello
che s’è pescato, in un bailamme di casini e insulti che si capisce che lì nessuno
ha fatto l’alberghiero e noi ci adeguiamo senza problemi. Sul foglio alla peggio
c’è scritto cinque sei portate che poi sono pesce alla griglia misto (quello
che capita), pesce fritto misto (quello che capita) trancio di spada (però il menù
avverte che costa molto e non dice quanto), trancio di tonno (però il menù avverte
che costa molto lo stesso ma meno di quell’altro. Lo giuro. Il giorno dopo leggerò recensioni su
internet di gente inorridita dal servizio e dai modi. Noi siamo stati in paradiso
e lo dico da subito così mi tolgo il pensiero. Il fritto misto costa venti euro
a cristiano e mi sembra davvero troppo però siamo arrivati fin lì e è il compleanno
di Dani e di Marta e c’è il mare che schiuma a pochi metri da noi e ordiniamo
una bottiglia e insomma si ordina un paio di piatti di pasta col pesce e fritto
per quattro. Devo ora premettere che io e Erne mengiamo come cinque persone normali
affamate. Quando arriva il fritto non ci posso credere. Una monumentale piramide
di gamberi e alici e sogliole e calamari e boghe e ficarelle e chissà cosa. Una cosa che riempie buona parte dello
spazio della tavola da sei e che si alza prepotentemente verso il cielo come il
Tikal di tutti i fritti di pesce dell’universo. Lo ammetto, ci siamo battuti
come leoni ma qualcosa l’abbiamo lasciata. Non era materialmente possibile
mangiare tutto quel pesce. Io e Erne alla vista buttiamo il tocco e a ritorno devo
guidare io e quindi mi tengo basso coi consumi alcolici e mi scoppio giusto una
Menabrea. Non tanto per noi ma piuttosto per la simpatica possibilità che io e
Erne di notte sulla vecchia Volvo attiriamo di certo l’attenzione di tutti i calimeri
appostati lungo la strada. Restiamo lì fino a mezzanotte, i bambini scrivono
dei “ti amo” qualcosa sulla sabbia, io faccio saltare sassi piatti a filo dell’onda
e nel buio. Per tutta la sera da due altoparlanti scassi arrivava De Andrè e mangiare
gamberi fritti bevendo birra ghiacciata mentre a Sidun si consuma il dramma a
fior di voce del genovese è un bel vivere. Sono anni che non riesco più ad
ascoltare De Andrè fuori da casa mia e tra le mie cose, che ormai l’hanno
cucinato in tutte le salse e ammetto di averci messo anche la zampa mia ma lì, in
quel momento intendo, era perfettissimo. La morte sua. Per la nostra lasciate
un messaggio e vi richiameremo.
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