Dovevo averci intorno ai cinque anni e posso ben dire che è
il primo ricordo che gestisco in memoria in tutta la sua completezza.
Dall’inizio alla fine ricordo tutto, le voci, le luci, i sapori e gli odori e
non è di poco conto vista la vicenda. Insomma un venerdi partiamo alla volta
della campagna. Partiamo dal Friuli e puntiamo il muso della gloriosa 124
bianca, che accompagnò i nostri spostamenti per una quindicina di anni, in
direzione della campagna modenese. Siamo ospiti in un’azienda agricola. Dopo un
anno in caserma un ragazzo congedandosi aveva detto a mio padre di andarlo a
trovare e di solito son quelle storie che muoiono con il tempo e con la
distanza e invece noi siamo partiti sul serio e un pomeriggio siamo piombati
nell’aia di questa fattoria enorme. Centinaia di maiali. Interi capannoni
riempiti di maiali e poi le mucche nelle stalle e i conigli. Mi ricordo una
bambina, che io avevo già il vizio di innammorarmi perdutamente, che mi portava
a vedere i coniglietti piccini. Poi un cavallo di quelli che lo vai a vedere
con tuo padre e lui si sente in dovere, lo fanno tutti i padri e l’ho fatto
anche io in conclamata paternità, di trattare l’animale con confidenza
accarezzandolo con pacche da intenditore che sono poi come i calci da intenditore
che si assestano alle gomme delle auto da comprare usate. Roba che facciamo per
istinto e senza nessun fondamento scientifico. Mio padre gli parlava al cavallo
con la voce che devi avere per comunicare in corsia privilegiata con quelle
bestie lì e già grazie che l’equino ha cercato di morderlo senza successo che
altrimenti toccava spendere una cifra in ricostruzione massillo facciale.
L’episodio non intaccò minimamente la stima che nutrivo nei confronti di mio
padre che a quell’età ogni padre è Zagor al figlio suo. Ammetto che al turno
mio come padre ho approfittato parecchio della cosa indossando spesso la maglia
di Zagor per maggior enfasi. Ho però capito che il padre eroe invincibile è
stato superato quando nel tema mio figlio, parlando di me, ha scritto “mio
padre è molto simpatico perché fa ridere anche quando non vuole fare ridere e
ama guardare Chi l’ha visto? in
televisione”. Due anni prima aveva scritto “mio padre guida la moto e i
fuoristrada e sa tutto del bosco e del mare e è come un esploratore. Lui riesce
a parlare ai cani e agli animali che cattura molto facilmente”. Come posso dire
come passa il tempo, come posso dire come passa in un lampo. Mi state portando fuori tema. Dunque,
arriviamo in questa enorme azienda agricola e noto oggi una distanza
significativa tra la gestione del lavoro che era tecnologicamente avanzata e lo
stile di vita dei nostri ospiti. Vivevano tutti in una enorme casa e quando
dico tutti intendo una quindicina di persone almento. Non avevano il bagno e le
opzioni era andare in una latrina esterna o fruire dei pitali distribuiti per
la notte. Il regime alimentare era spaventoso e ve lo dice uno che com’è noto
mangia come un sarcopedonte nel periodo degli amori. Insomma la sera ci portano
in questo stanzone con un letto matrimoniale e certi mobili in legno scuro dove
avrebbero trovato sistemazione i miei e attigua a quella stanza ce n’è un'altra
in cui il padrone di casa custodisce una collezione incredibile di bottiglie di
liquore mignon. Tutte le pareti fino al soffitto sono occupate da mensole su
cui sono distribuite centinaia e centinaia di bottigliette con tutti i liquori
del mondo. Una sorta di mausoleo dell’alcolismo. Un baluardo all’espansione
dell’Islam. Mi aprono una brandina proprio al centro della stanza delle
bottigliette. Chiedo a mia madre di fare pipì e lei guarda mio padre che
riprende l’aria da Tarzan della pianura padana e mi fa cenno di seguirlo.
