mercoledì 9 novembre 2011

a immagine e somiglianza





Vengo da mille mestieri e faccio mille mestieri. Nessuna possibilità di fare dunque bene davvero. Frugo anche nella memoria, con le dita veloci del borseggiatore sull’autobus carico di sudori e bestemmie di una qualsiasi ora di punta. Di buono c’è che le mie vittime designate non subiscono gli scossoni delle frenate brusche e gli sguardi astiosi di quelli dello “scusi, alla prossima scende”, limitandosi a passare da uno schedario a un tavolo, nei casi più fortunati, o, ed è peggior sorte, a venirsene via appiccicate tra loro e vergognose dell’ingiuria del tempo. A me viene chiesto di guardarle le prede mie, strana beffa per i miei occhi incerti, lasciando a loro il compito di accendere emozioni. L’approccio scientifico lo conservo per quelli dall’altra parte della porta, giocandoci l’un l’altro questa mano a bluffare, con presunte professionalità che fanno da paravento a certi intimi entusiasmi. Il lavoro si concretizza in volumi e mostre che non rendono mai piena giustizia, guai se così fosse, del mio motore originario ma che consentono a me di campare e a altri di vivere, sempre con un forse davanti, attraverso il materiale da me selezionato e proposto, un proprio percorso emotivo. Se fin qui non sono stato poco chiaro, goffo espediente di scrittura per aggrapparmi alla vostra attenzione, tanto vale rendere più esplicite le mie mosse svelando, e confido che qualcuno ci sia già arrivato da solo, che l’arte mia è quella di maneggiare anche fotografie e di farne io stesso, cercando di istituire delle riserve testimoniali protette in una realtà dove i bracconieri di ricordi la fanno da padroni. Sull’arbitrarietà del gesto non v’è dubbio e mai sarò qui a sostenere l’imparzialità dei miei sentimenti, che mi ostino a sottolineare influenzano il mio lavoro oltre la dimestichezza con il metodo scientifico che pur cerco di foraggiare e tenere robusto dentro di me. Un metodo che parte dall'idea prima che la verità non esiste. Lascio da parte, almeno tra noi ce ne sbattiamo del cerimoniale, le riflessioni sul valore documentale e sulla possibilità che all’interno di una stessa fotografia siano contenute infinite frecce semantiche in grado di sollecitare specializzate curiosità, centrando l’attenzione su di una sorta di traccia emozionale che non è meno importante dell’implicazione razionalistica che mi spinge a selezionare un’immagine in particolare. Mi sono ritrovato a riflettere su questi meccanismi quando il mio mestiere è scivolato dalla realizzazione di mie storie fotografiche a una più generica misura della narrazione fotografica che passava dal lavoro di altri, realizzato in tempi diversi e in luoghi variati, perchè le coordinate croniche e topiche sono un nesso sulla probabilità per uno che non si fida della verità. Qualche anno fa, son troppi se ci penso,  portavo a conclusione un volume che mi era costato diversi mesi di lavoro vagando per gli archivi della penisola. Mi servivano fotografie italiane scattate in un periodo compreso tra il ‘53 e il ’67 e ovviamente la mole di materiale che mi è passata davanti in quei mesi supera ogni possibile fantasia. Sui criteri della selezione, considerando quella sorta di coazione a ripetere che caratterizza molti dei fotografi di quegli anni rispetto a certe tipologie, la varietà non era tale da consentire impennate narrative particolari ma il lavoro non si presentava certo noioso. Ho seguito la costruzione del volume fino nei suoi particolari minimi e quando a fine marzo l’ho visto nelle vetrine delle librerie e in cima alle classifiche di vendita nazionali, bontà loro, ho cominciato il giro delle presentazioni e delle interviste guardandomi bene dallo sfogliare un testo che pensavo non mi potesse riservare sorprese. Soltanto a fine estate, con rispetto per il mio metabolismo tartarughino, e in modo piuttosto casuale, mi sono ritrovato a risfogliare il volume con curiosità, provando una certa emozione davanti alle immagini che non erano più soltanto la testimonianza efficace di un determinato periodo storico ma che, per averle maneggiate, annusate, spostate, scartate, ripescate e guardate ancora, fino negli interstizi minimi che la sensibilità della pellicola mi consentiva di indagare, sono parte della mia memoria più viva. Guardando alcune fotografie mi sono ricordato di quando per le mie ricerche mi sono fermato a Firenze per una decina di giorni e, per ragioni che mi diventa difficile spiegare  mi capitava talvolta, sempre a dire il vero, di rimanere a dormire la notte in macchina, parcheggiato sulla riva dell’Arno. Di fronte alla biblioteca nazionale per intenderci. La notte si popolava di personaggi, luci e odori tra le cui pieghe il mio sonno trovava brevi tregue e l’alba mi beccava sempre lì, con il coltello aperto nascosto sotto il maglione che rischiava ogni volta di aprirmi lo stomaco e la sveglia sul cruscotto che suonava quando ormai ero già desto. In seguito una copia del libro l’ho portata anche al barista che in quei giorni, senza chiedere mai più di quello che avrei voluto rispondere, mi vedeva entrare cisposo e arruffato e risortire ripulito e reso elegante dai vestiti smessi di mio padre che detto così sembra roba da poco ma era tutta stoffa buona e morbida che ancora indosso a distanza di venti anni.. Nel corso della giornata la mia ricerca riprendeva forma e tornavo ad essere il dottore di qua, dottore c’è questo e dottore posso offrire, che se solo avessero sospettato chissà come mi avrebbero guardato. A distanza di tempo, riguardando le fotografie su cui lavoravo in quel periodo non ho potuto fare a meno di pensare con una certa tenerezza a quei giorni e ho constatato divertito che il materiale selezionato a Firenze, l'archivio del Mondo di panunzio conservato in un sottotetto della biblioteca, è tutto in relazione con la realtà marginale, la periferia depressa e i mille piccoli espedienti della sopravvivenza disperata. Indubbiamente, per il mio libro questi sono temi interessantissimi ma l’influenza della mia esperienza di quei giorni sugli esiti della ricerca è palese.
Lavorando con le fotografie si finisce per fare i conti con il loro potere evocativo che, per la loro stessa natura, agisce in tempi brevissimi su di noi, bastando anche un’occhiata distratta per sollecitare ricordi ed emozioni e mentre scrivo questi appunti disordinati qualcuno magari starà sfogliando il mio volume riconoscendosi in un volto, in un luogo o in un semplice gesto o, e la catena diventa ossessiva, correrà col pensiero al giorno dell’acquisto del libro stesso, alla faccia della commessa, al bar dove fanno quel caffè di merda e via di questo passo. Per quello che riguarda me, con i soldi di questo libro ho comprato una macchina molto più spaziosa di quella di prima.







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