Magari qualcuno leggendo si risentirà e penserà che faccio
il furbo ma io davvero non mi ricordo se in quel periodo avevo più o meno una
storia, una ragazza o qualcosa di simile. Acchiappavo quel che passava al volo,
e non è che fosse proprio periodo di passo, che ero stato lontano, lontanissimo
per uno che girava con mezzi di fortuna, un paio di anni da Udine e poi ero
tornato perché se c’è un posto dove non morirò mai di fame è in quella città lì
dove conosco tutti e tutto. M’ero iscritto all’università, che laurearmi in
qualcosa che avesse a che fare con l’arte non mi sembrava male, e ero tornato a
stare dai miei che però dopo qualche mese se ne andarono a Perugia
lasciandomi a misurare il mio
tempo in un’ alternanza di esami, poche lezioni frequentate e lavori, tutti i
lavori del mondo, presi e mollati il giusto per recuperare due lire. Sempre
ficcato nel mio mondo di pagine, canzoni, notti lunghissime, risate, risse,
moto sempre smontate, anche quando le usavi, e come accennato, qualche femmina
baciata mentre era distratta. Erano giorni confusi e prima di baciare ti
passavi la manica della felpa a strofinare le labbra per svellere quella
persistenza di birra e sonno. Lei veniva a lezione e corrispondeva al santo
graal di tutti i miei desideri, che io quando una è mora e ha gli occhi verdi
stramazzo lì dove mi trovo, che sia l’autobus o lo scoglio marino. Se poi è
anche selvatica e imprevedibile e addirittura mi fa ridere sono del gatto e a
nulla vale che provi a dissimulare, che la maledizione mia d’essere mezzo cane
mi fa muovere le chiappe frenetiche a recupero di code ancestrali e credo si
noti. Lei ritenevo avesse un fidanzato perché c’era uno fisso che stava con lei
e quando scoprii che era il fratello e che arrivavano dall’altro capo del mio
mondo possibile e vivevano a un boccone di terra da villaggio metallico in una
casa che stava per diventare anche un po’ mia, decisi di farmi avanti. A modo
mio ovviamente, che ho l’infamante marchio della surrealtà. Come nella peggiore
puntata di Happy Days la invitai a una festa, che se me l’avessero detto un
giorno prima che avrei avvicinato una a lezione per dirle “ci sarebbe ‘sta
festa domani sera, ci vuoi venire con me” non ci avrei creduto di sicuro. E
invece. La festa era una roba
assurda che finì in una rissa che ci piazzò sulla pagina del giornale del
giorno dopo e che coinvolse un merdosissimo fascio che anni dopo cominciò
un’imbarazzante scalata politica. Una festa roccherrolle a palla con la musica
e la roba da bere, tutta la roba da bere del mondo, e ancora roccherolle che
noi eravamo l’incarnazione di quel pulsare lì. Il tutto avveniva nella casa
appena costruita dei genitori di un amico, un villetta ancora da imbiancare e
arredare in mezzo alla campagna. Ingresso cinquemila lire. E io così le dissi “allora
dammi cinquemila lire per l’ingresso”. Il vaffanculo che mi sibilò a fior
d’orecchio era la conferma che quella era la donna della mia vita ma non ci fu
il tempo di spiegarglielo che già se n’era andata con altra gente e un tremendo
veneto di Rovigo che si vedeva parecchio che le sbavava dietro. Ovviamente tra
me, che pure son messo come son messo, e un veneto di Rovigo, non c’è possibile
competizione ma intanto incassavo il colpo. Come se non bastasse seppi che quel
fine settimana arrivava l’uomo suo da Pisa e che sarebbero andati a Padova a
vedere i Cure. Ce n’era abbastanza per mollare. Già, ma allora vi siete già
dimenticati che era di razza mora con occhi verdi e guizzo nello sguardo e
certo modo di vestire e di muoversi che ogni volta che la vedevo l’omino
dell’entusiasmo che sta nella cabina di pilotaggio del mio cervello gridava
“roccherroll fratello”. Ero così preso che m’ero scordato di guardare come
stava messa a tette per cui un pomeriggio andai alla fine della lezione per
constatare appositamente. La maledetta conferma. Camminava per il corridoio
mentre in un gruppo di nove persone, e per me sette erano già superflue,
andavamo al bar e quello di Rovigo le parlava fitto cantilenando come parlano
quelli di Rovigo e io guardavo quel culo guadagnare l’ingresso del locale e
pensavo che volevo camminarci accanto a quelle chiappe lì, con una mano mia
infilata nella tasca dei jeans e ridere sul serio e di confidenza. Lei del
resto dopo la storia della festa non mi si filava di pezza e io per attirare l’attenzione
sapevo fare le impennate col motorino razza Ciao e sapevo vincere le gare con
le barchette di carta sulla roggia la notte e sapevo mangiare un budino intero
aspirandolo con un soffio dal piatto e sapevo bere un calice di vino senza mani
e senza rovesciarne un goccio e sapevo uscirne vivo da certe battaglie in
strada e nei locali ma tutta quella roba lì pareva essere totalmente inutile in
quel frangente e era più o meno tutto quello che avevo, se si escludono le
migliaia di inutili poesie che già sapevo a memoria e la penna stilo ficcata
nella tasca interna del chiodo. A proposito di chiodo vale la pena soffermarsi
su come mi conciavo. Avevo dei completi assurdi neri giacca e pantalone con la
maglietta col le scritte sotto e erano vestiti presi dagli armadi di anziani
parenti e che accompagnavo ai soliti anfibi. C’era poi la seconda e ultima
versione che comprendeva chiodo nero che ancora indosso, lo stesso voglio dire,
e jeans e anfibi. Diciamo che la mia immagine non ha subito nel tempo radicali
trasformazioni e, di conseguenza, nemmeno benefici. Pochissime idee brutte ma
fisse. Portavo braccialetti di pezza e cuoio sparsi, occhiali da sole trovati e
i capelli tagliati cortissimi ai lati e dietro e lasciati come capitava sopra.
