lunedì 12 marzo 2012

confessioni di un artista di merda.


 

Dovevo averci intorno ai cinque anni e posso ben dire che è il primo ricordo che gestisco in memoria in tutta la sua completezza. Dall’inizio alla fine ricordo tutto, le voci, le luci, i sapori e gli odori e non è di poco conto vista la vicenda. Insomma un venerdi partiamo alla volta della campagna. Partiamo dal Friuli e puntiamo il muso della gloriosa 124 bianca, che accompagnò i nostri spostamenti per una quindicina di anni, in direzione della campagna modenese. Siamo ospiti in un’azienda agricola. Dopo un anno in caserma un ragazzo congedandosi aveva detto a mio padre di andarlo a trovare e di solito son quelle storie che muoiono con il tempo e con la distanza e invece noi siamo partiti sul serio e un pomeriggio siamo piombati nell’aia di questa fattoria enorme. Centinaia di maiali. Interi capannoni riempiti di maiali e poi le mucche nelle stalle e i conigli. Mi ricordo una bambina, che io avevo già il vizio di innammorarmi perdutamente, che mi portava a vedere i coniglietti piccini. Poi un cavallo di quelli che lo vai a vedere con tuo padre e lui si sente in dovere, lo fanno tutti i padri e l’ho fatto anche io in conclamata paternità, di trattare l’animale con confidenza accarezzandolo con pacche da intenditore che sono poi come i calci da intenditore che si assestano alle gomme delle auto da comprare usate. Roba che facciamo per istinto e senza nessun fondamento scientifico. Mio padre gli parlava al cavallo con la voce che devi avere per comunicare in corsia privilegiata con quelle bestie lì e già grazie che l’equino ha cercato di morderlo senza successo che altrimenti toccava spendere una cifra in ricostruzione massillo facciale. L’episodio non intaccò minimamente la stima che nutrivo nei confronti di mio padre che a quell’età ogni padre è Zagor al figlio suo. Ammetto che al turno mio come padre ho approfittato parecchio della cosa indossando spesso la maglia di Zagor per maggior enfasi. Ho però capito che il padre eroe invincibile è stato superato quando nel tema mio figlio, parlando di me, ha scritto “mio padre è molto simpatico perché fa ridere anche quando non vuole fare ridere e ama guardare Chi l’ha visto? in televisione”. Due anni prima aveva scritto “mio padre guida la moto e i fuoristrada e sa tutto del bosco e del mare e è come un esploratore. Lui riesce a parlare ai cani e agli animali che cattura molto facilmente”. Come posso dire come passa il tempo, come posso dire come passa in un lampo.  Mi state portando fuori tema. Dunque, arriviamo in questa enorme azienda agricola e noto oggi una distanza significativa tra la gestione del lavoro che era tecnologicamente avanzata e lo stile di vita dei nostri ospiti. Vivevano tutti in una enorme casa e quando dico tutti intendo una quindicina di persone almento. Non avevano il bagno e le opzioni era andare in una latrina esterna o fruire dei pitali distribuiti per la notte. Il regime alimentare era spaventoso e ve lo dice uno che com’è noto mangia come un sarcopedonte nel periodo degli amori. Insomma la sera ci portano in questo stanzone con un letto matrimoniale e certi mobili in legno scuro dove avrebbero trovato sistemazione i miei e attigua a quella stanza ce n’è un'altra in cui il padrone di casa custodisce una collezione incredibile di bottiglie di liquore mignon. Tutte le pareti fino al soffitto sono occupate da mensole su cui sono distribuite centinaia e centinaia di bottigliette con tutti i liquori del mondo. Una sorta di mausoleo dell’alcolismo. Un baluardo all’espansione dell’Islam. Mi aprono una brandina proprio al centro della stanza delle bottigliette. Chiedo a mia madre di fare pipì e lei guarda mio padre che riprende l’aria da Tarzan della pianura padana e mi fa cenno di seguirlo. Andiamo fuori, dietro un trattore rosso marca Same e giù a pisciare della bella che in viaggio avevamo bevuto a gargarozzo dal thermos del tè che mia madre all’epoca riteneva improponibile partire senza un thermos riempito di una qualche bevanda casereccia. Bellissimo pisciare così, padre e figlio affiancati a chi arriva più lontano. Da padre scopri che i figli hanno un potentissimo getto che ti scatena dubbi sulla prostata e sull’utilizzo sfrenato del tuo attrezzo che negli anni ha lasciato segni ma ormai non puoi più porci un frenulo.  