giovedì 12 luglio 2012

Romance in Bergeggi




Si vive una morte sola. Ieri mattina chiamo Erne che oltre a essere il titolare di Enò a Sansalvario è pure moltissimo amico mio, che i nostri figli son nati a distanza di poche ore proprio dodici anni fa e da allora non abbiamo più smesso di vederci e sentirci perché quelli simili a volte si scoprono e non si perdono più. Insomma Ste e Pina sono al mare in tenda con bambini nostri e quasi nostri e io son qui a Torino e gli telefono a Erne che ho una mezza idea di andarmi a mangiare la tiella con i polpi che fa lui con la ricetta di mia madre e così ci scoppiamo una bottiglia di bianco freddo seduti a mezzanotte a quei tavolini che stanno in bilico tra il paradiso e l’inferno di quei posti lì al buio. Siccome Erne ha il commercio nel sangue mi risponde “Invece di venire a mangiare da me, mollo tutto e ce ne andiamo a mangiare il pesce a Bergeggi”. “A Bergeggi? Son centoventi chilometri minimo, che col ritorno raddoppiano e io domani mattina devo lavorare.””Ma ho la macchina a gas” “Ah… a gas… e allora andiamo a Begeggi.” Sempre così, di fronte alla logica ferrea cedo il campo e s’attiva il mio pericoloso sonprontismo. Esco dalla casa editrice verso le sei, porto la moto a casa, il tempo di far fare una corsa ai cani e di prendermi un caffè col cannolo al bar e Erne plana con la pazzesca Volvo blu da magliaro che gli ho fatto comprare io. On the road again.. Parliamo di politica e di Torino negli anni Settanta e ci fermiamo all’autogrill per il seicentesimo caffè della mia giornata e nel passaggio dal Piemonte alla Liguria ci ficchiamo in una sorta di tempesta nera nera che però alla vista del mare ci abbandona e torna a rompere i coglioni a quelli dall’altra parte, ai piemontesi. Sempre così, arrivi da Torino in una merda di tempo appiccicoso e pioggia e nuvole e appena ti alzi di petto sul mare che arriva davanti cambia il clima e cambiano gli odori e tu non capisci perché le case editrici stanno a Torino e non a Spotorno. Stiamo andando in un posto che Erne ha scoperto questo inverno, o l’altro inverno, o dieci inverni prima. Dice che non si può comunicare col tizio che lo gestisce e insomma arriviamo lì alla cieca ma siamo nati cani ciechi e non ci fa problemi. Le femmine son partite da Albenga e l’appuntamento è lì in giro più o meno. Come sempre e sempre con bella magia di ritrovarsi quasi per caso e di certo per culo. Il navigatore della Volvo ha un mostruoso accento tedesco per cui alla terza curva alziamo le mani al cielo colti dalla sindrome del rastrellamento. Cerco di pensare rapidamente al nome di battaglia con cui verremo ricordati ma Erne con una manata azzera l’istitutrice sadomaso del navigatore e navighiamo a vista che ci è più congeniale. Infatti arrivati a Spotorno puntiamo il muso direttamente verso Varigotti, in direzione opposta a quella giusta. La Liguria ha due versi soli nell’andare, o di qua, o di là, che corrispondono a il mare alla tua destra e il mare alla sinistra. Se però non sai un cazzo di geografia è come giocare il rosso o il nero. Noi giochiamo rosso sempre e canniamo direzione subito. Parliamo e parliamo e parliamo e a Finale Ligure, che se si chiama finale vuol dire che lì termina qualcosa, ci rendiamo conto che Bergeggi non esiste, l’hanno cancellata. Intanto le femmine ci telefonano che hanno trovato il posto e si stanno già piazzando. Prendi due femmine che son sortite vive da tutte le vite possibili, affidagli dei bambini e quelle ti spaccheranno il mondo con noncuranza e avranno ancora il tempo dei sorrisi. Invece io e Erne siamo nel buio della nostra nozione geografica insabbiata su vecchi sussidiari. Si parla di galera e di vecchie storie di amici  per far la parte di quelli che hanno altro da pensare che trovare Bergeggi ma quasi vien voglia di riaccendere la voce teutonica del