A volte lunghi parecchio a volte cortissimi. Dipendeva dalla macchinetta
tosacani che condividevo con tutto un branco di sgangherati e che usavamo per
tagliarci i capelli reciprocamente nei tempi morti seduti ai margini del
campetto da basket. Sul motorino razza Ciao c’era scritto “vola magica scheggia
come una scorreggia” e nemmeno questo poteva attivare forti motori seduttivi.
Ma faceva molto ridere quelli del branco mio che a loro volta facevano a gara
di trovate per addobbare i loro motorini razza Ciao e le loro vespe razza
Vespa. Lei proprio non pareva colpita da tutto quello sfavillio che mi
circondava. Le ero totalmente indifferente. Vennero le vacanze natalizie, se ne
tornò a casa col fratello salutandomi in una sera in cui s’era rimasti in
diversi attorno a un tavolo a dirci come ci piaceva far l’amore e lei rideva e
raccontava e a me quasi mi parte un embolo ma resto lì coll’aria di uno che s’è
imbarcato a nove anni su un cargo battente bandiera panamense e le ha viste
tutte. La mattina della loro partenza volevo salutarla ma il Ciao non partiva e
faceva un maledetto freddo e io non mi sarei immaginato di andare in vibra e
tensione per non riuscire ad arrivare alla stazione per un saluto che io ti
saluto in genere girandomi e prendendo la porta. Ho acchiappato una bici dal
mucchio delle bici che stavano accatastate in strada portate lì un po’ da tutti
e elette a bene collettivo. Una maledetta bici da donna col cesto davanti che
si muoveva a stento e giù a pedalare dentro il chiodo spesso e pesante. Sono
arrivato al treno e ho sorriso mentre già partiva e quasi volevo far credere
d’essere lì per altro. A quel punto l’università s’era svuotata e io son
tornato alla vita mia e avevamo questo amico che aveva il padre che dirigeva un
ristorante lussuosissimo che non dirò nemmeno sotto tortura e una sera che
c’era la chiusura per turno siamo entrati e ci siamo fatti la più incredibile
cena della mia vita e insomma procedevo col passo mio di sempre e un po’
dimenticavo un po’ proprio non ci riuscivo. Credo, ne sono certo a dire il
vero, d’aver provato a lavorare sulla memoria da resettare ficcato nel letto di
un’amica e siccome son stupido proprio di fabbrica poi gliel’ho pure detto che
pensavo a quell’altra e questa mi ha cacciato e era un peccato perché al suo
cane stavo simpaticissimo e anni dopo lei e il nuovo fidanzato mi hanno
incontrato e lei faceva la distante che lui era uno a modo ma da come mi
festeggiava il cane si capiva che ci doveva essere stata una certa confidenza.
Incidenti di percorso. E comunque se ti tirano una bottiglia vuota di
Ballantine e ti urlano delle brutte cose e tu sei sdraiato nudo sul letto,
rivestirsi e telare è un gesto atletico significativo.
