mercoledì 28 marzo 2012

e bruciar di passione



Magari qualcuno leggendo si risentirà e penserà che faccio il furbo ma io davvero non mi ricordo se in quel periodo avevo più o meno una storia, una ragazza o qualcosa di simile. Acchiappavo quel che passava al volo, e non è che fosse proprio periodo di passo, che ero stato lontano, lontanissimo per uno che girava con mezzi di fortuna, un paio di anni da Udine e poi ero tornato perché se c’è un posto dove non morirò mai di fame è in quella città lì dove conosco tutti e tutto. M’ero iscritto all’università, che laurearmi in qualcosa che avesse a che fare con l’arte non mi sembrava male, e ero tornato a stare dai miei che però dopo qualche mese se ne andarono a Perugia lasciandomi  a misurare il mio tempo in un’ alternanza di esami, poche lezioni frequentate e lavori, tutti i lavori del mondo, presi e mollati il giusto per recuperare due lire. Sempre ficcato nel mio mondo di pagine, canzoni, notti lunghissime, risate, risse, moto sempre smontate, anche quando le usavi, e come accennato, qualche femmina baciata mentre era distratta. Erano giorni confusi e prima di baciare ti passavi la manica della felpa a strofinare le labbra per svellere quella persistenza di birra e sonno. Lei veniva a lezione e corrispondeva al santo graal di tutti i miei desideri, che io quando una è mora e ha gli occhi verdi stramazzo lì dove mi trovo, che sia l’autobus o lo scoglio marino. Se poi è anche selvatica e imprevedibile e addirittura mi fa ridere sono del gatto e a nulla vale che provi a dissimulare, che la maledizione mia d’essere mezzo cane mi fa muovere le chiappe frenetiche a recupero di code ancestrali e credo si noti. Lei ritenevo avesse un fidanzato perché c’era uno fisso che stava con lei e quando scoprii che era il fratello e che arrivavano dall’altro capo del mio mondo possibile e vivevano a un boccone di terra da villaggio metallico in una casa che stava per diventare anche un po’ mia, decisi di farmi avanti. A modo mio ovviamente, che ho l’infamante marchio della surrealtà. Come nella peggiore puntata di Happy Days la invitai a una festa, che se me l’avessero detto un giorno prima che avrei avvicinato una a lezione per dirle “ci sarebbe ‘sta festa domani sera, ci vuoi venire con me” non ci avrei creduto di sicuro. E invece.  La festa era una roba assurda che finì in una rissa che ci piazzò sulla pagina del giornale del giorno dopo e che coinvolse un merdosissimo fascio che anni dopo cominciò un’imbarazzante scalata politica. Una festa roccherrolle a palla con la musica e la roba da bere, tutta la roba da bere del mondo, e ancora roccherolle che noi eravamo l’incarnazione di quel pulsare lì. Il tutto avveniva nella casa appena costruita dei genitori di un amico, un villetta ancora da imbiancare e arredare in mezzo alla campagna. Ingresso cinquemila lire. E io così le dissi “allora dammi cinquemila lire per l’ingresso”. Il vaffanculo che mi sibilò a fior d’orecchio era la conferma che quella era la donna della mia vita ma non ci fu il tempo di spiegarglielo che già se n’era andata con altra gente e un tremendo veneto di Rovigo che si vedeva parecchio che le sbavava dietro. Ovviamente tra me, che pure son messo come son messo, e un veneto di Rovigo, non c’è possibile competizione ma intanto incassavo il colpo. Come se non bastasse seppi che quel fine settimana arrivava l’uomo suo da Pisa e che sarebbero andati a Padova a vedere i Cure. Ce n’era abbastanza per mollare. Già, ma allora vi siete già dimenticati che era di razza mora con occhi verdi e guizzo nello sguardo e certo modo di vestire e di muoversi che ogni volta che la vedevo l’omino dell’entusiasmo che sta nella cabina di pilotaggio del mio cervello gridava “roccherroll fratello”. Ero così preso che m’ero scordato di guardare come stava messa a tette per cui un pomeriggio andai alla fine della lezione per constatare appositamente. La maledetta conferma. Camminava per il corridoio mentre in un gruppo di nove persone, e per me sette erano già superflue, andavamo al bar e quello di Rovigo le parlava fitto cantilenando come parlano quelli di Rovigo e io guardavo quel culo guadagnare l’ingresso del locale e pensavo che volevo