Andiamo fuori, dietro un trattore rosso marca Same e giù a pisciare della bella
che in viaggio avevamo bevuto a gargarozzo dal thermos del tè che mia madre
all’epoca riteneva improponibile partire senza un thermos riempito di una
qualche bevanda casereccia. Bellissimo pisciare così, padre e figlio affiancati
a chi arriva più lontano. Da padre scopri che i figli hanno un potentissimo
getto che ti scatena dubbi sulla prostata e sull’utilizzo sfrenato del tuo attrezzo
che negli anni ha lasciato segni ma ormai non puoi più porci un frenulo. Torniamo dentro e mia madre, che
all’epoca faceva tutte quelle diete delle donne degli anni Settanta e che si
chiamavano “dieta del fantino” “dieta dell’astonauta” “dieta del Biafra”, ci
guarda e pare stia per scoppiare a piangere. La tavola è invasa di maiale in
tutte le forme possibili e anche qualcuna che non sospettavamo. Una betoniera
di tagliatelle viene scolata in una struttura che ricorda i forni Martin
Siemens che erano l’ossessione di quell’ebefrenico del mio professore di
educazione tecnica alle medie. Per un ‘ora buona si sente rumore di mascelle,
che mi immagino sia quell’atmosfera che si crea negli allevamenti di alligatori
al momento del cibo. Giù a bere vino, riempiendo anche il mio bicchiere. I miei
a fine serata salgono le scale verso la camera muovendosi come facoceri nutriti
con grosse quantità di mousse di
LSD. Arriviamo nella stanza, chiudiamo la porta e abbiamo le facce degli ospiti
di quel motel vicino alla palude ma all’epoca devo precisare che il film non
l’avevo ancora visto e quindi quello che vedevo dipinto sui volto dei miei era
un generico orrore. La notte mi son svegliato molte volte. La luce che entrava
dalla finestrella faveva brillare di mille riflessi inquietanti le bottigliette
di liquore e ogni volta che mi rigiravo nelle coperte sentivo dei tintinnii
provenire dalle pareti che non promettevano nulla di buono. E poi nell’angolo
basso c’era una bottiglia di Zabov e io da sempre ero goloso di quel liquore ma
era un amore mai consumato e rimasto a certe schermaglie tra me e le bottiglie
sugli scaffali del supermercato. Ora lo Zabov era lì a pochi centimetri dal mio
viso. Senza sapere né leggere né scrivere restavo immobile in simulazione di
rigor mortis, attendendo l’alba liberatrice. La mattina mia madre mi sveglia e
mentre mi vesto vedo il pitale vicino al letto dei miei. Mi avvicino ed è
riempito significativamente. Chiedo a mia madre cosa sia quella roba che a
tutta prima sembra proprio cacca ma non ci posso credere e soprattutto nessun
umano può produrre una simile quantità per quelle che sono le mie informazioni.
Mia madre mi dice lascia stare e vieni via. Senza spiegazioni. I miei sono in
un disagio evidente. Sono stati male tutta la notte. Mio padre soprattutto che
ha fatto l’uomo e ha tenuto testa su cibo e vino. Scendiamo in cucina e le
vecchie di famiglia stanno friggendo lo gnocco che è questo bolo fritto e
gonfio che si accompagna agli affettati. La colazione è lì che ci aspetta. Ho
la sensazione che mia madre stia per piangere. Invece dice “stanotte il piccolo
ha avuto qualche problema al pancino e abbiamo dovuto usare il vaso”.Sbarro gli
occhi. Bastardi, non sono stato io. Mia madre mi guarda con l’aria che fanno le
madri quando devi restare zitto sul serio. Le vecchie mi circondano e mi dicono
cose tipo “Hai preso un colpo d’aria piccolino. Ora ti facciamo una limonata
calda e passa tutto”. Un incubo. Mio padre sta a capotavola e gli hanno
infilato uno gnocco fritto con la coppa in bocca. Versano vino. “Posso andare a
giocare fuori” dico io che spero di reincontrare la bambina dei conigli. “Vai,
vai che noi si sta qui a far due parole mangiando qualcosina”. Chiudo la porta
alle mie spalle lasciando i miei in balia dello gnocco fritto. Sono decisioni
che pesano ma l’istinto di sopravvivenza prevale. Esco sul piazzale e decido di