A casa mia non c’era il telefono e per chiamare io dovevo
andare alla cabina del policlinico e dicevo sempre “chiamo dal policlinico” e
alla gente gli veniva un colpo. Dove stavamo noi non c’erano i bar vicini e da
bambini andavamo tutti a prendere il gelato al policlinico tra vecchi col
catetere e parenti del defunto. Insomma se mi cercavi dovevi metterti
d’impegno. La gente dell’università era tornata a casa per le feste e all’epoca
a Udine c’erano facoltà che non esistevano nel resto d’Italia e questo spiegava
la provenienza da tutta la penisola e certe solide amicizie mie con gente come Giorgione di Monopoli o
Silvia di Ferrara. Sarebbero tornati tutti dopo il sei mi ripetevo. Incontrarla
per strada, davanti all’osteria mia, che conviene sempre averci un locale che è
una seconda casa, fu un vero colpo.
Era il tre gennaio. Cazzo ci faceva lì. Entriamo dentro che fuori fa
freddo e ridiamo e le dico cosa prendi e dentro mi maledico che non ho l’ombra
di una lira e in tasca ho solo la stilo, il coltello, una copia dei canti di
Maldoror, edizione Feltrinelli, e una sveglietta a pile che usavo come
orologio. Lei ha una fame da lupo perché ha viaggiato la notte filata e io non
capisco perché abbia ancora i bagagli e non sia passata da casa. Parliamo un
casino e ridiamo e parliamo e ridiamo e lei ordina altro e a quel punto se si
deve morire ordino altro anche io che questo è un momento buono ma io sono
certo che qui non mi fanno credito e non ci devo pensare ora che il guizzo di
quegli occhi verdi è mio e muoia il mondo adesso. Poi lei dice, mi accompagni a
casa che devo posare i bagagli e mi vengono a trovare questi altri che oggi
andiamo a farci un giro a Trieste e puoi venire anche tu, che tu di sicuro la
conosci Trieste. “Eccerto che la conosco” e vaffanculo che se sai che sono di
Udine non ti aspetti che ci abbia mai messo piede a Trieste ma lei tutte ‘ste
dinamiche mica le conosce e io reggo il gioco e conto i secondi a quando ci
avvicineremo alla cassa. Arriviamo e la cicciona del bancone ringhia una cifra
a dire il vero più che ragionevole e allora io la guardo, sorrido e dico “non
ho un centesimo”. Ometto di dire che per un giro complicato nel pomeriggio
batto cassa e intasco della moneta fresca. Resto lì a mezzo sorriso. Lei ride e
paga e già lo sapeva. Andiamo a casa sua che è alla periferia della periferia e
abbandono il motorino razza Ciao e lo guardo dal vetro del bus che sento che
quello è un mezzo tradimento ma lui può capire. A casa siamo appena entrati e
arrivano gli altri e c’è questo ragazzo di milano che fa il militare a Udine e
che si capisce che anche lui è matto di quegli occhi verdi e poi c’è un’amica
che ora è difficile ricordare con serenità e altri e si parte in treno per
Trieste. Lei mi presta i soldi. Andiamo e quello di Milano parla tutto il tempo
e non molla e io mi faccio distrarre che è la natura mia e penso che tra questo
qui e quello ufficiale di Pisa, ritagliarsi un posto è un lavoro e chi cazzo me
lo farà fare e quasi quasi mollo che io posso vivere senza…
Camminiamo per i vicoli della Cavana e loro saranno
simpatici e sorridenti ma io sono cresciuto per strada. A un certo punto ci
perdiamo io e lei e entriamo in una cazzo di bettola e io all’epoca fumavo e,
sempre all’epoca, si fumava nei locali con disinvoltura. Attorno a noi c’è
gente che mangia patate in teccia e beve vino. Parliamo vicini e a un certo
punto lei mi bacia. Sorrido, mentre dentro mi esplode un vulcano che passa
dall’anima e arriva ai corpi cavernosi. Mi accendo una sigaretta e spengo il
cerino ficcandolo nella scatola aperta dei suoi fratelli cerini che tengo
sospesa tra due dita. Si alza una fiamma cattiva e improvvisa e mi incendia i
capelli che, come dicevo, porto arruffati in testa. Tutti ci guardano e lei mi
aiuta a spegnere le braci in testa e c’è odore di bistecca bruciata e le ceneri
sospese nell’aria dei miei capelli si stanno depositando sui piatti di patate
in teccia degli avventori. Lei ride che quasi gli viene una sincope. Ci
prendiamo un treno che non ricordo e torniamo a casa sua. Non esiste più quello
di Pisa e quello di Rovigo e quello di Milano. Non esistono più nemmeno alcune
ciocche spesse dei miei capelli e imparerò da lì a farmene una serena ragione.
Solo recentemente mi ha confessato di essere venuta dalla
stazione coi bagagli al bar proprio a cercarmi. Non capisco mai niente. Mi
piace non capire a volte. All’alba sono tornato a piedi a recuperare il motorino
razza Ciao che era rimasto davanti al bar. Ho chiesto scusa.
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