camminarci accanto a quelle chiappe lì, con una mano mia infilata nella tasca dei jeans e ridere sul serio e di confidenza. Lei del resto dopo la storia della festa non mi si filava di pezza e io per attirare l’attenzione sapevo fare le impennate col motorino razza Ciao e sapevo vincere le gare con le barchette di carta sulla roggia la notte e sapevo mangiare un budino intero aspirandolo con un soffio dal piatto e sapevo bere un calice di vino senza mani e senza rovesciarne un goccio e sapevo uscirne vivo da certe battaglie in strada e nei locali ma tutta quella roba lì pareva essere totalmente inutile in quel frangente e era più o meno tutto quello che avevo, se si escludono le migliaia di inutili poesie che già sapevo a memoria e la penna stilo ficcata nella tasca interna del chiodo. A proposito di chiodo vale la pena soffermarsi su come mi conciavo. Avevo dei completi assurdi neri giacca e pantalone con la maglietta col le scritte sotto e erano vestiti presi dagli armadi di anziani parenti e che accompagnavo ai soliti anfibi. C’era poi la seconda e ultima versione che comprendeva chiodo nero che ancora indosso, lo stesso voglio dire, e jeans e anfibi. Diciamo che la mia immagine non ha subito nel tempo radicali trasformazioni e, di conseguenza, nemmeno benefici. Pochissime idee brutte ma fisse. Portavo braccialetti di pezza e cuoio sparsi, occhiali da sole trovati e i capelli tagliati cortissimi ai lati e dietro e lasciati come capitava sopra. A volte lunghi parecchio a volte cortissimi. Dipendeva dalla macchinetta tosacani che condividevo con tutto un branco di sgangherati e che usavamo per tagliarci i capelli reciprocamente nei tempi morti seduti ai margini del campetto da basket. Sul motorino razza Ciao c’era scritto “vola magica scheggia come una scorreggia” e nemmeno questo poteva attivare forti motori seduttivi. Ma faceva molto ridere quelli del branco mio che a loro volta facevano a gara di trovate per addobbare i loro motorini razza Ciao e le loro vespe razza Vespa. Lei proprio non pareva colpita da tutto quello sfavillio che mi circondava. Le ero totalmente indifferente. Vennero le vacanze natalizie, se ne tornò a casa col fratello salutandomi in una sera in cui s’era rimasti in diversi attorno a un tavolo a dirci come ci piaceva far l’amore e lei rideva e raccontava e a me quasi mi parte un embolo ma resto lì coll’aria di uno che s’è imbarcato a nove anni su un cargo battente bandiera panamense e le ha viste tutte. La mattina della loro partenza volevo salutarla ma il Ciao non partiva e faceva un maledetto freddo e io non mi sarei immaginato di andare in vibra e tensione per non riuscire ad arrivare alla stazione per un saluto che io ti saluto in genere girandomi e prendendo la porta. Ho acchiappato una bici dal mucchio delle bici che stavano accatastate in strada portate lì un po’ da tutti e elette a bene collettivo. Una maledetta bici da donna col cesto davanti che si muoveva a stento e giù a pedalare dentro il chiodo spesso e pesante. Sono arrivato al treno e ho sorriso mentre già partiva e quasi volevo far credere d’essere lì per altro. A quel punto l’università s’era svuotata e io son tornato alla vita mia e avevamo questo amico che aveva il padre che dirigeva un ristorante lussuosissimo che non dirò nemmeno sotto tortura e una sera che c’era la chiusura per turno siamo entrati e ci siamo fatti la più incredibile cena della mia vita e insomma procedevo col passo mio di sempre e un po’ dimenticavo un po’ proprio non ci riuscivo. Credo, ne sono certo a dire il vero, d’aver provato a lavorare sulla memoria da resettare ficcato nel letto di un’amica e siccome son stupido proprio di fabbrica poi gliel’ho pure detto che pensavo a quell’altra e questa mi ha cacciato e era un peccato perché al suo cane stavo simpaticissimo e anni dopo lei e il nuovo fidanzato mi hanno incontrato e lei faceva la distante che lui era uno a modo ma da come mi festeggiava il cane si capiva che ci doveva essere stata una certa confidenza. Incidenti di percorso. E comunque se ti tirano una bottiglia vuota di Ballantine e ti urlano delle brutte cose e tu sei sdraiato nudo sul letto, rivestirsi e telare è un gesto atletico significativo.