Torniamo dentro e mia madre, che all’epoca faceva tutte quelle diete delle donne degli anni Settanta e che si chiamavano “dieta del fantino” “dieta dell’astonauta” “dieta del Biafra”, ci guarda e pare stia per scoppiare a piangere. La tavola è invasa di maiale in tutte le forme possibili e anche qualcuna che non sospettavamo. Una betoniera di tagliatelle viene scolata in una struttura che ricorda i forni Martin Siemens che erano l’ossessione di quell’ebefrenico del mio professore di educazione tecnica alle medie. Per un ‘ora buona si sente rumore di mascelle, che mi immagino sia quell’atmosfera che si crea negli allevamenti di alligatori al momento del cibo. Giù a bere vino, riempiendo anche il mio bicchiere. I miei a fine serata salgono le scale verso la camera muovendosi come facoceri nutriti con  grosse quantità di mousse di LSD. Arriviamo nella stanza, chiudiamo la porta e abbiamo le facce degli ospiti di quel motel vicino alla palude ma all’epoca devo precisare che il film non l’avevo ancora visto e quindi quello che vedevo dipinto sui volto dei miei era un generico orrore. La notte mi son svegliato molte volte. La luce che entrava dalla finestrella faveva brillare di mille riflessi inquietanti le bottigliette di liquore e ogni volta che mi rigiravo nelle coperte sentivo dei tintinnii provenire dalle pareti che non promettevano nulla di buono. E poi nell’angolo basso c’era una bottiglia di Zabov e io da sempre ero goloso di quel liquore ma era un amore mai consumato e rimasto a certe schermaglie tra me e le bottiglie sugli scaffali del supermercato. Ora lo Zabov era lì a pochi centimetri dal mio viso. Senza sapere né leggere né scrivere restavo immobile in simulazione di rigor mortis, attendendo l’alba liberatrice. La mattina mia madre mi sveglia e mentre mi vesto vedo il pitale vicino al letto dei miei. Mi avvicino ed è riempito significativamente. Chiedo a mia madre cosa sia quella roba che a tutta prima sembra proprio cacca ma non ci posso credere e soprattutto nessun umano può produrre una simile quantità per quelle che sono le mie informazioni. Mia madre mi dice lascia stare e vieni via. Senza spiegazioni. I miei sono in un disagio evidente. Sono stati male tutta la notte. Mio padre soprattutto che ha fatto l’uomo e ha tenuto testa su cibo e vino. Scendiamo in cucina e le vecchie di famiglia stanno friggendo lo gnocco che è questo bolo fritto e gonfio che si accompagna agli affettati. La colazione è lì che ci aspetta. Ho la sensazione che mia madre stia per piangere. Invece dice “stanotte il piccolo ha avuto qualche problema al pancino e abbiamo dovuto usare il vaso”.Sbarro gli occhi. Bastardi, non sono stato io. Mia madre mi guarda con l’aria che fanno le madri quando devi restare zitto sul serio. Le vecchie mi circondano e mi dicono cose tipo “Hai preso un colpo d’aria piccolino. Ora ti facciamo una limonata calda e passa tutto”. Un incubo. Mio padre sta a capotavola e gli hanno infilato uno gnocco fritto con la coppa in bocca. Versano vino. “Posso andare a giocare fuori” dico io che spero di reincontrare la bambina dei conigli. “Vai, vai che noi si sta qui a far due parole mangiando qualcosina”. Chiudo la porta alle mie spalle lasciando i miei in balia dello gnocco fritto. Sono decisioni che pesano ma l’istinto di sopravvivenza prevale. Esco sul piazzale e decido di avventurarmi tra i capannoni dei maiali. A dire il vero voglio andare a vedere come funzionano le mungitrici. Corro con i calzoni corti e i sandaletti ai piedi. All’epoca si usavano dei sandalini in tela bianca e blu con un automatico sulla fibbia che li allacciava alla caviglia. Il materiale su cui si basavano quei sandali era la pelle di bambino che si limitavano a coprire con esili strisce di tela e una suola fatta con la cialda. Scorazzo per l’erba alta con quella leggiadria che è sempre stato un mio elemento distintivo anche all’epoca che ero secco come un cane randagio e i miei usavano lo spazio che si vedeva tra le mie costole per tenerci le riviste. A un certo punto sul lato sinistro vedo un bel vialetto di cemento bianco bianco.  