navigatore. Fanculo. Erne dice che riconosce il posto e io obietto che il camioncino delle femmine non c’è e quindi, che son ben conscio che le femmine ci battono e mica ai punti proprio coll’imbarazzo del tappeto del ring a fior di faccia,  non siamo arrivati. Ci fermiamo e non siamo al posto. Non siamo nemmeno a Bergeggi a dire il vero. Attacchiamo a dire ma che nomi del cazzo hanno ‘sti paesi. Laigueglia, Bergeggi, Spotorno, Varigotti. Ci raccontiamo che Cesare Pavese andava a Varigotti e facciamo i disinvolti. Poi di colpo il camioncino delle femmine si palesa e anche le femmine medesime a bordo strada che fanno gesti e ridono. Fanculo. Ora per anni ci scherzeranno. Decidiamo di dire che c’è stato un incidente sull’autostrada ma io non ce la faccio e confesso tutto prima di scendere dalla Volvo. Sono ancora sotto l’influenza traumatica della voce del navigatore. Insomma siamo arrivati. C’è la spiaggia libera di sera e c’è una capanna sbilenca che sta in piedi con lo sputo e ci sono i tavoli scompagnati tra la sabbia e le rocce, pochi tavoli a dire il vero e c’è il nome di sto posto scritto a pennarello su un pezzo di plastica gialla. Gagollo si chiama e io mi riprometto di scoprire senza la magia di google ma per bocca di qualcuno del posto che cazzo è il gagollo. Intanto facciamo chiarezza sulla situazione. Cooperativa di pescatori che arrivi lì e mangi quello che s’è pescato, in un bailamme di casini e insulti che si capisce che lì nessuno ha fatto l’alberghiero e noi ci adeguiamo senza problemi. Sul foglio alla peggio c’è scritto cinque sei portate che poi sono pesce alla griglia misto (quello che capita), pesce fritto misto (quello che capita) trancio di spada (però il menù avverte che costa molto e non dice quanto), trancio di tonno (però il menù avverte che costa molto lo stesso ma meno di quell’altro. Lo giuro.  Il giorno dopo leggerò recensioni su internet di gente inorridita dal servizio e dai modi. Noi siamo stati in paradiso e lo dico da subito così mi tolgo il pensiero. Il fritto misto costa venti euro a cristiano e mi sembra davvero troppo però siamo arrivati fin lì e è il compleanno di Dani e di Marta e c’è il mare che schiuma a pochi metri da noi e ordiniamo una bottiglia e insomma si ordina un paio di piatti di pasta col pesce e fritto per quattro. Devo ora premettere che io e Erne mengiamo come cinque persone normali affamate. Quando arriva il fritto non ci posso credere. Una monumentale piramide di gamberi e alici e sogliole e calamari e boghe e ficarelle e chissà cosa.  Una cosa che riempie buona parte dello spazio della tavola da sei e che si alza prepotentemente verso il cielo come il Tikal di tutti i fritti di pesce dell’universo. Lo ammetto, ci siamo battuti come leoni ma qualcosa l’abbiamo lasciata. Non era materialmente possibile mangiare tutto quel pesce. Io e Erne alla vista buttiamo il tocco e a ritorno devo guidare io e quindi mi tengo basso coi consumi alcolici e mi scoppio giusto una Menabrea. Non tanto per noi ma piuttosto per la simpatica possibilità che io e Erne di notte sulla vecchia Volvo attiriamo di certo l’attenzione di tutti i calimeri appostati lungo la strada. Restiamo lì fino a mezzanotte, i bambini scrivono dei “ti amo” qualcosa sulla sabbia, io faccio saltare sassi piatti a filo dell’onda e nel buio. Per tutta la sera da due altoparlanti scassi arrivava De Andrè e mangiare gamberi fritti bevendo birra ghiacciata mentre a Sidun si consuma il dramma a fior di voce del genovese è un bel vivere. Sono anni che non riesco più ad ascoltare De Andrè fuori da casa mia e tra le mie cose, che ormai l’hanno cucinato in tutte le salse e ammetto di averci messo anche la zampa mia ma lì, in quel momento intendo, era perfettissimo. La morte sua. Per la nostra lasciate un messaggio e vi richiameremo.

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