giovedì 29 settembre 2011

panciotto mio fatti capanna





Le dita, quelle grosse dita che gli fanno impaccio quando accarezza un bambino o tiene in mano una tazzina buona,  passano e ripassano sul velluto del panciotto. Seduto sulla poltrona nel buio del teatro che per questa sera è cinematografo. Palco d'onore il suo e su tutto ci son velluti di pregio. Come su quel panciotto che proprio non se lo voleva mettere e invece alla fine l'hanno convinto. Gli hanno assegnato una poltrona quasi vicino al signor Giovanni, al Pastrone direbbe parlando di confidenza con gli altri che lavorano con lui, che poi sono soprattutto gli attrezzisti e i facchini. Con quella gente ci sta bene, è la sua gente e la fatica di portare casse sulle spalle è una lingua universale e lui l'ha imparata che quasi era ancora bambino. E sarà stato quello a farlo grande e grosso. Bocche in casa da sfamare ce n'erano parecchie e allora via a lavorare giù al porto che per lui, genovese di Sant'Ilario, era il confine di tutti i mondi possibili. Con quei moli che si coprivano di merci e la gente che s'ammassava per prendere le navi, che a partire, con la maledetta miseria, che t'arriva alle spalle come un calcio nel sedere e ti butta fuori di casa, è un dispiacere anche quando la casa è ammobiliata solo di fame e freddo. E ora Bartolomeo il gigante del porto  è lì con quel panciotto da signori che le sue grosse dita non smettono di percorrere sulla traccia tattile del velluto. Seduto vicino a lui, nel palco d'onore, c'è anche il poeta, e davvero gli darebbe gusto caricarselo su quelle sue spalle larghe per portarlo all'osteria del Caricamento. Giusto per far vedere ai suoi amici di sempre com'è fatta quella gente lì. Gabriele d'Annunzio si chiama quell'omarino, il poeta, che lui quasi gli scappa da ridere a vedere come si comporta ma sente che tutti gli altri lo portano in rispetto e allora gli monta quella vergogna alla gola che ce l'aveva anche a Genova quando passava un signore ben vestito. Per non parlare delle donne eleganti, che si capiva che lui non sarebbe mai riuscito a parlarci nemmeno se si fosse caricato di coraggio con il vino. Il poeta, che roba. Hanno un bel ripetergli che questo suo nome qui del cinematografo, che lui ora lo chiamano Maciste anche quando non è nel film, l'ha inventato proprio il Gabriele d'Annunzio. Del resto a lui l'avevano battezzato Bartolomeo e con quel nome lì non ci crede nessuno che sei un personaggio di quei film di eroi, ambientati in una di quelle epoche che lui non l'ha neanche tanto capito ma è chiaro da come li vestono che è roba degli antichi tipo i romani o la bibbia o magari  anche quelli dell'Africa. Lui quasi si sente di conoscerla l'Africa meglio di quegli altri, per quanto siano signori. Fin da bambino ha sentito i racconti dei marinai che tornavano dai paesi lontani e gli pare proprio d'averla sentita mica una volta sola questa storia che in Africa ci sono quelle razze che hanno le tuniche bianche addosso e saranno vestiti come quando si gira la pellicola del cinematografo. Nè più nè meno. Certo in Africa è difficile che hanno la luce elettrica e invece il Pastrone l'ha usata moltissimo nel suo film per fare quella pellicola bellissima che adesso sono tutti lì a vederla alla proiezione al teatro Regio di Torino e c'è il coro e l'orchestra e il poeta e le donne eleganti e il panciotto a filo di dita. Quel Pastrone è uno che la sa lunga. Ha fatto costruire gli stabilimenti dove fanno il cinematografo e a Torino son tutti dietro a fare cinematografo ma il migliore è proprio il signor Giovanni che ha capito prima di tutti che quello lì è davvero un bell'affare e ha smesso di fare il musicista, proprio nell'orchestra del Teatro Regio che sta suonando questa sera, per buttarsi nell'avventura del cinema. E ha anche scoperto lui, Pagano Bartolomeo, che faceva lo scaricatore, il camallo si dice a Genova, e lo ha portato a Torino perchè gli serviva uno grande e grosso, un gigante buono con una forza spropositata, che poi tanto il cinema anche esagera certe volte e la gente se lo immagina ma gli piace crederci uguale. Adesso sono tutti lì che si proietta per la prima volta la pellicola di Cabiria che è stata un lavoro lungo e pieno di cose che l’hanno lasciato meravigliato e che vorrebbe far vedere a quelli rimasti a lavorare al porto. Questa pellicola dura quasi quattro ore, accompagnata dalla musica dell'orchestra perchè il sonoro in quei film, siamo nel 1914, non c'è ancora. La vicenda è d'ambientazione storica. Pastrone ha la passione per quel genere di pellicole e sembra destinato a grandissimi successi ma lui è uomo che si fa travolgere dai nuovi entusiasmi che il progresso tecnologico e scientifico gli suggerisce e, solo quattro anni dopo  Cabiria, abbandonerà la carriera cinematografica all'apice per dedicarsi agli studi di medicina. Bartolomeo Pagano ormai per tutti Maciste, girerà ancora moltissimi film, fino agli anni Trenta, tutti incentrati sulla figura del gigante forzuto al servizio del bene. Non tornerà più a fare il camallo al porto ma prenderà abitudine alle luci degli stabilimenti cinematografici, al ronzio della cinepresa .
Si riaccendono le luci e parte un lungo applauso. Tutti gli sguardi sono rivolti a loro. Pastrone fa brevi inchini, gli attori sorridono, il poeta fa quelle sue facce strane ma dev’essere per quello che è poeta.  Bartolomeo non gli presta attenzione e ringrazia di averci addosso un bel panciotto per quel’occasione.







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