Decido di spostarmi lì per correre agevolmente. Salto e quello che a tutta prima m’era parso un solido vialetto di cemento mi inghiotte con un rigurgito che ho ancora nelle orecchie. Comincio a sprofondare e sotto quella densa schiuma bianca, roba compatta come il calcestruzzo, c’è un pozzo di raccolta della merda dei maiali.  Le merde mobili mi afferrano alle gambe e mi  tirano giù e io per fortuna peso poco e mi aggrappo al bordo con le mani e quella roba mi copre tutto e nello sforzo di tirarmi fuori mi entra in bocca, mi riempie le narici e le orecchie.  Per la paura potrei cagarmi addosso e nessuno se ne avvedrebbe ma non succede. Sono il solito distrattone. MI tiro fuori a forza di braccia di bimbo e è uno sforzo di cui ho lucida memoria, una cosa disperata che diventerà metafora di tutta la mia esistenza. Mi son fatto grosso e testardo a forza di strapparmi ai gorghi di merda. Cominciando da lì. Finisco nell’erba esausto. Un sandaletto e i calzoncini son rimasti dentro, a far prova della forza maledetta che mi imprigionava. Scoppio a piangere ma vorrei vedere voi dopo una notte tra le bottigliette mignon e la mattina che t’accusano di aver prodotto materiali organici che nemmeno un rinoceronte e il gran finale piantato a due piedi uniti nel gran canyon della merda. Mi rialzo e nudo e straccio e coperto di merda, in un pianto inconsolabile, torno verso la casa. Fuori c’è mio padre che, reduce dallo gnocco sta con gli altri maschi della tribù a provare il trattore. Mi vedono arrivare e ,me lo immagino che tutti quelli lì pensano “ma allora stava male sul serio il bambino” a vedermi sdrucito e coperto di merda. Mio padre mi grida “Cos’è successo” “Son caduto nella cacca delle mucche” dico io che solo dopo scoprirò che quella di mucca non è nera nera e liquida. “Fermo lì” mi grida ancora il genitore. Poi prendono unna pompa di quelle da antisommossa e me la sparano addosso che nemmeno Rambo, il primo per intenderci, nell’ufficio dello sceriffo.  Una volta sgrossato le donne mi mettono in una grossa tinozza e via di sapone. Il sapore in bocca però resta, che avevo paura di avvicinarmi troppo alle persone per paura che si sentisse il respiro. Poi nessuno mi cura più e tutti tornano a tavola. Il pomeriggio partiamo e dopo sei chilometri mio padre accosta e dorme per sette ore mentre io resto nel sedile di dietro a sentire nelle orecchie il risucchio della bestia maledetta che mi aveva rubato la scarpa e le braghe. Qualche settimana dopo cui arriva un pacco, mia madre lo apre e dentro c’era un sandalo e i calzoncini. Anche no, grazie, devo aver pensato io. Quelli però eran gente precisa.

Una mattina d’estate mia madre sta mettendo a posto la camera mia e sta ribaltando tutto perché io la sera prima in strada ho trovato questo cane che ho chiamato Diana come il cane di quando mio padre era piccolo a  Anzio, che gli inglesi gliel’hanno ammazzato davanti agli occhi per entrare in casa. Di nascosto mi ero portato Diana in camera e me l’ero ficcato nel letto e avevamo dormito della grossa e al mattino avevo le pulci come un randagio che si rispetti. Ammetto che sotto il profilo igienico sanitario ho dato del filo da torcere ai miei. Insomma mia madre stava bollendo la cameretta e a un certo punto mi chiama “Giorgio, vieni un attimo qui”. Doveva essere una cosa grave perché a me e Diana avevano interdetto la stanza. “Cos’è questa?” “L’ho trovata in cortile” “Smettila di raccogliere qualsiasi cosa in giro” “Va bene”. E fu così che la bottiglietta vuota di Zabov venne buttata nella spazzatura.

 

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