A casa mia non c’era il telefono e per chiamare io dovevo andare alla cabina del policlinico e dicevo sempre “chiamo dal policlinico” e alla gente gli veniva un colpo. Dove stavamo noi non c’erano i bar vicini e da bambini andavamo tutti a prendere il gelato al policlinico tra vecchi col catetere e parenti del defunto. Insomma se mi cercavi dovevi metterti d’impegno. La gente dell’università era tornata a casa per le feste e all’epoca a Udine c’erano facoltà che non esistevano nel resto d’Italia e questo spiegava la provenienza da tutta la penisola e certe solide amicizie mie con  gente come Giorgione di Monopoli o Silvia di Ferrara. Sarebbero tornati tutti dopo il sei mi ripetevo. Incontrarla per strada, davanti all’osteria mia, che conviene sempre averci un locale che è una seconda casa, fu un vero colpo.  Era il tre gennaio. Cazzo ci faceva lì. Entriamo dentro che fuori fa freddo e ridiamo e le dico cosa prendi e dentro mi maledico che non ho l’ombra di una lira e in tasca ho solo la stilo, il coltello, una copia dei canti di Maldoror, edizione Feltrinelli, e una sveglietta a pile che usavo come orologio. Lei ha una fame da lupo perché ha viaggiato la notte filata e io non capisco perché abbia ancora i bagagli e non sia passata da casa. Parliamo un casino e ridiamo e parliamo e ridiamo e lei ordina altro e a quel punto se si deve morire ordino altro anche io che questo è un momento buono ma io sono certo che qui non mi fanno credito e non ci devo pensare ora che il guizzo di quegli occhi verdi è mio e muoia il mondo adesso. Poi lei dice, mi accompagni a casa che devo posare i bagagli e mi vengono a trovare questi altri che oggi andiamo a farci un giro a Trieste e puoi venire anche tu, che tu di sicuro la conosci Trieste. “Eccerto che la conosco” e vaffanculo che se sai che sono di Udine non ti aspetti che ci abbia mai messo piede a Trieste ma lei tutte ‘ste dinamiche mica le conosce e io reggo il gioco e conto i secondi a quando ci avvicineremo alla cassa. Arriviamo e la cicciona del bancone ringhia una cifra a dire il vero più che ragionevole e allora io la guardo, sorrido e dico “non ho un centesimo”. Ometto di dire che per un giro complicato nel pomeriggio batto cassa e intasco della moneta fresca. Resto lì a mezzo sorriso. Lei ride e paga e già lo sapeva. Andiamo a casa sua che è alla periferia della periferia e abbandono il motorino razza Ciao e lo guardo dal vetro del bus che sento che quello è un mezzo tradimento ma lui può capire. A casa siamo appena entrati e arrivano gli altri e c’è questo ragazzo di milano che fa il militare a Udine e che si capisce che anche lui è matto di quegli occhi verdi e poi c’è un’amica che ora è difficile ricordare con serenità e altri e si parte in treno per Trieste. Lei mi presta i soldi. Andiamo e quello di Milano parla tutto il tempo e non molla e io mi faccio distrarre che è la natura mia e penso che tra questo qui e quello ufficiale di Pisa, ritagliarsi un posto è un lavoro e chi cazzo me lo farà fare e quasi quasi mollo che io posso vivere senza…
Camminiamo per i vicoli della Cavana e loro saranno simpatici e sorridenti ma io sono cresciuto per strada. A un certo punto ci perdiamo io e lei e entriamo in una cazzo di bettola e io all’epoca fumavo e, sempre all’epoca, si fumava nei locali con disinvoltura. Attorno a noi c’è gente che mangia patate in teccia e beve vino. Parliamo vicini e a un certo punto lei mi bacia. Sorrido, mentre dentro mi esplode un vulcano che passa dall’anima e arriva ai corpi cavernosi. Mi accendo una sigaretta e spengo il cerino ficcandolo nella scatola aperta dei suoi fratelli cerini che tengo sospesa tra due dita. Si alza una fiamma cattiva e improvvisa e mi incendia i capelli che, come dicevo, porto arruffati in testa. Tutti ci guardano e lei mi aiuta a spegnere le braci in testa e c’è odore di bistecca bruciata e le ceneri sospese nell’aria dei miei capelli si stanno depositando sui piatti di patate in teccia degli avventori. Lei ride che quasi gli viene una sincope. Ci prendiamo un treno che non ricordo e torniamo a casa sua. Non esiste più quello di Pisa e quello di Rovigo e quello di Milano. Non esistono più nemmeno alcune ciocche spesse dei miei capelli e imparerò da lì a farmene una serena ragione.
Solo recentemente mi ha confessato di essere venuta dalla stazione coi bagagli al bar proprio a cercarmi. Non capisco mai niente. Mi piace non capire a volte. All’alba sono tornato a piedi a recuperare il motorino razza Ciao che era rimasto davanti al bar. Ho chiesto scusa. 

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