avventurarmi tra i capannoni dei maiali. A dire il vero voglio andare a vedere
come funzionano le mungitrici. Corro con i calzoni corti e i sandaletti ai
piedi. All’epoca si usavano dei sandalini in tela bianca e blu con un
automatico sulla fibbia che li allacciava alla caviglia. Il materiale su cui si
basavano quei sandali era la pelle di bambino che si limitavano a coprire con
esili strisce di tela e una suola fatta con la cialda. Scorazzo per l’erba alta
con quella leggiadria che è sempre stato un mio elemento distintivo anche
all’epoca che ero secco come un cane randagio e i miei usavano lo spazio che si
vedeva tra le mie costole per tenerci le riviste. A un certo punto sul lato
sinistro vedo un bel vialetto di cemento bianco bianco. Decido di spostarmi lì per correre
agevolmente. Salto e quello che a tutta prima m’era parso un solido vialetto di
cemento mi inghiotte con un rigurgito che ho ancora nelle orecchie. Comincio a sprofondare
e sotto quella densa schiuma bianca, roba compatta come il calcestruzzo, c’è un
pozzo di raccolta della merda dei maiali. Le merde mobili mi afferrano alle gambe e mi tirano giù e io per fortuna peso poco e mi
aggrappo al bordo con le mani e quella roba mi copre tutto e nello sforzo di
tirarmi fuori mi entra in bocca, mi riempie le narici e le orecchie. Per la paura potrei cagarmi addosso e nessuno
se ne avvedrebbe ma non succede. Sono il solito distrattone. MI tiro fuori a forza
di braccia di bimbo e è uno sforzo di cui ho lucida memoria, una cosa disperata
che diventerà metafora di tutta la mia esistenza. Mi son fatto grosso e testardo
a forza di strapparmi ai gorghi di merda. Cominciando da lì. Finisco nell’erba
esausto. Un sandaletto e i calzoncini son rimasti dentro, a far prova della forza
maledetta che mi imprigionava. Scoppio a piangere ma vorrei vedere voi dopo una
notte tra le bottigliette mignon e la mattina che t’accusano di aver prodotto materiali
organici che nemmeno un rinoceronte e il gran finale piantato a due piedi uniti
nel gran canyon della merda. Mi rialzo e nudo e straccio e coperto di merda, in
un pianto inconsolabile, torno verso la casa. Fuori c’è mio padre che, reduce dallo
gnocco sta con gli altri maschi della tribù a provare il trattore. Mi vedono
arrivare e ,me lo immagino che tutti quelli lì pensano “ma allora stava male
sul serio il bambino” a vedermi sdrucito e coperto di merda. Mio padre mi grida
“Cos’è successo” “Son caduto nella cacca delle mucche” dico io che solo dopo
scoprirò che quella di mucca non è nera nera e liquida. “Fermo lì” mi grida
ancora il genitore. Poi prendono unna pompa di quelle da antisommossa e me la sparano
addosso che nemmeno Rambo, il primo per intenderci, nell’ufficio dello sceriffo. Una volta sgrossato le donne mi mettono
in una grossa tinozza e via di sapone. Il sapore in bocca però resta, che avevo
paura di avvicinarmi troppo alle persone per paura che si sentisse il respiro. Poi
nessuno mi cura più e tutti tornano a tavola. Il pomeriggio partiamo e dopo sei
chilometri mio padre accosta e dorme per sette ore mentre io resto nel sedile
di dietro a sentire nelle orecchie il risucchio della bestia maledetta che mi aveva
rubato la scarpa e le braghe. Qualche settimana dopo cui arriva un pacco, mia
madre lo apre e dentro c’era un sandalo e i calzoncini. Anche no, grazie, devo
aver pensato io. Quelli però eran gente precisa.
"e io piangerò e saranno lacrime di silicone, perchè il futuro tutti ci svelerà per quegli androidi di prima generazione che siamo, difettosi nel chip dell'emozione." blughost
lunedì 12 marzo 2012
confessioni di un artista di merda.
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fondamentalmente io te amo!
RispondiEliminafondamentalmente se mi conosci dal vivo cambi idea.
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